Il divano made in Puglia si è scucito

Arrivando dalla costa adriatica, si risalgono i tornanti che portano a Santeramo in Colle, sulle Murge baresi. E si rimane a bocca aperta scoprendo che Natuzzi, una delle rare aziende italiane quotate a Wall Street (dal 1993), ha il cuore che batte quassù, a 400 metri d’altitudine, in una remota cittadina con 26.000 abitanti. Eppure […]

Arrivando dalla costa adriatica, si risalgono i tornanti che portano a Santeramo in Colle, sulle Murge baresi. E si rimane a bocca aperta scoprendo che Natuzzi, una delle rare aziende italiane quotate a Wall Street (dal 1993), ha il cuore che batte quassù, a 400 metri d’altitudine, in una remota cittadina con 26.000 abitanti. Eppure la multinazionale, numero uno in Italia nel settore dell’arredo, mantiene le radici pugliesi da 60 anni. Gli stabilimenti italiani per la produzione di divani e poltrone (e non solo) sono in Puglia e Basilicata. La conceria si trova a Pozzuolo del Friuli (Udine). La fabbrica del poliuretano è a Qualiano (Napoli). Ci sono fabbriche anche in Cina, Romania e Brasile. I suoi negozi nel mondo, a fine 2018, erano 478, di cui gli ultimi aperti a Istanbul, Rotterdam, Glasgow, Preston, Praga, Brno, Buenos Aires, Punta del Este, più altri in Brasile. Nel 2018 è stato siglato l’accordo di joint-venture tra Natuzzi (49%) e Kuka (51%), azienda cinese con più di 3.000 negozi monomarca. Vengono venduti nel mondo prodotti a marchio Natuzzi Italia e Natuzzi Editions, attraverso store, gestiti direttamente o in franchising, e negozi online: migliaia e migliaia di prodotti, da quelli extra lusso, realizzati in Italia e smerciati soprattutto all’estero, ai più economici, forniti pure ad altre catene.

Varcato il cancello del quartier generale a Santeramo si resta ancor più colpiti. Tutto è al posto giusto, in una concretizzazione ideale del mito della “bella Italia”: tecnologia e tradizione, business e fantasia. Oltre cento architetti, designer e stilisti progettano sia i divani sia le location in cui collocarli; si “progetta” persino la rilassante musica di sottofondo. Non solo. Vige un codice etico, stampato in un’elegante edizione: «Un vero e proprio strumento di lavoro», ricorda nella prefazione il fondatore, Pasquale Natuzzi, presidente, AD e stilista del Gruppo, come ama definirsi; perché «il Gruppo Natuzzi ha una missione: creare valore con integrità (…). Vuol dire agire con onestà, lealtà, nel rispetto delle persone, nella totale osservanza della legge». Ciò non preserva da attriti sindacali, ma è un’ottima premessa. La missione – che si può percepire anche visitando il sito dell’azienda – è anche quella di associare l’immagine di Natuzzi con quella del Made in Italy e con quella della Puglia.

Una fase di produzione all’interno della Natuzzi Spa

 

Natuzzi, la multinazionale made in Puglia

L’avventura di Pasquale Natuzzi, classe 1940, è un vero inno al self-made man all’italiana. Nato nella vicina Matera, in Basilicata, secondo dei sette figli di un falegname, a 15 anni era apprendista tappezziere a Taranto; nel 1959 lavorava in proprio per produrre divani e poltrone in un laboratorio grande tre metri per tre; nel 1972 ha fondato la Natuzzi Salotti Srl a Matera, e nel 1973 si è trasferito a Santeramo. Poi successi dopo successi. Con un’accelerazione quasi per caso nel 1982: in giro per New York dopo una fiera canadese, entrò in un grande magazzino della catena Macy’s e vide un anonimo divano in pelle che costava ben 2999 dollari; detto fatto, si accordò per fornire un divano più bello a un prezzo competitivo: 999 dollari. Nel giro di pochi anni il mercato Usa diventò il primo per il Gruppo di Santeramo. Seguì il boom internazionale.

Risultato: il fatturato di Natuzzi SpA nel 2017 (il 2018 non è ancora disponibile) è stato di 449,6 milioni di euro; i dipendenti sono 4.853, metà in Italia e metà all’estero. Insomma, numeri da gigante del settore. Però non è tutto oro quello che luccica. Le cose vanno bene, ma una volta andavano molto meglio. Il gruppo nel 2003, per fare un esempio, fatturava quasi il doppio, 769,6 milioni di euro, e aveva quasi duemila dipendenti in più: 6.224, di cui 3.938 in Italia e 2.286 all’estero.

La crisi economica mondiale e la concorrenza straniera hanno provocato una rivoluzione, dal 2007 in poi. Natuzzi si è salvato dopo una ristrutturazione che ha colpito il suo cuore pugliese e lucano: a dicembre dello scorso anno è stato siglato un accordo con le organizzazioni sindacali per dare avvio al Piano industriale Italia. In vigore dal 1 gennaio 2019, esso garantisce l’occupazione a tempo pieno di circa 1.560 lavoratori nelle sedi pugliesi e lucane. Gli esuberi sono gestiti riportando dentro l’azienda alcune attività (lavorazione del legno e del poliuretano per le imbottiture): 490 dipendenti, attraverso un percorso di riqualificazione professionale, saranno reimpiegati in questi campi, senza ulteriori licenziamenti. Aveva detto un anno fa Pasquale Natuzzi al Corriere della Sera, in una delle rare interviste: «Andare a produrre all’estero avrebbe significato dire a 3.000 dipendenti “scusate non abbiamo più bisogno di voi, andate a casa”. Non ci è mai venuto in mente di fare una cosa simile. Le nostre scelte sono sempre state guidate dalla responsabilità sociale. Da almeno 15 anni lavoriamo al riposizionamento della marca e all’estensione del prodotto: oggi non produciamo più solo divani in pelle ma anche in tessuto, oltre a mobili per la zona giorno e pranzo e per la zona notte».

La sala prototipi della Natuzzi Spa

La Puglia e il mobile che non c’è più

Se Natuzzi resta un colosso, nonostante il fatturato quasi dimezzato in 15 anni, chi si è rotto le ossa sul serio va cercato tra le piccole e medie aziende che hanno cavalcato l’onda del made in Puglia, con prodotti propri o lavorando nell’indotto. Tra 2008 e 2014 c’è stata una perdita di 6.000 posti di lavoro, con la chiusura di molte imprese che non hanno avuto le forze o la capacità per rinnovarsi. Un terremoto tale che Confindustria Puglia non ha più neppure un settore dedicato al Distretto del divano: esiste solo sulla carta ma è inattivo, così non esistono neppure dati aggiornati.

Guido Santilio, della Tecnarredo Srl, è tra quelli che ce l’hanno fatta. La sua azienda, che ha sede a Modugno (Bari), lavora nell’indotto e produce imbottiture. «Ora stiamo riprendendo fiato, ma è stata dura», racconta Santilio a Senza Filtro. «Ricordo ancora il periodo in cui eravamo messi così male che non ci chiamavano più neppure le compagnie telefoniche per proporci nuovi contratti. Eravamo dati per finiti. Abbiamo dovuto ripensarci, proporre lavorazioni più settoriali, dimenticare quelle tutte uguali che ci arrivavano prima, riqualificare i dipendenti. Purtroppo siamo passati da 35 dipendenti a 11, però ora il fatturato va meglio, siamo quasi tornati a livelli di dieci anni fa, e stiamo riassorbendo lavoratori che hanno le caratteristiche necessarie al nostro nuovo modo di fare impresa».

Che cosa è successo in quegli anni? «Per quel che riguarda l’indotto, le grandi aziende hanno cominciato a rivolgersi all’estero, alla Cina. Per poi scoprire che i loro clienti si lamentavano per la scarsa qualità dei prodotti e li rimandavano indietro. Ora stanno tornando in Puglia, però non trovano più le piccole aziende che lavoravano per loro prima, perché – a causa della loro scelta di rivolgersi all’estero – hanno dovuto chiudere». Aggiunge, sorridendo: «È capitato un po’ quello che succede a un marito quando se ne va di casa per una cotta e, allorché si pente e decide di tornare, si meraviglia se non trova più la moglie ad aspettarlo».

 

Manodopera cinese tra le macerie del settore arredo

Un quadro confermato a Senza Filtro anche da un sindacalista, Silvano Penna, segretario generale della Fillea Cgil Puglia, la Federazione Italiana Lavoratori Legno e Affini: «C’è stato un tracollo. Ora le grandi aziende fanno al loro interno quello che prima commissionavano fuori. Una volta soprattutto la Natuzzi fungeva da traino, forniva ai piccoli imprenditori anche macchinari, competenze, assistenza. Non è più così e si sente. Le piccole e piccolissime aziende non riescono più a stare sul mercato, non hanno nessuno che le aiuti, neppure in Confindustria».

 

C’è anche un problema in più. Tra Puglia e Basilicata fioriscono da alcuni anni laboratori cinesi più o meno legali. Difficile capire quanti siano. Come in altri campi, sbarcano con una rete familiare di finanziatori e lavoratori. Un mondo chiuso che trova sbocchi commerciali, tanto da rappresentare, in alcuni casi, l’alternativa agli imprenditori locali. Soprattutto tra Gravina, Altamura e Matera occupano – spesso letteralmente, in capannoni ormai in disuso – gli spazi lasciati da piccole aziende italiane finite ko. E lavorano come contoterzisti. Assemblano un divano con soli 350 euro, lavorano pure di notte e i contratti sono spesso un miraggio (anche se c’è chi rispetta le regole). Racconta Penna della Cgil: «Abbiamo provato a mettere il naso in questo campo. Si viene a scoprire che ci sono piccole fabbriche fallite e in teoria chiuse, però dentro lavorano i cinesi. Il problema sta nel fatto che spesso non si ha la possibilità di avvicinarli. Ogni tanto c’è qualche controllo delle autorità, ma la maggior parte passa inosservata».

Il problema a quanto pare è questo: il settore tra Puglia e Basilicata regge ancora, ma si sta rischiando di perdere per strada un patrimonio preziosissimo di esperienze e di professionalità, quello che ha reso celebri i mobili prodotti da queste parti. Occorrerebbe, come dice l’imprenditore Santilio, «qualcuno con una visione d’insieme in grado di evitare che un patrimonio vada sprecato». Per ora, da queste parti, purtroppo non c’è nessuno che sappia guardare così lontano.

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