Il vino pugliese che sa di tacco

Quali sono i numeri della Puglia vitivinicola, e come impatta questo settore nell’economia della regione? I conti sono presto fatti: la Puglia vanta 86.711 ettari vitati, pari a 867.11 km2. Il vicino Abruzzo ha una superficie vitata di 31.960 ettari, mentre il lontano Piemonte di 48.100; con questi numeri si può ben capire come si […]

Quali sono i numeri della Puglia vitivinicola, e come impatta questo settore nell’economia della regione? I conti sono presto fatti: la Puglia vanta 86.711 ettari vitati, pari a 867.11 km2. Il vicino Abruzzo ha una superficie vitata di 31.960 ettari, mentre il lontano Piemonte di 48.100; con questi numeri si può ben capire come si tratti di un vero settore trainante per le economie regionali.

 

Vino pugliese, una produzione senza rivali

Secondo un report di Assoenologi la Puglia con la vendemmia 2018 ha conquistato il primato di regione più produttiva di vino. Questo trend positivo è seguito da quello delle vendite: secondo le elaborazioni di Coldiretti Puglia su dati Istat, infatti, continua la crescita record delle esportazioni dei vini pugliesi, che nel 2017 hanno segnato un +21,5% rispetto all’anno precedente e un valore complessivo di 149 milioni di euro. Di pari passo aumenta la produzione biologica di uve, con 15.990 ettari contro i 10.866 dell’anno precedente.

Il settore vitivinicolo è quindi determinante per l’economia e il lavoro della Puglia. Secondo Coldiretti la provincia di Foggia è al secondo posto in Italia per ore di lavoro create nel settore, mentre un altro studio condotto dalla stessa associazione stima circa 9,4 milioni di ore di lavoro totali, divise per aziende, per la produzione del Castel del Monte DOC (zona Bari- Bat), che è al decimo posto in Italia per ore create nel settore vitivinicolo.

Ma quanto lavoro c’è affinché l’uva diventi vino? In altre parole: quanto lavoro c’è dietro una bottiglia di vino? Raggiungo telefonicamente Federica Ariano, amica, produttrice ed enologa dell’azienda Cantine Ariano, e le faccio questa domanda. Lei mi risponde che loro, trattandosi di una piccola/media azienda, cercano di rispettare le canoniche otto ore di lavoro, con punte di dieci ore durante il periodo della vendemmia, che va da inizio agosto a fine ottobre. Federica mi dice che è una scelta ponderata, quella di non sovraccaricare troppo le giornate di lavoro: l’obiettivo è non far mai subentrare lo stress e mantenere alta la lucidità, specie in un momento delicato come la vendemmia, perché arriva una sola volta l’anno e non ci si può permettere di sbagliare; poi, in caso di errori, bisognerebbe aspettare altri dodici mesi. Federica mi racconta che l’azienda preferisce la raccolta dell’uva manuale piuttosto che con le macchine, e che questo lavoro fortunatamente viene ancora vissuto dai lavoratori come una festa: a fine vendemmia infatti c’è il capocanale, unacena di ringraziamento per il buon raccolto con tutti gli operai.

 

Lasciare tutto per tornare alla terra: D’Araprì e lo champagne pugliese

Il lavoro nei campi in Puglia è cambiato, come è cambiato il lavoro a livelli globali. Noi giovani generazioni ci troviamo di fronte a un mondo lavorativo disintegrato dai nostri predecessori, ma per fortuna abbiamo la possibilità di rischiare e di scegliere quello che i nostri genitori hanno abbandonato. Così sono sempre più i giovani che decidono di allontanarsi dalla vita di ufficio per dedicarsi all’agricoltura, per sporcarsi le mani come facevano i loro nonni. Lo dicono i dati di Unioncamere: gli ultimi rilevamenti segnano un + 6,6% per la Puglia, 5.544 giovani agricoltori che hanno creduto in un’attività tradizionale nonostante la crisi. Tra questi nuovi giovani agricoltori – dice il presidente di Coldiretti Puglia Gianni Cantele – ben la metà è laureata; il 57% ha fatto innovazione, ma soprattutto il 74% è orgoglioso del lavoro fatto, e il 78% è più contento di prima.

Nella mia città ho un esempio molto vicino di come cambia il lavoro e di come le giovani generazioni operano le loro scelte al riguardo. Per raccontarvelo ho bisogno di andare un po’ indietro con gli anni: siamo a San Severo (FG), è il 1979. Tre amici con la passione per il jazz e il vino (Girolamo D’amico, professore di chimica, Louis Rapini, professore di musica, e Ulrico Priore, tecnico di cantina) decidono per gioco di iniziare un progetto di vinificazione di uve bombino bianco con il metodo champenoise, la rifermentazione in bottiglia: uno champagne made in Puglia. I tre amici nel 1979 con le prime 90 bottiglie di produzione non avrebbero mai pensato che quell’idea avrebbe cambiato per sempre le loro vite, nel 2013, con l’Oscar come miglior vino spumante conferito da Bibenda-Associazione Italiana Sommelier. L’azienda si chiama D’Araprì, come 40 anni fa (le iniziali dei tre cognomi unite).

In azienda a breve ci sarà il passaggio di consegna alle nuove generazioni: i figli dei tre amici (Anna, Daniele e Antonio) diversamente dai papà hanno scelto la cantina come lavoro, non come passione da dopolavoro. I ragazzi hanno una formazione universitaria; Anna, per esempio, è laureata in ingegneria informatica, mentre Antonio, mio amico da una vita, in scienze e tecniche agrarie; è uno di quei ragazzi che, quando a settembre noi eravamo ancora in vacanza, era a vendemmiare con il papà. Gli domando perché ha deciso di prendere questa strada, e lui con un sincerità disarmante mi risponde dicendomi che nulla lo fa più felice di vedere quell’uva trasformarsi in vino. Se gli chiedo quando ha capito che quello sarebbe stato il suo lavoro, lui mi risponde dicendomi che da piccolino vedeva il papà Ulrico tornare a casa soddisfatto e felice, e che aveva sempre sognato di essere come lui.

 

La più antica enoteca di Puglia

Per finire questo viaggio attraverso la Puglia enologica non si può tacere la storia della più antica enoteca di Bari, e probabilmente di tutta la regione. L’enoteca Vinarius è aperta dal 1911 e si trova al centro della città nuova; a Bari tutti sanno dove si trova, e se non riescono a indicare bene la direzione per raggiungerla ti ci portano fisicamente, salutando il proprietario Fortunato Zanchetta De Pasquale.

Quando ho chiesto al signor Fortunato come è nata la sua enoteca, lui ha risposto: “Il fondatore è stato mio zio Luigi, che a causa della mancanza di figli e del bisogno di aiuto, mi ha voluto accanto a sé nei primi anni Sessanta, facendomi diventare suo erede. Inizialmente l’enoteca si trovava in via dei Rossi, poco distante da dove è oggi; poi nel 1964 fummo costretti a trasferirci, vista la demolizione di molti palazzi del centro storico, compreso quello che ci ospitava”.

Attualmente Fortunato è affiancato dai giovani di famiglia: dietro al banco, infatti, c’è la terza generazione. Anche in questo caso gli eredi hanno preferito restare a casa e investire tempo e lavoro nell’azienda di famiglia; l’ingresso di forze fresche, mi spiega Fortunato, è stato fondamentale per l’apertura del secondo punto vendita in zona Aeroporto, molto più grande del primo – parliamo di circa 3.000 metri quadri.

La mia conversazione con Fortunato prosegue, e gli chiedo quanta passione e sacrifici ci sono dietro questa attività. “Una passione smisurata foriera di tanti sacrifici, ma anche di grandi gioie e soddisfazioni. Non guardo mai l’orologio, molte sere mi trattengo in cantina più del dovuto, ma lo faccio con lo stesso piacere del primo giorno in cui ho messo piede nella bottega stretta con tutte le bottiglie attorno a fare da parete. Le guardo e mi vengono in mente storie e ricordi”. E io penso a me giovane trentenne con l’orologio al polso e non so se sia più giusto contare le ore passate al lavoro o riporlo, lasciando che sia la passione a scandire il tempo delle giornate.

 

Photo by Marcel-Gross via Unsplash

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