La competizione moderna ha fatto a pezzetti la musica

In ogni successo e in ogni sconfitta c’è sempre una forma di competizione, a volte intellettuale altre volte più volitiva. Si combatte sempre e in prima persona per stare dentro a qualcosa. La competizione in ogni caso non è più quella di una volta. Tutti i cambiamenti epocali e industriali del business della musica l’hanno […]

In ogni successo e in ogni sconfitta c’è sempre una forma di competizione, a volte intellettuale altre volte più volitiva. Si combatte sempre e in prima persona per stare dentro a qualcosa. La competizione in ogni caso non è più quella di una volta. Tutti i cambiamenti epocali e industriali del business della musica l’hanno trasformata non solo come fatto individuale ma anche come fenomeno di relazione. Tutto dipende dal fatto che prima c’era un mostro che creava il vero destino delle produzioni musicali e degli artisti: un mostro che ha cambiato tanti nomi e tante facce, “musica leggera” o “discografia”, poi ha iniziato a chiamarsi “prodotto disco” e poi ancora “cd”. Accadeva meno nella musica classica dove i concorsi e i concerti dal vivo avevano altri mercati.

Quando si pensa al mondo industriale della discografia bisogna pensare ad un’industria manifatturiera e creativa al tempo stesso: dietro c’era questa scuola del Music Business inteso anche come Movie Business che è stato il vero maestro della discografia. A capo di quell’industria sana c’erano manager che volevano essere anche persone, gente che aveva il profilo di chi voleva gestire l’impresa ma anche gli artisti, gente con un fiuto incredibile. Un nome leggendario su tutti, Seymour Stein, il Vice Presidente della Warner Music che ha prodotto dai Sex Pistols a Madonna: lui quegli artisti li firmava ma era anche il loro amico. Un altro mondo, un’altra passione per la musica, un’altra forma di competizione. Era un mercato fatto di domanda e di offerta che poi piano piano è sparito, trasformandosi sempre più, fino ad arrivare alla pirateria e alla contrazione del mercato, il prodotto disco e il cd hanno finito per cambiare appeal oltre che forma.

Oggi la gente compra musica a pezzetti. La stessa cosa succede a livello industriale quando si fanno le fusioni, tipiche di quando le cose non vanno più bene come prima: nella contrazione i grandi management dell’industria musicale hanno deciso di fare i finanziatori e di occuparsi del loro catalogo. Ecco la vendita di Warner a un russo o di RCA a un tedesco.
Allora viene da chiedersi se oggi gli artisti competano più con se stessi che col mondo fuori.
Gli artisti hanno iniziato ad autoprodursi, il contenuto – cioè le canzoni, gli arrangiamenti e i suoni – per i grandi nomi ora sono ora autonomi al 100%. L’autoproduzione è diventata l’unica maniera per entrare nel mercato. La competizione si è fatta individuale, la competizione non è più industriale (una volta ci si rubavano i contratti). Oggi la canzone o funziona o muore, sono tutti molto più ferrati perché c’è stato un grande passaggio di competenze.
I media hanno acquisito un peso impensabile fino a qualche anno fa e la televisione oggi contiene produzioni musicali che puntano inevitabilmente ad un’esposizione televisiva strizzando l’occhio al lato imprenditoriale. Oggi la lotta vera è tra chi produce musica per la tv e chi produce musica per la musica: i media la fanno da padrone perché ottimizzano qualsiasi cosa e perché il mezzo è molto più potente e immediato. Se c’è una cosa che i media sono stati capaci di ottenere, quella cosa è la contrazione dei tempi perché oggi più che mai il fattore tempo è tutto. Negli anni ‘80 il tempo era fisiologico, i manager facevano piani a 3, 4, 5 anni per creare e per far conoscere, il tempo era una componente essenziale che tutti accettavano come necessaria.

Nel mio lavoro ho sempre cercato di circondarmi di persone che credono nella musica e non nel prodotto musica, porto avanti questo valore da sempre sia nei seminari che nel Campus creato da poco. La mia e la loro vita non è l’industria perché ho sempre scelto di gestire cantautori con contenuti. Sono un italiano formatosi tra l’America e l’Europa, sono cresciuto col pensiero manageriale delle scuole che derivano dal movie business: ecco perché cerco da sempre di far crescere persone capaci di generare una produzione artistica e industriale attraverso l’intuizione, passando per una formazione seria, usando la pazienza e sfruttando il link positivo tra artisti e gente comune, tra la cultura dominante e la politica.
Una volta c’era lo stress da classifica, forse c’è ancora, ma essere in classifica non vuol dire saper competere bene. La garanzia di un buon prodotto è un concetto delicato, in classifica concorrono gusti, tendenze, marketing selvaggio e uffici stampa poderosi che possono tirar fuori anche false verità. Competere, quindi, non è un concetto chiaro, non si riesce a mettere un valore insieme a un altro. Le classifiche sono sempre state così, poco credibili, e Sanremo fa scuola a tutti. Un’altra espressione moderna è quella dei talent show dove si soffre più che imparare.

I giovani musicofili o musicomani che vogliono creare un evento o un prodotto musicale hanno due scelte: o fare la trafila per un talent show puntando ad un’altissima exposure, a fare una trentina di concerti, a pubblicare un disco e finire felici su iTunes oppure fare passo dopo passo quello che è da sempre il percorso del vero artista: suonare dal vivo, trovare un piccolo club, creare circoli di fan nelle singole regioni anche grazie alle radio. Solo evitando il mondo invadente dei media si riesca a sfuggire ai lacci che quei media ti cuciono addosso mettendoti sulle loro strade e rischiando di bruciarti con contratti capestro. I media sono d’accordo con le case discografiche e ti schiacciano, tanto con la comunicazione standard vincono sempre loro.

Chiunque deve essere messo in condizione di esprimere una creatività e di avere qualcuno che creda in lui. In giro vedo più inerzia che crescita, gli spettacoli televisivi sono pilotati ma se hai una personalità da imporre ti conviene tirarla fuori subito e capire che devi piacere al pubblico per essere libero. Da quando sono tornato in Italia, due anni fa, mi rendo sempre più conto che non disprezzo affatto il mercato ma che non amo chi segue i grandi padroni e scelgo ancora la strada del talento vero. La competizione vuole buon fegato e tanta volontà, chiede una grande dose di coraggio. Se ti butti sul mercato televisivo la competizione è un elemento naturale ma il rischio grande di certi progetti televisivi è che la gente pensi sia quella l’offerta musicale contemporanea: non è così, credetemi. Quelli non sono interpreti, non sono artisti che esprimono un’identità creativa. Non è quel sistema lì che manda avanti la musica, quello lì è solo lo spettacolo, è un’altra cosa. L’interprete c’è sempre stato ed è quello che va sul palco: ma chi non ha una vera personalità non esiste, chi non produce un atto creativo non ha futuro. Però la tv è un circo che fa intrattenimento e come ogni circo ha leggi durissime da rispettare.

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