La voce del soccorso

Viviamo scene che non andranno mai via dai nostri pensieri, alcune davvero toccanti e drammatiche. Come il ricordo di una donna a cui ho potuto solo stendere addosso una coperta, in un gelido gennaio, sul ponte di una nave della Guardia Costiera. Stare lì un attimo per poi andare via in silenzio senza neanche sfiorarla, […]

Viviamo scene che non andranno mai via dai nostri pensieri, alcune davvero toccanti e drammatiche. Come il ricordo di una donna a cui ho potuto solo stendere addosso una coperta, in un gelido gennaio, sul ponte di una nave della Guardia Costiera. Stare lì un attimo per poi andare via in silenzio senza neanche sfiorarla, vestita nel mio dispositivo igienico perché il contatto poteva essere nocivo per entrambe. Barriere su barriere che non aiutano a dialogare.

Esperienze, queste, che ti restano dentro.

Lei, quella donna, aveva appena seppellito i suoi due figli sulle spiagge di Sabrata, in Libia. Era lì per terra, stesa a faccia in giù sul ponte della nave, e la coperta di pile non la sentiva neanche addosso per quanto tremava. Il vento gelido era insopportabile anche per noi che eravamo vestiti. E i suoi due bimbi, un maschietto e una femminuccia, rimanevano sotto la sabbia lontano da lei.

 

Tornare a terra con uno sguardo nuovo

Quando torni a terra queste esperienze umane ti aiutano a togliere il velo di retorica dalla tua comunicazione e dai tuoi occhi, e al contempo raggiungi la consapevolezza di quanto sia difficile raccontare la storia contemporanea, fatta di un esodo pieno di sofferenza umana che neanche riesci a cogliere fino in fondo, da europea che vive sulla sponda “giusta” del Mediterraneo.

Comunque sia, è attraverso le storie che in questi anni abbiamo potuto raccontare una situazione troppo lontana dalla nostra quotidiana percezione. Comunicare umanità sembra facile, ma in questo particolare periodo storico, in cui la società è presa dai suoi problemi e a prevalere è il senso di egoismo, percepito come necessità più pressante tra i bisogni e le certezze che compongono il sentire collettivo, è apparsa la più complessa delle operazioni di comunicazione. Il rischio di sembrare ripetitivi, banali, superficiali o troppo pressanti su certi temi è sempre in agguato. L’equilibrio da cercare in ogni momento cozza con le esigenze di una narrazione continua al tempo della rete, ma meglio tenere il punto sulle persone, e non sui bisogni delle organizzazioni.

 

Soccorsi e soccorritori, il fattore tempo

Raccontare le storie di esseri umani in viaggio, insieme a quelle degli operatori sanitari che ogni giorno nel mar Mediterraneo vivono delle esperienze umane uniche, è quasi un atto di testimonianza di questo esodo marittimo che non ha fine. Molto è cambiato in questi anni di soccorso ai migranti. Sicuramente l’esperienza gioca un fattore importante, ma altrettanto importante è lo spostamento in avanti verso il centro del Mediterraneo, in pieno mare aperto, dove l’assistenza sanitaria è protratta più a lungo prima di poter rientrare verso le nostre coste. Insieme al viaggio anche i tempi di narrazione si sono allungati; raggiungere per telefono i medici e farsi raccontare le loro esperienze è diventato più complicato e soprattutto durante i naufragi i tempi di “buio” a volte durano diverse ore, se non giorni, prima di poter avere un confronto approfondito.

Quel tempo “tecnico” che a noi serve per sapere e poi raccontare è lo stesso che i migranti vivono in attesa di arrivare in Europa. Non smetto mai di pensare a questo fattore, mi aiuta a restare ancorata a una realtà che per noi è difficile comprendere e che magari rischia di sfuggire dietro la necessità di comunicare le attività dell’organizzazione stessa. Da dieci anni il Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta opera a bordo delle navi della Guardia Costiera, con un’esperienza acquisita che spesso ha contribuito a salvare vite umane a centinaia di miglia nautiche dalle coste.

 

Gli occhi dei soccorritori

E in dieci anni le operazioni, per quanto siano le stesse, diverse volte sono mutate con il mutare dello scenario geopolitico. I più importanti naufragi hanno segnato uno spartiacque per le dinamiche di soccorso, nell’ottobre 2013 a Lampedusa e nell’aprile del 2015 nel centro del Mediterraneo. E ora, nell’estate del 2018, con il primo viaggio verso un porto che non fosse italiano e un assetto navale di scorta. Durante tutti questi avvenimenti citati il mondo ha osservato a lungo, per quanto sia poi rimasto indifferente.

Anche le modalità di comunicazione sono mutate, cercando di stringere il tempo dell’informazione da una parte mentre le necessità oggettive lo dilatavano, dopo il soccorso e fino al viaggio verso Valencia durato sei giorni di navigazione. Sempre più è giunta la necessità di raccontare storie, di porre l’attenzione su queste persone che, non più salme senza nome, potevano essere l’utile messaggio di esseri umani che raggiungono le nostre coste per una speranza di vita. Quindi il soccorso, il mare, le imbarcazioni e le condizioni di salute divenivano contorno di una storia umana che si veniva profilando.

Attraverso gli occhi dei soccorritori sono uscite esperienze umane ancor più profonde e nuove. Sulla nave Dattilo della Guardia Costiera, ad esempio, sui 274 migranti accolti, 60 erano adolescenti e la loro attitudine alla “spensieratezza” e la loro forza fisica hanno determinato una relazione diretta anche con il team sanitario, formato da due giovani professioniste che hanno trascorso il tempo dell’assistenza con loro facendosi chiamare per nome. Più di altre volte il rapporto umano, dovuto ai giorni di navigazione, è stato al centro dell’assistenza.

 

Valencia, l’umanità di nuovo sotto i riflettori del mondo

Ogni esperienza è diversa e la si vive con un carico emozionale sempre unico. A Valencia, complice l’arrivo della nave Dattilo in un porto non italiano, la tensione era abbastanza alta. Fattori diversi giocavano in una partita già complessa durante le normali operazioni di salvataggio.

Alle prime luci del mattino il molo era pieno di giornalisti, 700 giunti da diverse parti del mondo e non solo dall’Italia, per accogliere circa 600 migranti. Mani in tasca, testa bassa pensando alla giornata che inizia, i ricordi delle precedenti esperienze si accavallano – come la donna di cui ho scritto all’inizio – mentre poi il tempo per pensare lascia spazio alla fase operativa e relazionale.

Un sorriso amaro è passato sul mio viso quando qualche ora dopo mi hanno spiegato che a quello stesso molo, in alcuni giorni della settimana, attraccano navi da crociera, le più grandi del mondo. Come detto precedentemente molte delle persone soccorse erano giovani, ragazzi adolescenti che scendevano ordinatamente dall’imbarcazione per dirigersi verso un primo punto di accoglienza e controllo. La scena l’ho vista da lontano, com’è giusto che sia, mentre loro giungevano in Europa con lo sguardo di chi comunque ha un’opportunità, per quanto la paura non lasciava ancora il posto alla speranza.

 

Il ritorno e il racconto

Ad aspettarmi sulla nave, su cui sono riuscita a salire dopo i dovuti controlli e mentre le squadre a bordo riordinavano il ponte che ospitava i migranti, le due giovani donne. Entrambe di ventisei anni e già avvezze a esperienze di soccorso lunghe e complesse in pieno Mediterraneo, fra cui la nascita di alcuni bambini. Maria Rita e Marika, medico e infermiera, che in poche ore dalle coste siciliane sono giunte a bordo della nave, mi hanno abbracciato stringendomi forte, libere da giorni di viaggio. Con loro avevamo già affrontato altre emergenze e sapevano già che in quei momenti chiedo il massimo, nel profondo rispetto della loro stanchezza. Professionisti e volontari sono i testimoni diretti, i migliori portavoce delle attività del Corpo sugli scenari emergenziali ed è attraverso loro che raccontiamo le attività.

Ecco, a Valencia ho visto e vissuto umanità, a più livelli e su tanti piani, soprattutto negli occhi di chi ha provato questa profonda esperienza. Eravamo tutti lì per vivere e raccontare questo ennesimo viaggio che assume un significato ancor più profondo: proprio per questo media, comunicatori, squadre di volontari, professionisti e militari guardavano tutti verso l’obiettivo, salvare vite umane e raccontare come è stato il viaggio questa volta.

Ci saranno altre storie, altri scenari, che andranno a sommarsi a quelli già vissuti. Le organizzazioni di volontariato sono la spina dorsale di questa Italia dalle mille necessità umanitarie: hanno necessità di essere sostenute e ascoltate. La fiducia si conquista ma va anche custodita, non soltanto con la comunicazione, ma con la relazione umana, quella buona, che sa costruire ponti e non muri.

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