La pensione prima di salirci a bordo

Come capita a tutti, la parola pensione, finché avevo trenta o quarant’anni anni, non mi riguardava proprio. Era un’ ipotesi lontana, non mi creava né ansie, né aspettative. Poi, come per tante altre cose della vita, le prospettive cambiano e quella parola si avvicina proprio a te, a poco a poco diventa un obiettivo, una meta da […]

Come capita a tutti, la parola pensione, finché avevo trenta o quarant’anni anni, non mi riguardava proprio. Era un’ ipotesi lontana, non mi creava né ansie, né aspettative.
Poi, come per tante altre cose della vita, le prospettive cambiano e quella parola si avvicina proprio a te, a poco a poco diventa un obiettivo, una meta da raggiungere, con una dose di ansia direttamente proporzionale allo stress che hai sofferto nel corso della vita lavorativa.
Tutto ciò prescinde dal tipo di lavoro fatto fino a quel momento, dipende invece dalla bilancia dei pagamenti di due indici molto personali: quanta fatica hai fatto rispetto a quanta gratificazione hai ricevuto.

Io so di essere fra quei pochi fortunati che, avendo intrapreso il percorso dell’imprenditore, ha avuto fin qui enormi gratificazioni, seppur a fronte di tanta fatica. Sono consapevole di essere un privilegiato. So che ad ogni fine mese non dovrò  fare i conti rischiando di non farcela, come tanti che hanno dovuto aiutare i propri figli ancora in cerca di lavoro. So di essere al riparo dalle tante maledette leggi che di questi tempi continuano a penalizzare gli anziani che hanno lavorato tutta la vita sperando poi di riposarsi, possibilmente con un po’ più di sicurezza.

E’ per questo che, quando si accenna a nuove leggi che tolgono certezza e sicurezza ai pensionati, credo si compia una delle peggiori azioni possibili. Me ne irrito incredibilmente, e non certo per me, perché credo sia ignobile penalizzare i vecchi già penalizzati dall’essere tali.

I giovani possono sempre sperare in altro, hanno comunque una vita davanti, possono cercare altre opportunità.

I vecchi invece no e credo che alcuni ci possano morire anche solo di depressione.

Pur ritenendomi fortunato e consapevole non ho raggiunto il livello del filantropo né mai ci riuscirò a differenza del Eric Belile – a capo de La Générale de Bureautique, una società di fotocopiatrici di Nantes in Bretagna, e in procinto di pensione – che poche settimane fa ha lasciato tutta la sua azienda ai propri dipendenti piuttosto che ai figli o ad ottimi acquirenti. Un caso che ha fatto molto riflettere.

Quando penso alla mia prossima fase di vita in cui potrò considerarmi in pensione, non mi deprimo affatto; anzi ci penso e pure tanto, configurandola come un meritato premio e come l’occasione per tornare l’uomo libero che ero fino a qualche decennio fa, quando le mie responsabilità verso gli altri non erano così tante e pesanti come oggi. Mi piace parlarne perché sto vivendo il prima con grande attesa del dopo, giocando a pianificare il resto della mia vita in un mare di libertà, specialmente nello scegliere le priorità anziché inseguirle, nel poter essere me stesso fino in fondo, per occuparmi di tante cose che ho tralasciato.

Innumerevoli cose: leggere, scrivere, comporre musica e andare a teatro (tutte mie passioni represse), dedicarmi tanto agli altri, tanto al sociale, tanto alla mia famiglia, finalmente anche alla mia salute e sperando di essere ancora in tempo.
Poi, per coerenza con quanto detto prima, sceglierei di aiutare i vecchi prima dei giovani. Sì, perché come dice una canzone, i vecchi non li vuole più nessuno e quelli che non hanno più gli affetti vicini sono i più tristi fra i  tristi.
La serenità di aver fatto il proprio dovere non ha prezzo. Non mi sentirò certo in colpa se lascerò ai miei figli il ricavato delle mie fatiche: del resto ho sempre detto che sono un repubblicano e non un monarchico.

Credo sia un inalienabile diritto lasciare il castello ai figli ma non certo il governo, che va invece lasciato a chi di sicuro ha più esperienza di loro – seppur figli bravissimi – per il bene del regno (pardon, dell’azienda e dei lavoratori).
Si, certo, ma ai lavoratori? A tutti i miei collaboratori, senza i quali non sarei riuscito a costruire dal niente quello che ho fatto, sono certo che lascerò la cosa più importante e coerente con quanto ho sempre sostenuto: il lavoro. Un lavoro certamente pieno di dignità e tale da essere definito, come piace a me, valoro. Per questo, tempo fa, rinunciai a vendere parte delle azioni ad entità che mi avrebbero magari reso di più ma non assicurato la continuità della società e dei posti di lavoro creati.

Ecco perché ho pensato prioritariamente a ricevere in cambio della prima metà delle azioni una forte capitalizzazione dell’azienda: per assicurarle un futuro sicuro pur nella tempesta della drammatica competizione globale a cui si va incontro sempre più. Per questo lascerò l’azienda nelle mani di un socio certamente dotato  sia di competenze tecniche che di importanti capacità finanziarie; entrambe tali da assicurare un futuro aiuto alle 700 persone a cui ho avuto la fortuna di dare lavoro.

Ecco la grande soddisfazione che arricchirà la serenità della mia futura pensione.
Certo, potrebbe anche accadere il contrario, cioè il rischio della mancanza di adrenalina o la frustrazione da mancanza di potere o di fama (chiedo scusa per il delirio), ma credo che ciò dipenda solo dalla propria maturità e dal proprio equilibrio, unica strada verso la serenità. Attitudini di cui credo essere ben dotato.

Starà solo a me trovare il modo di usare la mia futura libertà. In che modo farlo lo deciderò al tempo giusto, magari trovandomi ancor più impegnato e responsabilizzato di prima ma stavolta verso un anziano o una collettività o altri lavoratori. Ma spero prima di tutto verso me stesso, almeno una volta nella vita.

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