La demenza è di tutti

Penso al film Amour (2012), del regista Hanneke: due coniugi, ex insegnanti di musica ormai in pensione, la cui vita matrimoniale all’improvviso è messa a dura a prova da una malattia paralizzante che colpisce la moglie: i due finiranno per chiudersi in loro stessi perché lo stato della donna è troppo umiliante per essere condiviso. […]

Penso al film Amour (2012), del regista Hanneke: due coniugi, ex insegnanti di musica ormai in pensione, la cui vita matrimoniale all’improvviso è messa a dura a prova da una malattia paralizzante che colpisce la moglie: i due finiranno per chiudersi in loro stessi perché lo stato della donna è troppo umiliante per essere condiviso.

Ad oggi, purtroppo, non ci sono cure per la demenza, e almeno finora, non c’è modo di arrestare la malattia. I malati hanno bisogno di assistenza continua, e di solito questo ruolo viene assunto dalle famiglie, ma questo ha un carico a volte eccessivo su di loro. Il diritto di assistere un anziano in maniera dignitosa senza doversi indebitare (per pagare case di cura o badanti) e senza trascurare completamente il proprio lavoro e il proprio nucleo familiare sembrano argomenti purtroppo ancora lontani dal vivo del dibattito sociale.

C’è però chi va controcorrente e desidera rafforzare la rete di aiuti, permettendo una più facile cura dei propri cari e una migliore conciliazione vita privata/vita lavorativa. È da questo pensiero che nasce il confronto con Fabio Streliotto (cofondatore di Innova e consulente per l’innovazione organizzativa e il welfare aziendale, d’ora in poi F.) e Sara Sabbadin (d’ora in poi S.), che insieme a Chiara Valentini (entrambe psicologhe, responsabili dell’Area Anziani del Welfarepoint), hanno ideato nel 2016 un progetto che opera nell’area di Padova, “I miei giorni con te”, dedicato a chi si prende cura di un malato di demenza a domicilio. Come lui stesso sottolinea: «In una società in cui le risorse pubbliche sono in riduzione e i problemi sociali in aumento, vi è la necessità di ricostruire una trama sociale capace di attivare soluzioni generative. La strategia più promettente è quella di affiancare al welfare pubblico un “secondo welfare”, composto da una vasta gamma di attori collegati in reti con un forte ancoramento territoriale. Il desiderio è mobilitare gran parte della società civile, che partecipa e investe sui valori della sussidiarietà, della reciprocità e del bene comune, e coinvolgere le imprese in modo che diventino uno dei principali attori di questa “innovazione sociale”».

 

 

Qual è la mission di Innova?

(F.) Costruire ecosistemi capaci di generare “valore condiviso”. Il nostro è un approccio che si basa sulla sussidiarietà circolare, frutto dell’integrazione del welfare aziendale con il welfare contrattuale e il welfare municipale. Un modello dove gli attori principali sono le imprese, le amministrazioni locali e i cittadini, soggetti indispensabili per costruire un welfare generativo.

Mi parli del progetto I miei giorni con te.

(F.) È un progetto in partnership con le amministrazioni locali e le organizzazioni di terzo settore per favorire l’innovazione sociale e le reti multi-stakeholder, sviluppando attività rivolte alle persone fragili del territorio: in questo caso i caregiver che hanno in carico anziani con patologie legate alla demenza. Lavorando con delle esperte nel campo come le dott.sse Sara Sabbadin e Chiara Valentini, ci siamo resi conto del grande bisogno di aiuto, sostegno e informazione che ancora ruotava attorno a questa malattia. Da qui l’idea di un progetto dedicato ai malati, alle famiglie e a chi lavora con la demenza, come le “badanti”, che coinvolgesse anche le imprese dell’alta padovana. Con l’obiettivo di diffondere buona informazione sul tema e far conoscere le nostre iniziative nel 2017 sono nati anche il libro I miei giorni con te (destinato a tutti coloro che si prendono cura quotidianamente di una persona con demenza) e la pagina Facebook.

È vero che il caregiver è un “lavoro da donne”? Qual è la vostra esperienza?

(S.) Certo, anche se non solo. Secondo l’ultima rilevazione disponibile su scala nazionale (effettuata nel 2016 dal Censis in collaborazione con l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer) i caregiver in Italia sono per il 66% donne, per lo più figlie e nuore. E devo dire che nella mia pratica lavorativa ritrovo queste proporzioni. Ma non dobbiamo dimenticare che in molti casi il caregiver principale rimane il coniuge, il più delle volte anziano e alle prese a sua volta con problemi di salute.

Qual è l’impatto economico per una famiglia che deve gestire un paziente affetto di demenza?

(S.) Enorme. Per capire l’impatto economico della demenza dobbiamo dividere i costi diretti, cioè gli oneri economici che gravano direttamente sulla famiglia e sul SSN, dai costi indiretti, cioè la “monetizzazione” dell’assistenza sostenuta dalle famiglie. Nei costi diretti rientrano spese per la maggior parte (ma non del tutto) a carico dei SSN, quali i farmaci e l’utilizzo di ausili sanitari, l’accesso ai servizi sociosanitari come centri diurni e RSA, dove la spesa (peraltro elevata) è divisa tra SSN e famiglie, ma anche le modifiche dell’abitazione e l’assunzione di personale di cura a domicilio, queste ultime totalmente a carico delle famiglie. Quando parlo di costi indiretti mi riferisco alla perdita di risorse per la collettività che la malattia porta con sé. In altre parole questo dato si ottiene attribuendo un valore economico al tempo che il caregiver dedica all’assistenza e che sottrae ad altre attività familiari, lavorative e sociali.

Quali passi in avanti si possono fare a livello legislativo e quali consigli darebbe a un imprenditore per migliorare questo aspetto della vita dei suoi dipendenti?

(S.) A livello legislativo, è auspicabile la previsione di un assegno per caregiver, in particolare per quelle persone che sono state costrette ad abbandonare il proprio lavoro. È inoltre necessario investire sulla salute della popolazione per non sotterrare la nostra economia. In molti dibattiti sulla spesa pubblica a lungo termine, la spesa sanitaria è semplicemente vista come un drenaggio delle risorse fiscali. Nella legislatura recentemente conclusa è stato istituito un Fondo nazionale per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, che però, per essere attivato, richiede l’approvazione di uno specifico testo in legge (qui è possibile approfondire l’iter di questa legge, N.d.R.).

(F.) A livello aziendale, è possibile strutturare un piano di welfare su base sociale, con l’erogazione di un credito a quei lavoratori che sono anche caregiver di un familiare anziano non autosufficiente per sostenere parte dei costi di assistenza. Serve mettere in campo azioni per la prevenzione e la corretta formazione per vedere incrementata l’efficienza sul lavoro.

Quali vantaggi traggono le aziende e il territorio da questo tipo di iniziative? Ci faccia qualche esempio pratico.

(F.) Il motivo principale per cui vale la pena investire in questo campo è il fatto che questo problema, pur avendo luogo nelle case dei dipendenti, di fatto entra anche in azienda. Sappiamo che un caregiver su due è in età lavorativa, ma sappiamo anche che il 40% di questi non lavora per seguire il malato. Nel campione intervistato dal Censis, tra quelli che il lavoro sono riusciti a mantenerlo più della metà riferisce difficoltà nel conciliare lavoro e assistenza, uno su quattro ha dovuto chiedere il part time e quasi la metà dichiara che la malattia del familiare lo obbliga a continue assenze dal lavoro. I caregiver, inoltre, tendono ad ammalarsi più spesso; riferiscono stanchezza, disturbi del sonno e dell’umore in percentuali significativamente più alte del resto della popolazione. Quando un familiare si ammala di demenza, questo evento impatta fortemente nella vita del lavoratore e della sua famiglia, influenzando inevitabilmente produttività e rendimento sul lavoro.

(S.) Se chiedessi ai caregiver quali sono gli aiuti di cui avrebbero maggior necessità le risposte più frequenti sarebbero: maggiori informazioni, aiuti economici e una rete di servizi a cui appoggiarsi. E questo è un punto cruciale su cui le aziende potrebbero fare molto. Per esempio, percorsi di informazione e sostegno sul tema significherebbero contribuire attivamente ad aiutare il lavoratore a trovare soluzioni concrete per alleviare il carico familiare, con benefici conseguenti sul suo rendimento lavorativo.

Parliamo di prevenzione. Che cosa intendete per promuovere “la cultura dell’invecchiamento sano e attivo, stimolando la curiosità e l’interesse su argomenti fondamentali per la salute pubblica”?

(S.) Ormai sappiamo che il modo in cui invecchieremo è in buona parte legato al nostro stile di vita. Come mangiamo, quanto ci teniamo attivi, il ruolo che continuiamo a rivestire nel nostro ambiente sociale (anche e soprattutto dopo l’uscita dal mondo del lavoro), quanto teniamo il nostro cervello in allenamento influenzano in modo significativo la nostra salute futura. Investire in un invecchiamento in salute diventa una priorità da coltivare sin da quando siamo ancora attivi, al fine di rimanerlo il più a lungo possibile. Così abbiamo pensato di costruire dei percorsi informativi per i lavoratori basati sulla curiosità, utilizzando un linguaggio semplice e intuitivo. L’obiettivo che ci poniamo è smentire i principali pregiudizi che ancora ci portano a vedere la persona che invecchia come sempre meno utile e produttiva, con la speranza di stimolare interesse nel saperne qualcosa di più.

 

 

Chiudo con un altro film. In Coco, lungometraggio animato della Disney Pixar, il protagonista, Coco, riesce a rianimare la sua bisnonna cantandole una canzone della sua infanzia. Il film regala una delicata rappresentazione del caregiving e della demenza, ma soprattutto ci offre un’immagine di una persona affetta da demenza che si avvicina con dignità alla fine della sua vita, circondata dall’amore.

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