La compravendita dei brand che fa bene al Made in Italy

Se la compravendita dei brand fa bene alle aziende: osserviamo il caso dell’azienda vinicola Ruffino e del felice sodalizio coi nuovi proprietari stranieri.

Ducati è passata in mano straniera. Una notizia che, anche per chi come me non segue lo sport, ha avuto una certa risonanza. Aziende italiane che vengono acquistate da stranieri ce ne sono parecchie; poche fanno notizia, solo alcune danno il nome a proposte di decreti restrittivi che poi non trovano alcuna realizzazione. Ma essere acquistati da un fondo o da un’azienda straniera non è sempre un male. Lo dimostra proprio la storia di Ducati e dei vini Ruffino.

Il termine “compravendita dei brand” dipinge una situazione di cannibalizzazione aziendale su cui mi sono già espresso proprio per Senza Filtro. Ci sono però situazioni interessanti, come quella della Ducati e la vostra, che smentiscono fermamente che l’essere acquisiti da fondi o società estere sia un male. Qual è la vostra esperienza?

Nel 2011 Ruffino è
passata in Constellation Brands che è tra le più grandi aziende di vino e
alcolici al mondo con cui già dal 2004 avevamo un rapporto di partnership,
poiché era il nostro distributore negli Stati Uniti. Ruffino aveva con
Constellation Brands anche un’opzione put, cioè a vendere, che in quel periodo
venne esercitata dalla famiglia Folonari, la quale aveva acquistato l’azienda
nel 1913 dai cugini Ilario e Leopoldo Ruffino. Il momento della vendita ha
coinciso con il passaggio generazionale, perché era sempre più chiaro che i
figli non erano interessati a rimanere nel mondo del vino, e così la famiglia
ha deciso di cedere l’azienda. Come giustamente diceva, assieme a Ducati e a
molti altri, il nostro è uno dei casi di successo di cessione di un brand
italiano. Si pensi che nel momento della vendita Ruffino fatturava tanto quanto
i debiti che aveva con le banche, circa 50 milioni di euro, che non è proprio
una situazione idilliaca. Dopo l’acquisizione l’azienda è rifiorita. È stato
introdotto un management nuovo che arriva da contesti multinazionali, e ognuno
nel proprio reparto ha portato innovazione, cambiando il volto dell’azienda. È
stato introdotto un modo diverso di fare azienda.

Quali sono stati i primi passi dopo l’acquisizione?

Dopo l’acquisizione abbiamo ristrutturato l’azienda e messo mano al
portfolio vini facendo una scelta radicale: abbiamo smesso di produrre i vini
che piacevano all’imprenditore e abbiamo iniziato ad ascoltare i nostri
clienti. Un esempio su tutti, il nostro prosecco: è il più esportato in USA tra
i prosecchi italiani, e questo accade perché è un prodotto unico che incontra i
gusti del mercato d’oltreoceano. Non solo: già nei primissimi mesi successivi
all’acquisizione, Ruffino ha beneficiato di investimenti strutturali nella sua
sede a Pontassieve e nelle sue principali tenute in Toscana, oltre al rilancio
di uno dei vini che avevano fatto la storia di Ruffino nel mondo: il fiasco di
Chianti, a ribadire una volta di più il loro interesse a mantenere forte
l’identità toscana e italiana del marchio. Non è un caso
che Riserva Ducale e Riserva Ducale Oro, i Chianti Classici più famosi di
Ruffino, abbiano dal 2011 mostrato un incremento qualitativo sostanziato anno
dopo anno e che ha portato, lo scorso ottobre, Riserva Ducale Oro 2014 al
grande riconoscimento dei “3 bicchieri” del Gambero Rosso.

Quando ci sono investimenti stranieri in aziende italiane
si grida sempre alla delocalizzazione. Perché siete sicuri che a voi non
accadrà?

Noi, e parlo di
Constellation Brands, non delocalizziamo. Sarebbe la morte della nostra
azienda. Vede, se il prodotto è di qualità ed ha una connotazione territoriale,
non si può delocalizzare. I vini Ruffino sono conosciuti nel mondo per
l’italianità del brand. Lo stesso vitigno che coltiviamo e curiamo qui,
trapiantato in un altro posto, darebbe un prodotto diverso. Per questo motivo
qui nessuno ha mai temuto di perdere il lavoro, ed è il primo motivo per cui le
persone hanno accettato il passaggio di proprietà. Il secondo è collegato agli
investimenti che Constellation Brands ha fatto nell’azienda in termini di
ammodernamento dei macchinari e riorganizzazione dei processi, che hanno
oggettivamente permesso di lavorare meglio e di contenere i costi senza
rinunciare alla qualità del prodotto. Il terzo motivo è la condivisione della
rete commerciale, che ci ha permesso una penetrazione di mercato maggiore con
conseguenze positive sul bilancio. Ad oggi il nostro Chianti è il più venduto
in USA e nei nordics, mentre Ruffino è il marchio di vini più venduto in
Canada. Sono risultati molto importanti per una singola azienda, e la cosa
interessante è proprio questa: mentre Constellation Brands fattura 7 miliardi
di dollari in tutto il mondo, Ruffino fattura poco più di 100 milioni, una
goccia del bilancio consolidato, ma il peso di immagine che Ruffino offre è
superiore all’apporto del fatturato e dell’EBIT. Siamo uno di quei marchi che
Constellation Brands può esporre su scala globale, ricavandone un vantaggio
solo dal nome che è sinonimo di gusto italiano, una cosa che ha ancora il suo
peso. Come vede la questione non è essere Ducati o Ruffino, la questione è
essere spendibili sul mercato e questo accade solo se hai un prodotto unico e
di qualità.

Le faccio una domanda provocatoria: Cile, Sudafrica e
altri Paesi fanno ormai vini di qualità indiscutibile Non avete paura di una
competizione sul prodotto?

È vero, nel mondo
si fa del buon vino ormai un po’ dappertutto. E nel nostro gruppo ci sono
esempi di grandi vini, come il Sauvignon Blanc della neozelandese Kim Crawford,
o i Cabernet della Robert Mondavi Winery in California. È innegabile che ci sia
una competizione sul prodotto molto serrata, ma è altrettanto vero che la
storia che racconta il nostro vino in termini di territorio è tutta
particolare. Da questo punto di vista ogni bottiglia ha il pregio di essere
inimitabile, con una propria storia, prodotta in un contesto spesso
caratterizzato da una ineguagliabile bellezza naturale e architettonica. Quindi
la risposta è no, non temiamo la competizione sul prodotto, ma siamo sempre
consci che per mantenere le nostre posizioni sul mercato non si possa e non si
debba stare seduti a bearci della nostra storia.

Com’è cambiata la vita aziendale con
l’avvento di un investitore diverso dalla “famiglia”? Quali tipi di
pensieri nuovi sono stati “importati” e quali di quelli presenti sono
stati rafforzati e quali messi da parte?

È cambiata molto. I
pensieri manageriali sono completamente diversi. L’azienda ha puntato
sull’italianità e sul vino tradizionale capace di rinnovarsi. Noi facciamo Chianti
dal 1887, ma innovando sempre il prodotto. Il motto dell’azienda è “il futuro è
di chi lo ha cominciato”, un approccio che ci permette di far diventare la
novità di oggi una tradizione del domani. Abbiamo sicuramente abbandonato la
tendenza ad ascoltare unicamente la voce e i gusti dell’imprenditore per
abbracciare quelli del cliente, che ascoltiamo andando incontro alle sue
esigenze. Ascoltare il mercato senza stravolgere la vocazione dell’azienda per
il prodotto di qualità, anche se rivolto al grande pubblico, è sicuramente stata
una connotazione importante che ci ha permesso di essere uno dei player più
importanti del mercato.

Come viene percepita la proprietà
straniera di un marchio italiano da parte dei dipendenti italiani?

Devo dire che viene
percepita molto bene, non solo per la capacità di innovare e ammodernare
l’azienda, ma anche perché la nuova proprietà ha avuto rispetto per il nostro
brand e per la nostra storia. Sono entrati in punta di piedi prendendosi cura
delle persone e delle competenze, facilitando l’integrazione tra un’azienda
tutta italiana e la multinazionale. Sono stati capaci di rispettare i nostri
tempi, dandoci la possibilità di adeguarci al loro modo di fare impresa pur
rimanendo italiani nell’anima e un riferimento importante per il territorio.

Ci sono state comunicazioni interne particolari che hanno
facilitato questo passaggio?

Posso però dire che
prima dell’acquisizione l’azienda aveva fatto anche dei periodi in cassa integrazione,
e le difficoltà si percepivano. C’era una tensione palpabile, quindi quando i
dipendenti hanno saputo dell’arrivo di un acquirente hanno iniziato a
intravedere un futuro nella concretezza dei piani aziendali messi in campo. Non
c’è stato bisogno di una comunicazione formale, il modo di interpretare
l’azienda era tangibile e si vedeva nel nuovo modo di lavorare, nell’utilizzo
della viticoltura di precisione, nell’inserimento di concetti di lean
manufacturing, nell’automazione dei magazzini: tutte iniziative che hanno fatto
di Ruffino un modello.

Un’azienda storica che cambia il proprio
volto. Com’è stato vissuto dai vostri clienti questo intervento dall’esterno?

Il cliente compra un vino di un’azienda che, come dicevo prima, racconta una storia. Ad esempio abbiamo una lettera di Giuseppe Verdi che si lamenta perché non ha ricevuto il vino che aveva ordinato, e questo la dice lunga. Potrei intrattenerla tutta la giornata raccontandole simpatici aneddoti come quello dei vini Ruffino, esportati in America già all’inizio del ventesimo secolo, che rischiavano il bando durante il proibizionismo se non fosse stato per una geniale trovata: vendere i vini Ruffino nelle farmacie come prodotto tranquillante, superando così le restrizioni dovute alle leggi di allora. Quando comprano i nostri vini i clienti cercano questo: italianità, buon gusto, convivialità non formale, gioia di vivere. Non credo quindi che il consumatore finale si sia accorto che la proprietà è cambiata, di certo si sono accorti che la qualità è migliorata.

Photo credits: Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia

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