La voglia di competere

La valutazione della competitività delle imprese italiane si fonda sulla stima di modelli econometrici micro e macro. Sul tema, il World Economic Forum elabora sempre nuove soluzioni metodologiche per lo sviluppo di indicatori di analisi microeconomica. Sarebbe interessante costruire un sistema di indici per valutare quanto sanno essere competitivi gli umani che popolano le imprese […]

La valutazione della competitività delle imprese italiane si fonda sulla stima di modelli econometrici micro e macro. Sul tema, il World Economic Forum elabora sempre nuove soluzioni metodologiche per lo sviluppo di indicatori di analisi microeconomica. Sarebbe interessante costruire un sistema di indici per valutare quanto sanno essere competitivi gli umani che popolano le imprese del nostro paese e il paese stesso. Qualcuno avrà pure inventato una maniera di misurare la capacità delle famiglie di motivare i figli a quella che un tempo i presidi chiamavano “sana competizione”? E ci sarà un indice che misuri la competitività di docenti che negano a se stessi qualsiasi possibilità di mettere a confronto le proprie prestazioni con quelle offerte da altri?

Nella sua accezione originale competere mette insieme il latino cum (con) e petere (dirigersi verso), cioè andare insieme verso un obiettivo. In competere risuona la parola competenza, l’essere cioè riconosciuti per capacità, cultura, azione. E in effetti le aziende competitive sono quelle competenti, quelle cioè dove le persone insieme sviluppano capacità personali e collettive per il raggiungimento degli obiettivi. Quando sento parlare di competizione all’interno delle nostre imprese, ascolto spesso i dirigenti raccontare invece storie di conflitti autodistruttivi, generati da clan che violentemente si appropriano di alcune risorse aziendali, territoriali o nazionali. Il confronto sul merito, basato sulle competenze culturali e sul desiderio di migliorare e migliorarsi, è aggirato dalla ricerca di un potere che sia svincolato dalla crescita reale delle organizzazioni e del territorio.

Per fortuna numerosi esempi di imprese e di team in Italia rappresentano ancora interessanti eccezioni all’atavica familistica fame di sopraffazione tipica del clan. In queste realtà la competizione è vissuta dagli individui come confronto continuo con se stessi. Nella sempre citata Toyota il motto aziendale per anni fu: “Il concorrente di Toyota è Toyota”, a dire che il peggiore nemico di una organizzazione sono le aree grigie e irrisolte dell’azienda stessa, le inefficienze, le ombre, le competenze non ancora sviluppate, i talenti nascosti, il potenziale inespresso, le squadre poco ingaggiate. Commoventi sono gli “speech” di alcuni amministratori delegati, che hanno raggiunto la posizione a colpi di machete, che invitano le prime linee alla coopetizione, nuova sintesi tra competizione e cooperazione necessaria per operare insieme, mettere in comune conoscenze e capacità. Altrettanto commoventi sono i tentativi dei consulenti di spiegare ai team aziendali che il vero nemico è fuori, è il concorrente, oppure è dentro di noi, la nostra incompetenza appunto. Il nemico non è il compagno di squadra, quello al quale, negando la palla, impedisci di chiudere una azione positiva per tutti. E lì tutti a ripetere nelle aule che la “foga” di riuscire meglio sull’altro di solito non permette di concentrarsi su un risultato di qualità.

Gli antropologi direbbero che il desiderio di accaparrare per la propria funzione le limitate risorse di visibilità e bonus fa parte della natura, soprattutto in soggetti poco creativi e innovativi che non comprendono la possibilità di vincere insieme, identificando nuove soluzioni. Spesso nessuno capisce tuttavia le ragioni di tanto astio tra persone in azienda. In molti casi infatti non si può parlare di competizione quanto di rivalità: la posta in gioco è ogni volta soltanto un “pretesto” per scontrarsi. La rivalità esiste solo nella mente dei competitori e per questo è incompresa o ritenuta eccessiva da chi la osserva. La rivalità è legata ai ripetuti scontri avuti con lo stesso avversario: è la dannazione della memoria, come scrisse Claudio Magris a proposito delle guerre balcaniche, a costruire ruminazioni che rimangono presenti nella mente e nella pancia dei soggetti. La competizione invece guarda al futuro, è umile, parte dal presupposto che successo è il participio passato di succedere, e quindi ogni partita vinta non presuppone necessariamente una vittoria la volta successiva. Il contrario si chiama rendita di posizione: siccome ho vinto il campionato di serie A tante volte, pretendo di vincerlo sempre.
Per essere reale, la competizione non prevede accordi sottobanco o la possibilità di far finta di competere, per poi trovare nel partito concorrente un gruppo di salvifici responsabili che vengono a salvare il tuo governo. La competizione infine è in prima persona, non prevede che altri vengano mandati a combattere, con i vertici nelle retrovie a sperare che finisca bene quel che finisce bene.

È difficile parlare di competizione in contesti chiusi all’ingresso di nuovi concorrenti, siano essi aziende o persone. Come si può parlare di competitività in mercati dove l’accesso è impedito alle persone di merito da chi occupa una posizione per privilegio, casta o eredità? Si può parlare di competitività in mondi chiusi dove le donne, anche se meritevoli, non possono accedere a determinate posizioni? Non c’è competizione se non c’è la possibilità per tutti di scendere in campo, in presenza di determinate competenze o potenzialità. Alla fine saranno gli ambienti più aperti alla reale competizione ad attrarre, in altri paesi, i giovani talenti che hanno voglia di mettersi davvero in gioco.

Nella competizione gli ultimi saranno i primi se si danno una mossa e se i primi offrono a tutti la medesima opportunità di accadere, a parità di merito, ai vertici di una organizzazione o di un mercato. Da tutti questi elementi definitori si comprende quanto le imprese italiane che sanno competere rappresentino non solo un prezioso valore economico, ma anche una fonte positiva e sana di atteggiamenti che, nel contesto più generale del nostro paese, sembrano essere poco diffusi.

Nei test INVALSI della scuola, alcuni docenti per rendere i propri studenti competitivi suggeriscono loro le risposte. Ed esistono sempre commissioni capaci di offrire a moltissimi una maturità da 100 allo scopo di rendere i curricula degli studenti più competitivi. Ma nel mercato attuale competere non significa godere di bollini, stellette, certificazioni di qualità. Significa essere capaci di mettersi in discussione per allenare le proprie competenze. Con lealtà verso la propria squadra e il proprio paese. La competizione prevede la presenza di arbitri in campo capaci di ammonire i furbi e i fessi, e di spettatori sugli spalti pronti a fischiare i disonesti.

Se c’è qualche studioso capace di costruire un indice che misuri questo genere di competitività e di proporre un programma nazionale per rigenerarla, si faccia vivo.

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