Il fallimento dell’Italia digitale

Sono oltre venticinque anni che viene, prima annunciata e poi promessa, la rivoluzione digitale in Italia ma alla prova dei fatti resta una nazione analogica, lenta e disorganizzata. Partiamo da una verità assoluta: “a differenza delle tecnologie belliche, in cui uno Stato può accedere ad armamenti più potenti rispetto ad altri, la tecnologia digitale è […]

Sono oltre venticinque anni che viene, prima annunciata e poi promessa, la rivoluzione digitale in Italia ma alla prova dei fatti resta una nazione analogica, lenta e disorganizzata.
Partiamo da una verità assoluta: “a differenza delle tecnologie belliche, in cui uno Stato può accedere ad armamenti più potenti rispetto ad altri, la tecnologia digitale è uguale per tutti”, nel senso che hardware, cavi e software sono a disposizione di ogni Paese, ciò che cambiano sono i piani infrastrutturali, le azioni di governo, le strategie di sviluppo perseguite.

Il 30 aprile 2016 è ricorso il trentesimo anniversario del primo collegamento Internet in Italia, ossia il primo trasferimento di dati tra il CNUCE (Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico) di Pisa e Roaring Creek in Pennsylvania. I pacchetti di dati furono trasferiti grazie ai satelliti di Telespazio, in Abruzzo.
L’Italia nel 1986 ebbe il primato di essere la quarta nazione in Europa a collegarsi ad Arpanet, oggi dopo tre decenni è la quart’ultima nazione europea per diffusione e utilizzo della rete.
Se in Francia una buona percentuale del prodotto interno lordo viene prodotta grazie all’economia digitale, in Italia i numeri non sembrano confortare lo sviluppo di un mercato e di una economia basata sulle nuove tecnologie digitali.

Cosa manca al nostro Paese? Sicuramente in Italia, prima ancora di un’infrastruttura tecnologica, manca un serio piano strategico industriale che assicuri lo sviluppo del digitale partendo dalla Pubblica Amministrazione sino ad arrivare al cittadino, passando per imprese e artigiani.
I problemi più importanti sono essenzialmente due: il primo è costituito dalla inconcludente politica dell’annuncio; il secondo da decenni in cui l’economia digitale è stata sottovalutata, in alcuni casi anche ostacolata, per il timore che potesse depauperare l’economia dei media tradizionali.
Da quarti nel 1986 per capacità tecnica e legislativa qualche anno dopo, con particolari attenzioni agli strumenti di convalida dei documenti elettronici, siamo passati ad essere conservatori di quegli sterili processi analogici e burocratici.

Le responsabilità dell’insuccesso sono diffuse, da una parte la scarsa fiducia dimostrata verso il cambiamento e dall’altra la resistenza di alcuni settori industriali incapaci di affrontare le sfide di un mercato globale, in cui la concorrenza ha distrutto ogni confine temporale e geografico.
Analizzate brevemente le cause del ritardo italiano sul digitale, (difficile trovare un settore in cui siamo in questo momento in pole position) vediamo le soluzioni per il futuro.

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, con il solito fare trionfalistico, ha annunciato in occasione dell’Internet Day un piano di sviluppo con le seguenti parole: “ad aprile saremo pronti con il primo bando per la banda ultra larga, il primo di una serie con i quali portare a tutti i cittadini entro il 2020 la connessione internet ad alta velocità. Insomma, facciamo un Internet Day per celebrare tutti assieme il senso della rivoluzione che è iniziata 30 anni fa e per prendere l’impegno di colmare il divario digitale nei prossimi quattro anni”.
Come sempre accade il bando per la banda ultra larga non è stato pubblicato e ciò che è stato annunciato è il trito e ritrito piano economico in cui, a fronte di 12 miliardi di euro di spesa, verrà portata la rete internet ad una serie di territori, ancora scarsamente connessi, che soffrono del così detto “digital divide”.

Ma sarà ancora economicamente vantaggioso puntare su una tecnologia in fibra, quando il futuro è delle reti mobili sempre più performanti?
Insomma tra il 29 aprile e il 30 aprile 2016 in Italia sembrava che da un minuto all’altro partisse la rivoluzione digitale, sono passati pochi giorni e già non si sente più parlare di gare, appalti e soluzioni infrastrutturali.
Il solito piano per la scuola digitale, già annunciato nel 2014, 2015 e puntualmente riproposto nel 2016; le lodi per l’adozione della fatturazione elettronica tra P.A. e fornitori di beni e servizi, una soluzione il cui iter è iniziato nel 2007 per concludersi nel 2015; il Processo Civile Telematico i cui problemi sono più noti dei suoi effettivi vantaggi e infine la sanità elettronica che, solo grazie ad alcune Regioni come la Lombardia e l’Emilia Romagna, sembra aver raggiunto un minimo livello di efficacia, mostrando un grave ritardo del nostro Paese nell’efficienza digitale.

Ciò di cui siamo certi è che con la Legge di stabilità 2016, approvata al termine dello scorso anno, sono stati compiuti dei severi tagli ai fondi destinati all’informatizzazione della Pubblica Amministrazione, secondo alcuni analisti questi tagli si possono quantificare in 3 miliardi di euro.
In un momento in cui ogni Paese è attrattivo verso investimenti esteri attraverso politiche digitali organizzative, economiche ed efficienti, l’Italia resta fanalino di coda per innovazione.
Attualmente i mercati si evolvono innescando nuove strategie, le economie si modificano sulla base delle tecnologie digitali, gli uomini mutano le comunicazioni influenzando le condotte sociali e in tutto questo movimento in cui tutto cambia l’Italia appare immobile, scossa solo da annunci di grandi idee e di scarse azioni.

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