Il velo della discordia. L’uso in azienda può creare imbarazzo

Quando il velo può diventare un pomo della discordia. Un simbolo che, anziché unire, potrebbe dividere. O addirittura essere considerato motivo di “imbarazzo” in certi contesti lavorativi. Un elemento destabilizzante nella costruzione dell’immagine aziendale. Ancor più se il Regolamento interno all’azienda parla chiaro sulla necessità che lavoratori e lavoratrici indossino un abbigliamento neutrale. Senza rendere visibili […]

Quando il velo può diventare un pomo della discordia. Un simbolo che, anziché unire, potrebbe dividere. O addirittura essere considerato motivo di “imbarazzo” in certi contesti lavorativi.

Un elemento destabilizzante nella costruzione dell’immagine aziendale. Ancor più se il Regolamento interno all’azienda parla chiaro sulla necessità che lavoratori e lavoratrici indossino un abbigliamento neutrale. Senza rendere visibili simboli che riconducano ad una determinata appartenenza religiosa, filosofica o politica.

Le sentenze

La Corte di Giustizia Europea (CGUE) è stata interpellata dalle Corti Costituzionali belga e francese per chiarire i contenuti della direttiva n.2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione. L’organo giurisdizionale di Lussemburgo ha respinto i ricorsi di Samira Achbita, receptionist dell’azienda belga G4S e di Asma Bougnaoui, progettista dell’azienda francese Micropole SA. Entrambe erano state licenziate perché non avevano accettato il divieto di indossare il velo durante le ore di lavoro. Nel primo caso, dopo l’insistente rifiuto della dipendente, l’azienda belga è stata costretta a mettere per iscritto il divieto in una clausola del regolamento aziendale. Il secondo caso invece è più complesso. Riguarda una dipendente di uno studio di ingegneria assunta quando già usava la hijab, che copre testa e spalle. Successivamente l’azienda l’aveva invitata a non indossarlo durante le ore di lavoro.

Nssuna discriminazione diretta o indiretta se l’azienda vieta l’uso del velo

In entrambi i casi le disposizioni non sono contrarie alla direttiva 2000/78/CE sulla presenza di una discriminazione diretta. “La norma interna non implica una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali” cita il responso.

In realtà, non c’è neppure una discriminazione indiretta. Essa, infatti, sussiste soltanto nel momento in cui ci sia un nesso diretto tra il licenziamento e il credo religioso. In altre parole, il congedo è giustificato se il lavoratore o la lavoratrice viene licenziato perché professa un credo religioso differente da quello predominante in un determinato paese. “Il giudice ha più precisamente rilevato che la sig.ra Achbita non è stata licenziata per la sua fede musulmana. Ma per il fatto che essa seguitava a volerla manifestare, in maniera visibile, durante l’orario di lavoro, indossando il velo islamico” conclude una delle due sentenze.

E’ possibile il licenziamento per chi indossa simboli religiosi

Le due sentenze hanno stabilito un precedente che è entrato nella giurisdizione europea. Il contenuto, infatti, potrebbe essere recepito dagli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri dell’Unione Europea. Di fatto, è possibile il licenziamento di coloro che manifestano l’intenzione di indossare segni visibili di natura religiosa, filosofica o politica. Gli effetti possono ripercuotersi comprensibilmente anche sul “modus operandi” delle aziende italiane.

Total Target: “La sentenza salvaguarda i principi di laicità”

Una vera impresa è stata il contattare anche le piccole e medie imprese. L’unica che si è espressa sull’argomento è stata la Total Target. La società è altamente specializzata in gestione e management e ha sede in provincia di Lecce. Lo staff organizzativo si esprime favorevolmente sul responso della Corte di Giustizia Europea.
Se tale sentenza nulla ha a che fare con stereotipi e pregiudizi di qualsiasi natura, quanto piuttosto con la necessità di attenersi ad un regolamento aziendale già noto e condivisoci trova concordi perché salvaguarda i principi di laicità e neutralità necessari sul posto di lavoro e non solo” chiosa lo staff organizzativo di Total Target.

Ikea Italia prevede la possibilità di indossare simboli religiosi

Più aperta all’accettazione di un abbigliamento che rispetti i costumi e l’appartenenza ad una determinata civiltà è IKEA Italia.

Renata DurettiHuman Resources manager della nota catena di distribuzione, conferma questa volontà. “IKEA è un’azienda fondata su valori ben precisi. Sosteniamo i diritti fondamentali delle persone e non accettiamo alcuna forma di discriminazione. Incoraggiamo trattamenti equi e pari opportunità di impiego senza distinzione alcuna di razza, etnia, religione, genere, abilità, età o orientamento sessuale. Ecco perché alle lavoratrici di fede musulmana che vogliono indossare il velo durante le ore di lavoro non è posto alcun limite o divieto”conferma Duretti. Tale facoltà è  esplicitamente citata anche nelle linee guida relative allo staff clothing. ” E’possibile indossare copricapi per motivi religiosi, a patto che siano in tinta con i colori dell’uniforme” dicono le linee guida. “IKEA è da sempre un’azienda sensibile e rispettosa delle diversità: questo atteggiamento è frutto della consapevolezza che le differenze sono elementi di sviluppo culturale individuale e collettivo”, conclude la manager delle risorse umane.

Eataly tutela la biodiversità umana

Eataly, impresa leader della sostenibilità alimentare, si è espressa con una nota stringata, senza sbilanciarsi troppo. “Eataly ha a cuore la biodiversità”  è stato l’unico commento dell’ufficio management.  “Quella del nostro meraviglioso patrimonio enogastronomico che deve la sua varietà ai numeri da record delle specie vegetali o animali presenti nel nostro Paese, alla nostra storia, cultura e tradizioni e alla straordinaria morfologia dell’Italia. E ha naturalmente a cuore anche la biodiversità umana che tollera, rispetta e accetta” ha poi aggiunto. L’azienda però non entra nel merito delle sentenze precisando di non aver mai ricevuto richieste legate all’utilizzo del velo.

Perera: “Rendere visibili simboli religiosi può creare distinzione tra i lavoratori”

“Ogni azienda ha un suo codice etico che include anche la necessità di indossare un determinato abbigliamento o una divisa. Firmando un contratto di assunzione, il dipendente è a conoscenza di ciò che ne consegue. Il luogo di lavoro non è un luogo di fede religiosa. Il lavoratore o la lavoratrice non può pretendere di indossare un abito vistoso o ostentare simboli che identifichino l’appartenenza religiosa, sociale o culturale, creando una distinzione evidente tra i lavoratori” commenta Indra Perera imprenditore dello Sri Lanka.

Atteggiamento imparziale nel rispetto di tutte le religioni

Nella sua azienda ammette che non si sono mai verificate richieste legate all’utilizzo del velo. Tuttavia ammette di non fare nessuna discriminazione nel momento dell’assunzione. “Sono buddista Theravada e non ho alcuna difficoltà a confrontarmi con persone di differenti religioni o perfino atee. Ritengo però giusto che all’interno di un’azienda vi sia un atteggiamento imparziale affinché si crei un clima di armonia reciproca” continua l’imprenditore che ha fatto dell’integrazione un baluardo di civiltà.

Integrazione vuol dire accettare le regole di un paese e del suo mercato

Perera da anni è impegnato in iniziative legate al mondo delle imprese e all’integrazione dei lavoratori di provenienza straniera. “Ho sempre lottato per i diritti delle donne, specialmente per le quota rosa, per la libera espressione delle proprie specificità di genere, per l’inviolabile diritto della maternità. Faccio parte di una associazione che rappresenta 70 diversi nazionalità con diverse pertinenze religiose  e culturali e finora non ho mai incontrato problemi, compreso quello del velo. Moltissime donne in Italia sono musulmane ma adottano un abbigliamento sobrio, in tutto e per tutto occidentale. Una parte del mondo musulmano vuole integrarsi. Al contrario, mi duole dirlo, in un’altra parte del mondo il velo, e non solo, diventa non più una necessità religiosa ma un simbolo da brandire contro l’integrazione possibile nei paesi europei” conclude l’imprenditore che produce e distribuisce la cancelleria professionale in tutto il mondo.

In Italia la Costituzione tutela contro gli atti discriminatori

“Esistono leggi, in Italia su tutte c’è la Costituzione, che vietano espressamente atti vessatori o discriminatori nei confronti dei lavoratori” aggiunge Perera. Di fatto, l’art. 3 della Costituzione afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In ogni contesto ci vuole un abbigliamento consono

“Personalmente ritengo che richiedere un abbigliamento decoroso e professionale, che a volte può significare indossare senza deroghe una particolare divisa sul posto di lavoro, non costituisca una violazione dei diritti del lavoratore” sottolinea Indra Perera. “Non esiste una libertà assoluta a priori di abbigliarsi in qualsiasi modo e in qualsiasi contesto. In una Chiesa non si può entrare con un abbigliamento scollato come se si andasse su una spiaggia o una discoteca. Lo stesso vale per qualsiasi luogo sacro, una Moschea o un Tempio buddista. Ogni luogo richiede anche nel vestire una scelta di buon senso” afferma Perera.

Il velo può inficiare sull’immagine di un’azienda

In alcuni casi il velo può inficiare sull’immagine delle aziende dove è richiesta una divisa identificativa e peculiare. “Per chi lavora in Polizia oppure mi viene in mente l’esempio delle grandi catene di distribuzione alimentare. In questi casi, i i simboli visibili che identificano la propria appartenenza religiosa possono indurre disagio nel pubblico o nella clientela. Ovviamente mi riferisco a qualunque appartenenza religiosa” aggiunge Perera.

Le sentenze della Corte di Giustizia Europea sono supportate dalla direttiva comunitaria

“Ogni azienda ha un Regolamento Interno di carattere generale al quale tutti i lavoratori devono attenersi. La Corte di Giustizia Europea (CGUE), nel primo caso, si è limitata a far rispettare le disposizioni del Regolamento interno dell’azienda. Esse prevedono l’assenza nell’ambiente di lavoro di elementi identificativi di una specifica convinzione religiosa, filosofica o politica, per non impedire una interlocuzione con una clientela vasta che ha diversi orientamenti. Nel secondo caso, si è limitata a far rispettare una disposizione non contraria alla direttiva 2000/78/CE” spiega Luciano Garofalo, docente ordinario di Diritto Internazionale dell’Università Aldo Moro di Bari.

Quando si verifica una discriminazione

Ecco secondo Luciano Garofalo quali sono le circostanza in cui ci sono le condizioni per sanzionare una discriminazione. “Quando con un bando si tende ad escludere una categoria di persone a scapito di un’altra. Oppure quando il licenziamento avviene non perché si indossa un simbolo di natura religiosa, ma perché si è musulmani. In questi casi subentra la discriminazione. In Italia, nel caso in cui venga accertata una discriminazione diretta, interviene la Statuto dei Lavoratori. Con le modifiche attuate all’art. 18 prevede l’immediato reintegro sul posto di lavoro. Tuttavia, bisogna valutare, caso per caso, se il licenziamento derivi da un atto direttamente o indirettamente discriminatorio” ammette Garofalo.

Discriminazione diretta ed indiretta: un confine labile

“A volte il confine tra discriminazione diretta e indiretta è molto labile. Anche un comportamento apparentemente neutro può nascondere una discriminazione. Non è il caso delle due sentenze in questione. Il responso infatti ha stabilito che nel caso delle due aziende non ci sia stata alcuna violazione, né diretta né indiretta. Il datore di lavoro si è limitato ad applicare le disposizioni generali del Regolamento interno all’azienda” conclude il docente di diritto internazionale.

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