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La diversità non esiste perché non siamo tutti uguali

La diversità non esiste perché non siamo tutti uguali

Una vera educazione alla diversità in azienda è tanto utile quanto difficile. Eccone alcune sfumature: identità e pluralità non sono affatto incompatibili.

Non amo questo termine, “diversità”, che si è affermato con molta forza all’interno dei progetti aziendali.

Intendiamoci, il tema che questa etichetta descrive non è solo interessante, ma anche profondamente attuale. Ma per impostare efficacemente delle azioni che servano sia agli individui che alle organizzazioni è necessario partire con il piede giusto, e soprattutto cercare di evitare di peggiorare la situazione corrente.

Diversità? No: meglio pluralità

Mi spiego meglio: se si considera qualcuno diverso si sottintende che altri sono uguali, mentre non è così. Siamo tutti diversi, ed è interessante, quando si ha di fronte un gruppo, provare a delineare i tanti sottogruppi che esso contiene. C’è uno spot della tv danese che mette in luce questa dinamica: siamo uomini e donne, potremmo avere un differente orientamento sessuale, siamo nati in posti differenti, con famiglie che ci hanno offerto un’ampia gamma di valori, abbiamo studiato in scuole con obiettivi e contenuti variegati, ora votiamo partiti opposti, oppure facciamo scelte che gli altri non condividono. La nostra personale carta d’identità è molto più ampia delle poche informazioni che raccoglie il documento ufficiale.

Un’identità che, nel posto di lavoro, trova coerenze o momenti di frattura. Sono proprio le coerenze, che diventano un modo di vivere organizzativo, a creare quelle “linee di faglia” che escludono una o più persone per caratteristiche che con il lavoro non c’entrano niente.

Comprendere queste dinamiche, sia individuali che organizzative, è il primo passo – quello giusto – da fare in un’azienda. Parafrasando Tolstoj e il suo celebre incipit si potrebbe dire: tutte le aziende felici lo sono allo stesso modo; sono quelle infelici – quelle che escludono qualcuno – a esserlo in modo diverso.

Allora è importante parlare di pluralità, e i “cluster” tipici di ogni progetto di diversity e inclusion (donne, età, orientamento sessuale, culture e disabilità) sono solo delle piste di riflessione per riconoscere quella cultura che diventa talmente ovvia da non essere più analizzata. Ed è in questa personale cultura che si possono riconoscere le barriere da affrontare, non con un programma fotocopia, ma attraverso la consapevolezza, in primo luogo di chi siamo.

L’educazione al rispetto e alla diversità in azienda

C’è un altro aspetto da considerare: quanto più collettivamente si sottolineano le differenze, tanto meno ci si rende conto di quanto, invece, le persone abbiano un’ampia parte di bisogni, motivazioni e richieste simili da porre al contesto organizzativo. Per questo, oltre al termine pluralità, credo sia necessario inserirne un altro: rispetto. Vi sono aspetti di comportamento, e non solo manageriale, ma anche tra colleghi, che sono da riaffermare in una dimensione di dialogo. Troppo spesso, complici anche le nuove “mode” social-politiche di lasciarsi andare a esternazioni improbabili, ci si trova di fronte a linguaggi e azioni estremamente disturbanti. Il tema non è solo morale, ma profondamente economico. Come si può lavorare insieme, costruire soluzioni, provare a innovare, se non si comunica correttamente e in modo convincente?

Il rispetto è quella necessaria attenzione che ciascuno richiede quando si esprime, e ognuno può elencare le situazioni organizzative in cui tale attenzione è venuta a mancare: momenti di prevaricazione, di colpevole disattenzione, di messa in ridicolo delle proprie caratteristiche. Ecco, quindi, un elemento omogeneo, che riguarda tutti, ma che assume modalità differenti proprio in virtù delle singolarità di cui ciascuno è portatore.

In questo campo vi sono comportamenti estremi che hanno dell’incredibile: una recente sentenza della Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva un celebre e rinomato imprenditore per avere, per anni, apostrofato con il termine “finocchio” un suo dirigente. Fantascienza? Non sembra, dalle cronache.

È evidente che i comportamenti di coloro che rivestono posizioni di leadership sono imitati dal gruppo, e costituiscono poi una cultura di contesto che legittima linguaggi e modalità di comunicazione. I capi che mandano mail nel fine settimana, senza un’urgenza particolare, e che pretendono immediate risposte, configurano anch’essi degli atteggiamenti irrispettosi del tempo di lavoro. E probabilmente sono gli stessi che irriderebbero un collega che chiedesse il permesso di paternità. Gli esempi, purtroppo, potrebbero continuare all’infinito.

La cultura del rispetto si costruisce innanzitutto con la consapevolezza delle proprie azioni, fermandosi un momento a riflettere su che tipo di reazioni possono provocare, magari con un esercizio di reciprocità, mettendosi per un momento nei panni dell’altro. Poi è opportuno consolidare delle prassi culturalmente condivise di attenzione all’individualità dell’altro.

Non si vuole invocare la perfezione. È però importante essere consapevoli che l’accettazione della diversità non è qualcosa che si realizza per invocazione. Occorre conoscere e condividere dei fenomeni assolutamente fisiologici per l’essere umano, che sono quelli del giudizio repentino, spesso inconsapevole, dal punto di vista individuale; e della costruzione dei confini tra i gruppi, quei confini che sono conforto per identità deboli e che diventano muri, quando condivisi.

I progetti di D&I quindi, o di rispetto e inclusione, come preferisco chiamarli, sono un lungo cambiamento culturale che ha un duplice obiettivo: aiutare i singoli a comprendere le modalità di comportamento individuale e di gruppo, e aiutare le organizzazioni a diventare più ampie e inclusive. Da questo, dicono le ricerche, nascono anche maggiori risultati economici e innovazione.

Photo by Deva Darshan on Unsplash