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Manifattura italiana contro resto del mondo?
Con il termine Industry 4.0, coniato per la prima volta in Germania, s’intende l’interconnessione del mondo reale (quello delle industrie) con il mondo virtuale (quello delle nuove tecnologie, l’Internet delle cose). La Lean 4.0 è una parte importante della Industry 4.0 ed è la logica evoluzione della tradizionale Lean, dell’Operations e della Qualità, a fronte […]
Con il termine Industry 4.0, coniato per la prima volta in Germania, s’intende l’interconnessione del mondo reale (quello delle industrie) con il mondo virtuale (quello delle nuove tecnologie, l’Internet delle cose). La Lean 4.0 è una parte importante della Industry 4.0 ed è la logica evoluzione della tradizionale Lean, dell’Operations e della Qualità, a fronte della constatazione che il paradigma produttivo, con il supporto delle tecnologie digitali, non è più la Mass Production ma la Mass Customization.
Le parole chiave sono quindi velocità, flessibilità e personalizzazione, perseguibili attraverso nove tecnologie abilitanti e attraverso le quattro dimensioni applicative: Smart Factory, Smart Operations, Smart Product e Data Driven & Services.
Cosa succede in Germania, Giappone, Stati Uniti
Durante l’ultimo percorso di alta formazione in Germania presso l’università di Stoccarda, ho appreso che oltre la metà delle 6000 imprese manifatturiere di questa nazione, con un fatturato superiore a 100 milioni di euro, ha in corso rilevanti investimenti per interconnettere le diverse parti del ciclo produttivo secondo le logiche IoT. Durante le visite aziendali ho visto affermarsi nuovi organismi tecno-industriali strutturati dove gli operai, utilizzando dei tablet, diventano parte attiva di modelli organizzativi che si assestano e si formano in tempo reale. Secondo i dati forniti dagli esperti del Fraunhofer Institut, nostri partner tedeschi per l’acquisizione del know-how in materia di Industry 4.0, la priorità delle aziende tedesche risulta essere la digitalizzazione dei processi al fine di recuperare efficienza. Per conseguire questo obiettivo, la strategia Industry 4.0 pare essere l’unica in grado di migliorare le performance e il valore aggiunto delle aziende con un ordine di grandezza oscillante dal 15 al 20% su base annua.
In Giappone, Satoshi Kuroiwa – già top manager Toyota e ora docente universitario – ci ha illustrato come il concetto di Industry 4.0 si sta sviluppando nel suo Paese come una naturale evoluzione dei concetti del Toyota Production System, sempre più integrati a livello informatico. Lo scorso anno, negli Stati Uniti, presso lo stabilimento Harley Davidson di Milwaukee abbiamo constatato che la strategia Industry 4.0 viene interpretata prevalentemente in chiave informatica, quale opportunità di connessione interattiva tra il prodotto e il cliente finale.
In sintesi si cominciano a intravedere tre linee di sviluppo differenti di questa strategia in tre diversi contesti culturali:
– la Germania orientata al manufacturing e agli impianti necessari per produrre;
– gli Stati Uniti orientati all’informatica e alle relazioni con il cliente;
– il Giappone orientato al coinvolgimento del personale quale naturale evoluzione dell’approccio Lean e Kaizen.
Ciò che colpisce particolarmente i nostri interlocutori è il fatto che, a livello internazionale, la strategia Industry 4.0 venga ormai considerata un differenziale competitivo fondamentale per consentire aumenti di produttività e riduzione dei costi nei prossimi anni. Logico, allora, chiedersi quale sia la situazione attuale in Italia, le motivazioni della leadership tedesca e del diffondersi dell’interesse nel mondo verso la strategia Industry 4.0.
La situazione in Italia
Gianfelice Rocca, Presidente di Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza, ha dichiarato che la prossima rivoluzione industriale sarà probabilmente ricca di opportunità anche per il nostro Paese, in quanto il modello di Industria 4.0 si adatta bene alla nostra cultura per i seguenti motivi:
– consente l’adozione di un modello di produzione One to One, secondo le logiche dell’ artigianato evoluto, punto forte delle nostre tradizioni industriali;
– permette di competere con successo con le altre regioni low cost nel mondo;
– rende possibile perseguire l’obiettivo di un’industria sostenibile e la transizione verso un’energia più pulita;
– facilita la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro di lavoratori specializzati.
Nel settore manifatturiero l’Italia è il secondo Paese europeo per valore aggiunto ed il quinto al mondo per surplus commerciale. Tuttavia il trend negli ultimi anni non risulta essere positivo (-54 miliardi di €) e pertanto si ravvede la necessità d’invertirlo.
Basti pensare che, attualmente, la manifattura nel nostro Paese vale solo il 16% del valore aggiunto sul PIL contro il 20% del 2000. Il Piano nazionale Industria 4.0, recentemente varato dal Governo, costituisce l’ultima chiamata per fermare la deindustrializzazione italiana e, se attivate le leve giuste, potrebbe tradursi in una concreta opportunità in termini di produttività e d’incremento degli occupati. La capacità d’utilizzazione di questa leva come veicolo di crescita rappresenta una sfida non solo per le imprese, ma anche per gli attori istituzionali che dovranno definire il contesto normativo nel quale le aziende opereranno.
Per questo in Italia occorre lavorare su tre concetti chiave:
– avviare una rivoluzione culturale diffusa;
– garantire procedure attuative semplici, certe nei tempi e collaborazioni pubblico-private;
– adottare politiche di formazione volte a sviluppare nei giovani competenze adeguate, che consentano loro di diventare i veri motori della quarta rivoluzione industriale.
La leadership tedesca punto per punto
Il primo quesito riguarda le ragioni per cui, parlando d’Industry 4.0, si riconosce una leadership tedesca.
L’espressione Industry 4.0 è nata in Germania nel 2011 in occasione della manifestazione di Hannover e nel 2012 è stato creato, sempre in Germania, un primo gruppo di lavoro che ha portato alla definizione di alcune linee guida per lo sviluppo delle tecnologie, come parte del più ampio High-Tech Strategy 2020 Action Plan. Il presupposto alla base di questo progetto è che, in un prossimo futuro, le imprese dovranno creare delle reti globali che incorporino macchinari, impianti di produzione e di stoccaggio, creando dei sistemi che integrino mondo fisico e virtuale, definiti Cyber-Physical Systems (CPS).
Il paradigma dell’Industry 4.0 si propone d’implementare, all’interno del panorama produttivo, sistemi in un’ottica di miglioramento sostanziale dei processi industriali di produzione, delle fasi d’ingegnerizzazione, della supply chain e dei cicli di vita dei prodotti all’interno della cosiddetta Smart Factory.
Le motivazioni di questo rilevante impegno, anche economico, del sistema industriale e del governo tedesco sono da ricercare in diversi ambiti:
– l’ambizione, stante il potenziale dell’industria manifatturiera tedesca, di divenire fornitrice privilegiata, se non esclusiva, di tecnologia nell’ottica dell’Industria 4.0;
– l’acquisita leadership tedesca nel campo dell’informatica applicata alla produzione con particolare riferimento al “mondo Sap”, in grado di gestire l’intero processo produttivo e la relativa supply chain con i fornitori;
– l’obiettivo di creare una fitta rete d’imprese e di centri di produzione, al fine di creare un sistema di produzione integrato in una logica digitale end-to-end, che coinvolga ciascun livello del processo di creazione del valore, le fasi del ciclo di vita dei prodotti e i sistemi di produzione;
– la necessità di recuperare ulteriori margini di efficienza dopo aver esaurito tutte le possibilità connesse con gli approcci strutturati della Lean production;
– il desiderio di tutelare il proprio know-how sempre più oggetto di fenomeni d’imitazione e quindi d’illecita concorrenza soprattutto da parte dei paesi low cost, mantenendo la “scatola nera” in Germania.
Le premesse concettuali di Industry 4.0
Il secondo quesito riguarda le motivazioni della diffusione, oserei dire come un effetto “moda”, del concetto di Industry 4.0 nel mondo. Alla base di ogni considerazione bisogna rendersi conto di com’è cambiato il cliente degli anni 2000. Grazie alla globalizzazione dei mercati, è alla costante ricerca del prodotto che più si avvicina ai suoi desideri, con un livello accettabile di qualità e al costo più basso possibile. A titolo di esempio basti pensare al successo di TripAdvisor. In sintesi, grazie alla rivoluzione digitale, il cliente ora è abituato a informarsi in rete, leggere le recensioni ove disponibili, a ragionare e capire se vale la pena comprare quel prodotto prima di acquistarlo e, se possibile, reperirlo secondo specifiche di suo interesse.
Nulla di nuovo, già nel 1999 Don Peppers e Martha Rogers, dopo una ricerca durata tre anni, presentarono nel libro Il marketing One to One il loro pensiero. L’idea principale del loro approccio al mercato consisteva nella capacità di un’azienda di soddisfare ogni singolo cliente, con l’acquisto di un singolo prodotto appositamente studiato per lui. In senso lato il concetto di marketing One to One può essere esteso a famiglie di prodotti o singoli mercati. Ma tutto ciò non basta: per soddisfare al massimo le esigenze del singolo cliente bisogna prima conoscerle e per questo deve nascere una forte relazione collaborativa tra il produttore e il cliente stesso. Si deve pertanto a Regis McKenna il concetto del Relationship Marketing, intendendo un marketing incentrato sulla capacità d’instaurare una relazione personale diretta tra l’azienda e il cliente.
Grazie a questo approccio, “il monologo narcisista”, che per molti anni ha segnato la capacità di relazionarsi dell’impresa sul mercato, si è indebolito a favore di un comportamento orientato al dialogo e all’ascolto con il cliente. Alvin Toffler, immaginando un mercato fortemente saturo nel momento in cui la produzione di massa di merci standardizzate cominciava a soddisfare tutte le domande di base dei clienti, coniò il termine prosumer quando predisse che i ruoli di produttore e consumatore avrebbero cominciato a fondersi e confondersi. Nella mia veste di Senior Member dell’American Society for Quality, ebbi modo, a suo tempo, di conoscere e discutere a lungo con il Dott. Toffler su questa sua visione del cliente, giungendo alla considerazione che l’eccesso di qualità può divenire causa di non qualità per altri clienti. A titolo d’esempio cito il caso di un importante ristorante milanese che richiede un tempo d’attesa di due mesi sulla prenotazione, tempo giudicato eccessivo e che, di fatto, pur alla presenza di un’elevata qualità offerta, allontana una fascia di potenziali clienti, in grado di reperire grazie alla rete una molteplicità di offerte alternative.
In sintesi il solo parametro della qualità non è più sufficiente per conquistare i mercati. Stiamo andando verso un’epoca che non solo sarà diversa, ma sarà anche migliore perché potremo aumentare sia la varietà sia il volume del nostro consumo, e nel complesso, “La connettività ci condurrà in un mondo altamente personalizzato, altamente interattivo e molto, molto interessante” (Eric Emerson Schmidt).
Il marketing One to One, unitamente al Relationship, di fatto costituisce la base teorica per la strategia di un’azienda in grado di fornire con elevata flessibilità gamme di prodotti, di elevata qualità, con prezzi competitivi a un limitato numero di clienti. “Non mi preoccupa chi pratica sconti sul mercato, ma chi offre un’esperienza di acquisto migliore” (Jeff Bezos, presidente di Amazon).
Secondo questa logica le aziende dovranno oltre che fornire prodotti One to One, aggiungere nuovi fattori di differenziazione che superando il concetto di attributi del prodotto e di marca accompagnino il cliente durante l’intero processo di acquisto e di utilizzo del prodotto. La quarta rivoluzione industriale include, quindi, un grande potenziale consentendo grazie alle tecnologie digitali di trasformare la Mass Production in Mass Customization. Ma attenzione, questo non significa automatizzare e digitalizzare ogni processo in maniera indiscriminata. Non è tutto oro quello che luccica, anche la tecnologia ha i suoi limiti
Confusione e superficialità: 4.0 non significa Robot
La parola Robot è entrata nel nostro vocabolario grazie a R.U.R. (Robot Universali Rossum), un dramma del 1921 del ceco Karel Capek e da quel giorno questi automi non hanno smesso di affascinare gli esseri umani. Isaac Asimov coniò il termine robotica nel 1941 e fornì l’anno successivo le regole base per la giovane disciplina con le sue celeberrime tre Leggi della robotica:
– un robot non può recare danno a un essere umano o permettere con l’inazione che un essere umano possa essere danneggiato;
– un robot deve ubbidire agli ordini degli esseri umani tranne quando tali ordini entrano in conflitto con la Prima Legge;
– un robot deve proteggere la propria esistenza finché tale protezione non entri in conflitto con la Prima e la Seconda Legge.
L’esperto del settore Hans Moravec dell’Istituto di robotica di Carnegie Mellon, conosciuto per i suoi numerosi scritti sull’impatto della Tecnologia, sostiene che è relativamente facile fare in modo che i computer forniscano performance a livello di un adulto in un test d’intelligenza o al gioco degli scacchi, ma parlando di percezione o di mobilità è difficile o impossibile dar loro le capacità di un bambino di un anno. È una condizione diventata nota come paradosso di Moravec, simpaticamente riassunto come: “La scoperta da parte degli esperti d’intelligenza artificiale e robotica del fatto che, contrariamente agli assunti tradizionali, un ragionamento complicato richiede pochissima capacità di calcolo, mentre le capacità motorie di basso livello richiedono enormi risorse di calcolo“.
Secondo Steven Pinker, docente di Psicologia all’Harvard University, uno dei più autorevoli studiosi di scienze cognitive, rigoroso e multidisciplinare che spazia dalle neuroscienze alla biologia evolutiva compiendo efficaci e frequenti incursioni nelle discipline più disparate, come l’economia, la psicologia sociale e la letteratura: ‘‘La principale lezione da trarre da trentacinque anni di ricerche sull’intelligenza artificiale è che i problemi difficili sono facili e i problemi facili sono difficili’’.
La verità è che salvo alcune rare eccezioni, tra le quali ricordo il Master Universitario di Lean Manufacturing dell’Università degli studi di Trieste del Prof. Dario Pozzetto, si assiste a molta confusione, superficialità se non incompetenza nell’affrontare le tematiche d’Industry 4.0, banalizzandole nel concetto più ampio di inserimento di robot e digitalizzazione dell’azienda e dei suoi processi.
In cosa consiste la Lean 4.0
Come scritto precedentemente, la Lean 4.0 è solo un aspetto dell’Industry 4.0 ed è l’area più vicina alle mie esperienze professionali. In sintesi, possiamo affermare che i modelli organizzativi che tradizionalmente si basavano sull’approccio Lean del Toyota Production System, che per altro risalgono agli anni ’70, vanno alla luce delle trasformazioni digitali in atto, profondamente modificati, se non abbandonati.
In cosa consiste la Lean 4.0? È la naturale evoluzione dell’approccio tradizionale Lean secondo le logiche del marketing One to One e con l’utilizzo delle tecnologie abilitanti, poste a disposizione dalla Digital Transformation. Del marketing One to One abbiamo già parlato diffusamente e le logiche del Toyota Production System sono ampiamente diffuse, pertanto preferisco soffermarmi sulle risorse umane.
Nel 2004 Frank Levy e Richard Murnane hanno pubblicato la loro ricerca The New Division of Labor, in cui analizzano le modalità attraverso le quali i computer stanno creando sul mercato il prossimo lavoro. La divisione, cui i due studiosi erano interessati, era quella tra lavoro umano e lavoro digitale, ossia tra persone e computer. In qualsiasi sistema economico, bisogna concentrarsi sulle mansioni e sui lavori in cui si ha un vantaggio comparativo rispetto alle macchine, lasciando ai computer le attività per cui sono più adatti.
Se studiassimo i meccanismi dei computer, comprenderemmo che non sono solo macchine calcolatrici, bensì elaboratori di simboli. La loro circuiteria può essere interpretata nel linguaggio binario fatto di tanti uno e zero, ma può essere fatto con altrettanta validità di vero e falso, sì e no o qualsiasi altro sistema simbolico. In linea di principio, i computer possono svolgere ogni sorta di operazione simbolica, dalla matematica alla logica, fino al linguaggio. Tuttavia non abbiamo ancora i romanzieri digitali, perciò i best seller sono scritti da persone. Dall’altra parte dello schema di Levy e Murnane, troviamo le attività di elaborazione delle informazioni che non possono essere ridotte a regole o algoritmi.
Come disse il filosofo Micheal Polanyi: ‘‘Noi sappiamo più di quello che possiamo dire“.
Il nostro cervello è fantastico quando si tratta di raccogliere informazioni attraverso i sensi ed esaminarle in cerca di percorsi, di ricorrenze, di schemi, ma non siamo bravi a capire o a descrivere come ci riusciamo, soprattutto quando ci arriva a un ritmo incalzante un notevole volume d’informazioni in rapida trasformazione. In questo quadro, il capitale umano negli approcci d’Industry 4.0 è e rimane il fattore centrale, insostituibile e abilitante anche per l’utilizzo delle nuove tecnologie.
Alla luce di quanto sopra esposto e certo che altri autori tratteranno diffusamente quest’ultimo punto,vorrei terminare riportando un elenco delle tecnologie abilitanti in cui si può evincere la sintesi di quanto emerso in un confronto con gli esperti dell’Università di Stoccarda, in merito agli aspetti che caratterizzano la Lean 4.0.
I 15 aspetti principali che caratterizzano un’organizzazione Lean.4.0
– esistenza di un sistema di relazione con i clienti secondo le logiche prosumer;
– utilizza i Big Data per anticipare i bisogni dei clienti;
– dà ampio ricorso alla raccolta e gestione in autonomia dei dati;
– sposta le logiche da una produzione di massa a una produzione One to One;
– scompone la distinta base in digitale e analogica;
– riprogetta i prodotti secondo le logiche del punto di disaccoppiamento One to One;
– inserisce architetture informatiche, secondo le logiche del Virtual Cloud “Fort Knox”;
– utilizza tra le tecnologie abilitanti quelle più adatte alla singola azienda;
– pianifica l’introduzione di Internet delle cose a bordo di macchine e impianti;
– modifica le logiche di produzione da sottrattiva ad additiva;
– utilizza strumenti atti ad elevare la realtà virtuale;
– favorisce il recupero di efficienze attraverso la caccia alle “Digital Muda”;
– attiva le sinergie uomo-robot collaborativi;
– si integra perfettamente con le logiche di e-commerce e di e-procurement;
– crea una nuova classe di collaboratori, integrando nativi con immigrati digitali.
Da sottolineare inoltre l’importanza, già patrimonio della Lean tradizionale, di identificare chiaramente il processo che consegna valore al cliente (cosiddetto value stream) e di eliminare le fasi che non aggiungono valore, Digital Muda, tenendo in giusta considerazione l’Esperienza d’Uso, intesa come quello che una persona prova quando utilizza un prodotto, un sistema o un servizio.
Ma cosa s’intende per Digital MUDA?
– sintesi delle tecnologie e le metodologie abilitanti:
– sistemi Cyber Phisical;
– internet delle Cose;
– stampanti 3D & Additive Manufacturing;
– aumento della realtà virtuale;
– big data e Analisi;
– fabbrica intelligente e robots autonomi;
– system Integrati e ICT.
Si tratta insomma di un’operazione che consuma tempo e risorse ma che non aggiunge valore al prodotto e che potrebbe, pertanto, essere facilmente o meglio digitalizzata.
(Photo credits: www.blog.picor.com)
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