Il marketing della sfiga nel Terzo Settore

Qualsiasi organizzazione impegnata nel sociale si trova di fronte a tre sfide di comunicazione: far conoscere e comprendere i problemi relativi alle aree di intervento di cui si occupa; far conoscere le soluzioni e le proposte che l’organizzazione può mettere in campo; raccogliere capitale che la metta in grado di gestire il proprio intervento, dove […]

Qualsiasi organizzazione impegnata nel sociale si trova di fronte a tre sfide di comunicazione: far conoscere e comprendere i problemi relativi alle aree di intervento di cui si occupa; far conoscere le soluzioni e le proposte che l’organizzazione può mettere in campo; raccogliere capitale che la metta in grado di gestire il proprio intervento, dove per capitale si intendono tanto le risorse economiche che quelle umane.

La prima sfida comporta la costruzione di un’opinione pubblica, che includa la Pubblica Amministrazione, riguardo alle necessità di intervento in settori che per loro natura sono sfuggenti, hanno poca presa e confliggono con l’idea di una società ordinata in cui va tutto bene.

Perché dovremmo interessarci dello sfruttamento, della riduzione in schiavitù, di una nigeriana o di un bengalese? Non è più facile schierarsi contro le prostitute che infestano le periferie o contro i venditori di rose che interrompono le nostre cene?
Una visione più informata e più ampia dei problemi può aiutare a non tagliare i giudizi con l’accetta ma a inquadrare le questioni in riferimento ai diritti fondamentali dell’uomo, sui quali si reggono le nostre società e i nostri ordinamenti politici.

La seconda sfida comporta la necessità per ogni organizzazione di proporre il proprio punto di vista, l’insieme di valori e azioni che distinguono un approccio da un altro.

Una volta che abbiamo deciso di lavorare sulla strada, per aiutare le donne sfruttate, diamo il nostro sostegno, rimandando gli interventi al momento in cui avranno scelto di abbandonare gli sfruttatori, o facciamo attività di prevenzione e informazione sulla salute anche distribuendo preservativi? Ma distribuendo preservativi le stiamo aiutando ad essere sfruttate o perseguiamo una strategia di riduzione del danno per se stesse e per i loro clienti?

Le scelte che ogni organizzazione mette in campo dovrebbero essere comunicate correttamente, perché non tutta la pubblica opinione si schiererà con l’una o con l’altra parte. C’è un senso di adesione che collega le organizzazioni a porzioni diverse della società, delle quali si fanno rappresentanti.

La raccolta di risorse presenta poi una duplice dimensione. Da un lato la necessaria capacità di finanziarsi per conseguire i propri obiettivi porta le organizzazioni a dialogare in modo privilegiato con quei settori della società (es. partiti, organizzazioni religiose, etc.) ai quali si sentono più legate. Uno strumento che potrebbe essere di grande aiuto per azioni distribuite sul territorio e localizzate, il 5×1000, premia quei soggetti che, a partire da una notorietà nazionale, spesso non agiscono nella prossimità ma intervengono su problemi globali.

Allo stesso modo è più facile attrarre un finanziamento per contrastare la violenza sulle donne che per aiutare delle prostitute. Si genera un perverso “marketing della sfiga” in cui alcuni finanziatori scelgono le aree di intervento in base all’effetto che produrrà sul proprio marchio associarsi ad un problema o ad un altro.

Inoltre alcune associazioni sono tentate dallo spostare molte delle proprie attività sul fundraising, finendo col passare più tempo a raccontarsi che ad agire.

La raccolta di risorse umane dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale delle organizzazioni del terzo settore. Costruire consenso intorno alle propria attività, mobilitare volontari e sostenitori, poter scegliere i migliori professionisti grazie alla propria reputazione sono obiettivi che appaiono banali, ma sono invece ingredienti decisivi per fare in modo che le proprie azioni divengano un aiuto concreto alla società.

Il branding, così importante per le imprese, riguarda anche il Terzo Settore. Accanto alle grandi organizzazioni mainstream ci sono decine e decine di soggetti che hanno sviluppato competenze ed esperienze che sono fondamentali nella maturazione degli interventi sociali e che tuttativa rimangono semi-sconosciute. Quanti hanno scelto, giustamente, di far conoscere la propria attività appaiono quasi unici alfieri di un mondo che invece è molteplice e delicato. In questo senso è proprio la politica, spesso denigrata, a restituire valore ai diversi soggetti riconoscendo questi “gradi” raccolti sul campo. Divengono interlocutori non solo quelli che occupano le pagine dei giornali ma anche quelli che agiscono quotidianamente in tutta la penisola e che spendono il loro tempo nelle letture del cambiamento.

Molti nel Terzo Settore diffidano della comunicazione, perché la sentono come uno stravolgimento della realtà e non come un momento di relazione con la collettività.
In questo senso l’attenzione recente del marketing e della comunicazione pubblica per lo storytelling crea un conflitto di interessi molto delicato.

Il pubblico vuole storie. Associare una foto o un video a una storia aiuta a sentirla vicina, a farla propria, a rompere le distanze. Ma nel sociale le storie non sono favole, sono esperienze drammatiche vissute da persone. Con quanta fatica ognuno affronta i torti subiti sul luogo di lavoro, le proprie debolezze nei confronti di un partner o di un amico? Raccontare le proprie esperienze per darle in pasto all’opinione pubblica è doloroso e gli operatori cercano di proteggere le persone con cui lavorano.
Cameraman che riprendono volti in maniera distratta, giornalisti che non si preoccupano delle domande che fanno, rischiano di riportare le persone molto indietro nel loro percorso di affrancamento. Il pubblico vuole storie e il Terzo Settore ha tanto da raccontare, ma abbiamo il dovere di non essere sciatti.

Il sistema dell’informazione ha passato mesi dietro a ruspe di chiacchiere, salvo poi convertirsi in pochi giorni all’accoglienza, per la drammaticità delle immagini dei rifugiati che invadevano le nostre case. Ora di nuovo sembra cambiare l’indirizzo della stampa, assecondando i venti della paura. L’informazione rappresenta e asseconda le paura della società invece di produrre letture più profonde e più salde, che diano chiavi di lettura per tempi complessi.

Raccontare il lavoro nel sociale dovrebbe contribuire a dare risposte complesse e comprensibili a domande complesse e di difficile interpretazione. Dovremmo abbandonare le logiche della semplificazione e della conseguente banalizzazione. È la quarta sfida, forse la più dura.

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