La dissoluzione del posto fisso

“In fin dei conti lavorare è ancora il modo migliore di far passare la vita”. Lo diceva Gustave Flaubert circa un secolo e mezzo fa. Quanti oggi, in un momento in cui il lavoro è diventato per molti solo un utensile da tenere stretto per non soccombere economicamente, condividono questa convinzione? Il lavoro, svilito in […]

“In fin dei conti lavorare è ancora il modo migliore di far passare la vita”. Lo diceva Gustave Flaubert circa un secolo e mezzo fa. Quanti oggi, in un momento in cui il lavoro è diventato per molti solo un utensile da tenere stretto per non soccombere economicamente, condividono questa convinzione? Il lavoro, svilito in qualità da una crisi che l’ha ridotto in forme contrattuali smozzicate, può essere di nuovo una delle cose principali che motiva un’esistenza?

Fino a un paio di decenni fa, “il modo migliore di far passare la vita”, era il matrimonio indissolubile con una singola azienda. Il posto fisso. Il mito (ancora raggiungibile) di ogni famiglia impegnata per il futuro della figliolanza. Insomma, il punto di riferimento che dava sicurezza e riconoscibilità sociale: “Mio figlio lavora in banca”, la quintessenza del posto fisso.

Oggi di quella lunga stagione di caccia alla stabilità restano conseguenze che ancora interessano la stragrande maggioranza. Alla fine del 2014 i lavoratori dipendenti occupati erano 16 milioni 780 mila, dei quali l’86,4% (14 milioni 503 mila) definito dall’Istat come “permanente”. Di questi ultimi, 11 milioni 922 mila lavorano a tempo pieno. Il che significa che il 71% di tutti i lavoratori dipendenti ha il posto fisso che più fisso non si può: non solo contratti a tempo indeterminato ma anche per le classiche otto ore lavorative giornaliere. Insomma, i padri e i nonni dei giovani che stanno entrando o che sono appena entrati nel mondo del lavoro, possono ben dire che i punti di riferimento della cultura del lavoro che hanno conosciuto nella giovinezza non li hanno traditi. Anche se c’è da dire che il rischio di perdita del posto di lavoro, cresciuto a dismisura in sette anni di crisi, li sta esponendo alla stessa instabilità dei loro figli e nipoti.

Per la “Y generation”, i nati tra gli anni ’80 e il 2000, infatti, la possibilità della conquista di un posto fisso è sostanzialmente un miraggio. Nel 2014 le nuove assunzioni per circa il 70% sono avvenute con contratti a termine di varia natura. Una tendenza che dura ormai da 4-5 anni e che sposta sempre più l’ago della bilancia contrattuale verso le forme di lavoro a tempo, in particolare proprio per i giovani. Per il 2014 l’Istat ha certificato un aumento di lavoratori dipendenti pari a 97 mila unità, ma solo 18 mila hanno avuto un contratto a tempo indeterminato, mentre tutti gli altri, l’81,4%, sono stati assunti a termine. Se questo processo di sostituzione di lavoro permanente con lavoro temporaneo continuerà con questi ritmi e se il Jobs Act non riuscirà a invertire la tendenza con i contratti a tutela crescente, entro un paio di decenni i lavoratori con il posto fisso saranno nettamente meno di quelli con contratti a scadenza. Man mano cioè che i giovani sostituiranno i più anziani, il tempo determinato scardinerà il punto di riferimento del lavoro stabile.

L’aumento della temporaneità, tuttavia, per qualcuno è un’opportunità, una chance in più perché vedono nuovi trend a portata di vista. Perlomeno per i professionisti più qualificati con forte potere contrattuale che possono scegliere i committenti e per i giovani che puntano da subito su rapporti di lavoro flessibili per ritagliarsi su misura un lavoro conforme al loro progetto di vita. Per esempio, seppure ancora in percentuale residuale, crescono i cosiddetti nomadi digitali, giovani professionisti senza scrivania e senza albo, per i quali il lavoro non si identifica più con un luogo ma con una attività. Costano alle aziende molto meno dei dipendenti e così spuntano retribuzioni più alte, anche se devono barattare stipendi migliori con  meno diritti e devono pagarsi da soli i contributi previdenziali con poche prospettive di avere una pensione futura decente.

A differenza di quanto normalmente si pensa, infatti, c’è più di una categoria di lavoratori autonomi (soprattutto nelle nuove tecnologie) che guadagna più di un dipendente con il posto fisso. Lo certifica un’indagine di JobPricing, un portale che fornisce il benchmark del proprio stipendio rispetto alla media di mercato. Su un campione di più di 30 mila lavoratori, i professionisti più pagati vedono al top i Sistemisti con partita Iva, che guadagnano in media il 39,3% in più dei loro omologhi dipendenti da un’azienda: 2.309 euro netti al mese contro 1.658. Anche il Software engineer e lo Sviluppatore software (sempre con partita Iva) sorpassano il dipendente, rispettivamente con 2.375 euro e 1.975 euro contro 1.834 e 1.556. In vantaggio anche le retribuzioni dell’Analista programmatore (+17,8% sul dipendente) e dello Specialista Ict (+7,3%). Evidentemente sta nascendo un mercato parallelo in cui il meccanismo domanda-offerta si sposta dal costo alla performance. Così le aziende sono disposti a pagare di più professionisti autonomi e capaci pur di non avere i vincoli che comporta l’assunzione come dipendenti.

Dovremmo allora concludere sostenendo che qualcuno, oggi, può ben dire: “Perdita del posto fisso è bello”? Per ora si tratta di una sparuta minoranza, mentre per i più la caduta di quel punto di riferimento diventa un incamminarsi su un sentiero di precarietà molto pericoloso. Eppure c’è chi tratta la questione con una soluzione estrema. Tutto è partito da un libro di un paio d’anni fa di Simone Perotti e Paolo Ermani dal titolo provocatorio: Ufficio di scollocamento (Chiarelettere). Il concetto che fa vedere il mondo al contrario è più o meno questo: “Se sei collocato e hai un lavoro sicuro, allora scollocati, lascia l’impiego prima che ci pensi il sistema a buttarti fuori dal mercato del lavoro”. Da questa provocazione sono nati una serie di “Uffici di scollocamento” (il precursore: ufficio di scollocamento) in diverse città, che offrono servizi di ri-formazione per inventarsi un lavoro alternativo in associazione con altri, dall’azienda agricola in Brasile, al progetto di macinare grano in mulini a pietra. Insomma, la dissoluzione dei punti di riferimento.

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