Il mismatch all’italiana che ha fermato l’ascensore sociale: i meriti dei padri ricadono sui figli

L’ascensore sociale è rotto da tempo: ecco quanto influiscono le condizioni di partenza sullo studio e la carriera dei giovani, con gli ultimi dati e l’interpretazione di Mikhail Maslennikov di Oxfam Italia.

Destinati fin dai banchi di scuola superiore a una condizione di vita, che viene influenzata dalla famiglia di origine e dagli studi compiuti, in un Paese come l’Italia, dove il mercato del lavoro è scarsamente competitivo: sono queste alcune delle premesse del mismatch, il disallineamento tra posti di lavoro disponibili e il livello di competenze o qualifica del personale disponibile per ricoprirli.

Il diploma, che rappresenta il traguardo che ha sostituito il rito iniziatico di passaggio all’età adulta, segna uno dei primi bivi nella vita di un giovane: la scelta tra l’accesso ai corsi universitari o l’entrata nel mondo del lavoro.

Oltre alla scelta del percorso di studi, a incidere sul futuro occupazionale è anche il contesto socioeconomico della famiglia da cui si proviene. L’ascensore sociale, che tramite studi e lavoro porta a migliorare lo status sociale rispetto a quello della famiglia di origine, in Italia è rotto, e contribuisce – insieme alle caratteristiche della domanda di lavoro – ad alimentare il mismatch, il disallineamento tra domanda e offerta.

Lo evidenzia il rapporto Non rubateci il futuro, realizzato da Oxfam Italia. Un ragazzo su tre che appartiene al quintile più povero della popolazione rimane nello stesso segmento; solo il 12% raggiunge il quintile più elevato. Tra i più i ricchi, il 38% rimane nel quintile più elevato di provenienza dei genitori, e inoltre il 58% risale fino ai due quintili più alti. Non solo: nel 2018, anno di riferimento dell’analisi contenuta nel rapporto, il 13% degli occupati tra i 16 ed i 29 anni è un working poor, cioè fa parte del 60% delle famiglie con reddito inferiore alla media nazionale.

Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia: “Le disuguaglianze socioeconomiche diventano disuguaglianze educative”

Spiega Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia: “L’ascensore sociale intergenerazionale fa comprendere come le differenze tra la generazione dei figli siano spiegabili con le differenze nella generazione dei padri, rispetto a una qualsiasi variabile economica di interesse, ricchezza, reddito da lavoro, istruzione. Diversi contesti famigliari di partenza fanno divergere le traiettorie di benessere economico dei rispettivi figli. È normale, in una società che le opportunità per avere un futuro dignitoso dipendano da fattori che sfuggono al controllo delle persone, come le condizioni economiche della famiglia di origine, il luogo in cui si nasce e il genere? In Italia, quando le opportunità di partenza sono limitate, le barriere a migliorare le proprie opportunità emergono anche nel percorso dell’individuo, che passa per tappe diverse: il ciclo di istruzione, quindi l’accumulazione del capitale umano, poi l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro”.

La condizione socioeconomica delle famiglie incide sia per le competenze derivanti dall’istruzione che per le cosiddette soft skill, specifica Maslennikov: “Il canale principale per cui si perpetuano le disuguaglianze è schematizzabile in questo modo: sono le disuguaglianze nelle condizioni di partenza, che si riflettono nelle disuguaglianze educative. In Italia le famiglie che hanno un background migliore riescono a far accedere i loro figli a percorsi formativi migliori, sia per quanto riguarda la tipologia delle scuole, sia perché hanno maggiori facoltà di accumulare capitale umano non solo nei percorsi scolastici, ma anche in tante attività extrascolastiche. Vale anche per le soft skill, per esempio la capacità relazionale e manageriale: i figli di persone che hanno responsabilità sul posto di lavoro imparano anche a gestire le relazioni, acquisiscono capacità direttive”.

Una differenza, questa, che nel rapporto Oxfam viene enucleata con il dato del 17% in più di retribuzione del figlio di un dirigente rispetto a quello di un impiegato, a parità di percorso di studi. Da non sottovalutare l’influenza del gruppo di coetanei, sottolinea il policy advisor di Oxfam: “Nelle famiglie in condizioni peggiori ci sono anche i problemi legati al fatto che si finisce con una forte segmentazione a livello scolastico: quello che si chiama peer effect, effetto dei pari. Se loro arrancano, hanno difficoltà, hanno aspirazioni ridotte, anche persone provenienti da contesti più favorevoli si adagiano su aspirazioni minori, al netto della loro ambizione e della capacità dei docenti di motivare e far uscire il meglio dai loro alunni”.

“Che le disuguaglianze economiche diventino disuguaglianze educative significa che le persone accumulano un capitale umano diversificato, e al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro c’è una premialità che si riflette nella capacità reddituale e nella capacità di accumulare ricchezza.”

Alla radice del mismatch: sovraistruzione e mancanza di orientamento

Un fronte importante da considerare, nel descrivere il mismatch, sottolinea Maslennikov, è anche quello della domanda di lavoro.

“C’è una sorta di discriminazione, da parte delle categorie datoriali nei confronti delle persone più svantaggiate, che è riflessa nei numeri sui divari salariali a parità di studi raccontati nel rapporto. L’istruzione rimane un fattore importantissimo di mobilità sociale, ma da sola non basta. Bisogna tener conto che quando si è concluso il ciclo di studi ci si ritrova nel mercato del lavoro, che non necessariamente premia la competenza e la preparazione della persona.”

“Abbiamo un sistema produttivo di piccole e medie imprese che faticano a utilizzare adeguatamente il capitale umano e valorizzarlo, perché non innovano e non hanno accesso alla conoscenza sul trasferimento tecnologico. Non offrono posizioni di buona qualità; abbiamo tantissimi ragazzi che – al netto di quelli che vanno fuori in cerca di una vita migliore – terminato il ciclo di studi si trovano occupati in mansioni che richiederebbero un grado di studio inferiore. È la sovraistruzione, un forte fenomeno di mismatch. Le ragioni vanno cercate anche nella domanda di lavoro, con le PMI che sono soprattutto a conduzione famigliare.”

L’altro lato della medaglia riguarda posizioni che restano scoperte, ad alto livello di qualifica, aggiunge Maslennikov: “C’è un mismatch legato a rapporti che sono richiesti e non si trovano, anche ad alta qualifica. Abbiamo bisogno di far incontrare meglio domanda e offerta del lavoro, per quanto riguarda il percorso formativo dei ragazzi. Manca l’orientamento al lavoro, l’orientamento vocazionale, chiedere ai giovani quali sarebbero le loro aspirazioni, le propensioni che potrebbero avere. Si cerca di orientare verso quello che c’è là fuori. Il PNRR potrebbe essere il salto in avanti verso la riforma delle politiche attive del lavoro, che sin qui è stata fallace: Occorre puntare sul reskilling, per consentire alle persone di cambiare lavoro acquisendo competenze nuove rispetto ai posti di lavoro disponibili, e anche sull’upskilling. Vanno aggiornate le competenze”.

Costruire domanda di lavoro di qualità per meglio incontrare l’offerta

Maslennikov invita anche a non lasciarsi ingannare quando si parla di creazione di nuovi posti di lavoro.

“Andiamo verso la terziarizzazione; i nuovi posti di lavoro che sono stati creati sono a bassissima produttività, terziario, servizi, turismo, alberghiero. Qui c’è un problema: questo potrebbe essere il destino di persone che provengono da background economici dissestati, e se queste sono le loro prospettive non sono rosee. D’altra parte, al di là del fatto che abbiamo pochi laureati rispetto alla media europea, se si devono offrire lavori di qualità ad alta qualificazione, questi posti bisogna crearli.”

“Il mismatch è un gioco fra offerta e domanda di lavoro: se la domanda non è qualificata abbiamo un problema, perché è la domanda di lavoro qualificata che permette di avere retribuzioni migliori. Bisogna innovare, sviluppare una politica economica seria che in questo Paese industriale manca, verso settori innovativi e strategici per creare posti altamente qualificati.”

Nelle professioni a bassa qualifica si annida la disuguaglianza a causa della miriade di contratti di lavoro atipici, conclude Maslennikov: “Si deve intervenire per livellare le disuguaglianze anche sui lavori a bassa qualifica, dove c’è un grosso esercito di riserva e dove le riforme del lavoro hanno ridotto diritti e livelli retributivi. Il datore di lavoro nelle professioni a bassa qualifica può pescare qualsiasi contratto di lavoro: è avvilente per la dignità di un lavoratore. Quando si parla di disuguaglianza il salario minimo è una misura, ma prima vanno sfoltiti i contratti di lavoro atipici che creano occupazione dalla durata limitata; ci sono contratti a termine che durano meno di sei mesi; alcuni durano un giorno. È uno dei grossi scaglioni che andrebbero livellati e ridotti”.

Quali diplomati scelgono l’università?

Il rapporto Eduscopio della fondazione Agnelli, che analizza i corsi di scuola superiore in base alla percentuale di successo nei percorsi universitari per i licei e per la percentuale di coloro che lavorano per l’istruzione tecnica e professionale, evidenzia come “soltanto la metà degli studenti che hanno conseguito un diploma tecnico decide poi di proseguire gli studi, e per chi ha frequentato un istituto professionale questo numero scende a uno su cinque (…). Ogni anno, circa il 56% dei diplomati transita verso corsi universitari. Questo dato medio nasconde una forte differenziazione tra indirizzi di istruzione secondaria di secondo grado e può oscillare tra il 91% di transizioni per i diplomati del liceo classico e il 9% di transizioni per quelli del settore industria e artigianato nell’istruzione professionale”, si legge nell’edizione 2020 del rapporto.

In numeri assoluti, coloro che proseguono gli studi universitari per il 44% sono ragazzi e per il 56% ragazze; il 79,8% si diploma all’età canonica di 19 anni, mentre solo il 9,9% a venti. Uno su tre viene dallo scientifico, a cui si aggiunge il 7,6% dell’indirizzo scienze applicate; uno su dieci dal classico; un nove per cento dal liceo delle scienze umane; un altro 9% dal linguistico; un 20% dall’istituto tecnico economico e tecnologico. Fanalino di coda gli istituti professionali e gli artistici con il 4,2% e il 2,5%. Il voto medio al diploma è di 80,4.

Quali diplomati scelgono il lavoro?

Diversa la situazione nel documento di analisi degli esiti lavorativi.

Il 60,6% sono ragazzi, il 39,4% ragazze, e di questi solo il 67,4% si diploma a 19 anni, con il 22,1% che si diploma a 20. Uno su tre proviene dall’istituto tecnico economico o tecnologico, uno su quattro dal professionale per i servizi, solo l’8% dall’IPSIA (Istituto Professionale Statale per l’Industria e Artigianato). Il voto medio al diploma è di 74,2.

“Meno della metà dei diplomati tecnici e professionali entra nel mondo del lavoro nei due anni successivi al diploma: il 35% ha lavorato per più di sei mesi nel periodo considerato (occupati), il 13,5% ha svolto lavori più saltuari e frammentari non superando i sei mesi di lavoro nel periodo considerato (sottoccupati). Vi è un’ulteriore quota del 12,5% dei diplomati che ha alternato o svolto contemporaneamente attività lavorative e di studio universitario, mentre poco meno di uno su cinque si è dedicato completamente agli studi universitari e non ha svolto alcuna attività lavorativa nello stesso periodo”, si legge nel documento di Eduscopio.

A queste percentuali va aggiunto il fatto che il 19,5% dei diplomati dei tecnici e professionali non svolge nessun percorso di studio o di lavoro, dopo il diploma.

L’articolo prende spunto dal panel “Aziende che non trovano lavoratori”, che puoi seguire cliccando qui.

Photo by Arisa Chattasa on Unsplash

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