L’italiano ci lascia senza parole

Secondo uno dei pochi  assiomi che non è mai stato messo in discussione prima d’ora — nemmeno in tempo di  continui cambiamenti qual è il nostro — ciò che distingue veramente l’uomo dagli altri esseri viventi della terra è l’uso della parola quale strumento essenziale  di comunicazione, di condivisione di idee, sentimenti ed emozioni. Ma proprio in questi […]

Secondo uno dei pochi  assiomi che non è mai stato messo in discussione prima d’ora — nemmeno in tempo di  continui cambiamenti qual è il nostro — ciò che distingue veramente l’uomo dagli altri esseri viventi della terra è l’uso della parola quale strumento essenziale  di comunicazione, di condivisione di idee, sentimenti ed emozioni. Ma proprio in questi giorni ho saputo che, secondo l’esperimento effettuato da William Sherman su un macaco, anche le scimmie sono in grado di pronunziare le cinque vocali e quindi di parlare, cosa che finora non avevano mai fatto perché il loro cervello è ancora in evoluzione.

Oltre allo sconcerto provocato da questa notizia, che apporterebbe cambiamenti incredibili turbando gli equilibri millenari del nostro pianeta, c’è da chiedersi, nel caso in cui anche le scimmie potranno parlare, se useranno un’unica lingua per comunicare tra loro o se faranno come gli uomini che, dopo la Torre di Babele, si ritrovarono a usare ognuno una lingua diversa, così che nessuno poteva più comprendere gli altri né essere da loro compreso.

La Bibbia racconta il fenomeno del proliferare improvviso di un’infinità di lingue come giusta punizione divina alla presunzione umana di voler raggiungere il cielo costruendo la torre più alta del mondo, ma il suo significato simbolico è chiaramente un altro, perché l’incomunicabilità tra gli uomini non è mai dipesa da differenze linguistiche, sempre superabili, bensì dalla presunzione diffusa di essere gli unici depositari della sapienza dell’universo. Di finti sordi è sempre stato pieno il mondo.

Finora, infatti, nessuna Babele si è verificata nell’Unione Europea a causa delle ventiquattro lingue usate dai rappresentanti degli ormai ventisette Paesi che ne fanno parte, perché il compito di rendere possibile o facilitare la comunicazione interpersonale è stato riservato alle tre cosiddette “lingue di lavoro”. In pratica l’inglese, il francese e il tedesco ora svolgono lo stesso compito che nel 196 A.C. uno scriba egiziano aveva affidato alla lingua greca quando scolpì sulla Stele di Rosetta un decreto di Tolomeo V Epifano. Infatti, fu solo la presenza del greco, quale terza lingua accanto al geroglifico e al demotico, che nel 1799 permise a Jean Francois Chantillon di interpretare i geroglifici egiziani fino ad allora considerati incomprensibili.

Conoscere bene almeno due di queste lingue chiave, oltre alla propria, è ormai necessario per chiunque voglia vivere da cittadino europeo in patria e in Europa e non rischiare di tradurre, ad esempio, Anchova Toast con Brindisi all’acciuga, come ho incredibilmente letto a Bruxelles nel menù della cena di gala di un convegno della Federation des Jeunes Chefs d’Entreprise d’Europe.

Dato quindi per scontato che la conoscenza delle lingue straniere è un elemento indispensabile nell’educazione dei giovani cittadini europei, mi sembra però opportuno ribadire quanto sia essenziale anche l’uso corretto della propria lingua. Siamo tutti davvero consapevoli di quanto sia importante l’uso che ne facciamo? Passi per i congiuntivi mancanti, il cui uso è ormai patrimonio di pochi eletti, passi per l’uso stenografico usato dai più o meno giovani per messaggiare  tra loro, ma non si può rimanere indifferenti di fronte a veri e propri assassini della nostra lingua compiuti da chi dovrebbe fare da esempio per il resto dei cittadini, come aspettare le “suggestioni” dei radioascoltatori e non i loro  “suggerimenti” o come “l’incomincio” della settimana e non più “l’inizio” o come qualificare “stentorea” la voce bassissima di un timido concorrente, solo per citare alcuni degli spropositi più recenti tra radio e televisione.

E che dire del mancato o errato uso della punteggiatura con i misunderstanding (pardon, le incomprensioni) che ne potrebbero derivare? Chi non ricorda infatti l’escamotage (pardon, il trucco) usato dalla Sibilla Cumana di non mettere alcuna virgola nell’oracolo richiesto da chi stava per andare in guerra? La profezia “Ibis et redibis non morieris in bello” (Andrai e ritornerai non morirai in guerra) poteva infatti essere letta in due modi: con una virgola prima del “non” sarebbe stata rassicurante mentre, con una virgola dopo ilnon”, il combattente avrebbe saputo per certo che non sarebbe più ritornato (Andrai e non ritornerai, morirai in guerra): ne conseguiva che, qualunque fosse stato l’esito della guerra, per il soldato la Sibilla avrebbe sempre avuto ragione.

Tornando al presente, è naturale e logico che ci sia una evoluzione della nostra lingua madre, anche attraverso il suo arricchirsi con i molti neologismi resi necessari dalle novità che il progresso scientifico e tecnologico ci regala quasi ogni giorno. C’è però neologismo e neologismo: il farabuttismo usato da un noto uomo politico per descrivere le accuse a lui rivolte è davvero difficile da digerire, quasi quanto il piacialismo che dovrebbe indicare la psicosi di chi vuol piacere a tutti come a se stesso.

Anche la crescente sostituzione di vocaboli italiani con espressioni straniere può essere accettabile, quando queste sono più semplici e facilmente comprensibili. Non è invece accettabile che la lingua inglese invada anche i nostri testi legislativi. Non esisteva forse una adeguata e valida espressione italiana per la stepchild adoption finita in bella mostra nella legge sulle Unioni civili? E il Jobs Act, acronimo di Jumpstart Our Business Startups Act poteva di certo essere definito diversamente in italiano, visto che il comune cittadino non sa che si tratta di un acronimo e che le quattro parole inglesi che lo compongono significano più o meno “facciamo fare un salto di qualità ai nostri affari”.

Il più delle volte, insomma, l’uso di vocaboli stranieri non è nemmeno necessario e costituisce solo una forzatura, uno snobismo (dal latino sine nobilitate) o addirittura uno sgorbio letterario.

Tutto vorremmo meno che la lingua in evoluzione ci lasci senza parole.

 

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