Le redazioni del futuro sono già nate

Le notifiche sono già arrivate a oltre diecimila. Abbiamo pubblicato la richiesta ai nostri lettori via social solo un’ora fa, ma le reazioni sono già tantissime. È una cosa che facciamo spesso, chiedere aiuto all’esterno per aiutarci a verificare alcune informazioni che, stavolta, riguardano i candidati sindaco. Più tardi con il team faremo il punto […]

Le notifiche sono già arrivate a oltre diecimila. Abbiamo pubblicato la richiesta ai nostri lettori via social solo un’ora fa, ma le reazioni sono già tantissime. È una cosa che facciamo spesso, chiedere aiuto all’esterno per aiutarci a verificare alcune informazioni che, stavolta, riguardano i candidati sindaco. Più tardi con il team faremo il punto sulle risposte ricevute, perché le smentite o le conferme del pubblico potranno essere utilizzate nelle interviste ai candidati in diretta streaming.

Intanto nella sala coworking tutto è pronto per la riunione di redazione. Non dura molto, in genere venti minuti per fare il punto con i redattori e i consulenti che già ieri avevamo individuato per curare la parte di promozione dell’inchiesta interattiva, e poi la gestione delle community online di lettori/utenti. Abbiamo anche un gruppo di “disinnescatori” specializzati in conversazioni e moderazioni online. Utilizzano tecniche di psicologia e comunicazione per trasformare potenziali attacchi social in dialoghi costruttivi.

La nostra realtà è una specie di alveare. Da fuori è un unicum compatto ma sbirciando dentro si possono scorgere tanti nidi, tanti quanti i progetti editoriali curati. Le dirette, le inchieste, le newsletter, gli approfondimenti, la divisione breaking news e quella slow, quella trasversale di fact checking e di editing dei video, dei format social e dei linguaggi (il testo scritto resiste ma è solo uno dei linguaggi che utilizziamo, tra questi il sound design e l’audio documentario).

Ognuno di questi nidi ha le sue “api” che ronzano intorno in una composta ma flessibile catena di lavoro. Il miele prodotto è leggermente differente da nido a nido, per uno specifico tipo di utenza, ma a differenza delle api il nostro mestiere consiste anche nel produrre molto materiale che non pubblicheremo. Molte volte il processo di verifica ci porta semplicemente a scoprire che non c’è nessuna notizia da dare, che è meglio attendere altri sviluppi.

Ci saranno poi altre riunioni di quindici minuti ciascuna lungo tutto l’arco della giornata, ma solo tra micro-team di redattori e analisti dei target di pubblico, insomma quelli che seguono determinate fasi dei progetti. Ora invece discuteremo sotto forma di veloci pitch le proposte su come vendere le inchieste online, come farle arrivare agli utenti (a quali in particolare) e su quali canali.

Quello più seguito da quando abbiamo aperto è dedicato alle news per gli italo-cinesi di seconda generazione. È stato complesso avviarlo, ma appena abbiamo visto la risposta del pubblico non abbiamo avuto più dubbi. Del resto una delle caratteristiche che contraddistinguono la testata è il fatto di avere a bordo professioniste e professionisti di vari campi e rappresentanti di minoranze etniche e religiose o, al contrario, di grandi fette di lettori integrati ma non nati in Italia, e ancora di categorie – non amiamo le etichette – che vivono grandi battaglie di integrazione (noi donne rientriamo ancora in questa casella).

Non so più nemmeno se definire italiano il nostro canale di giornalismo se non per il fatto che la sede legale è qui, pur non avendo una redazione fisica e pur pubblicando in diverse lingue e linguaggi. Vedersi e confrontarsi dal vivo è fondamentale, siamo amanti della carta – ci siamo creati anche una nostra linea di taccuini, una mezza trovata commerciale che però ci aiuta a fissare meglio processi e concetti. Ci appoggiamo a spazi di lavoro condivisi lungo l’intera penisola e all’estero, ma abbiamo diversificato l’offerta di notizie e soprattutto il modo di darle: senza correre e reagire dietro ai social.

Per le breaking news usiamo canali social certificati e paghiamo un’agenzia di esperti di cyber security per la consulenza sulla verifica fast, veloce, online. Usiamo la tecnologia per fare il nostro mestiere, per frequentare “piazze virtuali” e abbiamo bandito il copia-incolla. Siamo stati i primi a creare una redazione esperta solo di format editoriali e digitali, una di copyright e distribuzione dei contenuti, i primi ad aver inglobato un corposo team per la formazione continua e ad assumere filosofi, privacy expert, sviluppatori umanisti e data analyst. Abbiamo oltre 100.000 abbonati in tutta Europa e possiamo dire di essere abbastanza indipendenti.

 

Uno sguardo sul futuro dell’informazione

Ecco, è così che io spero lavorerà una redazione del futuro. Anzi, parlare di futuro è fuorviante perché diversi dei passaggi descritti in questa giornata-tipo (completamente inventata) di un gruppo di digital editor o giornalisti fanno già parte dell’esperienza di alcune redazioni italiane. Ma si tratta di pezzi sparsi, componenti che invece un giorno dovrebbero confluire insieme nei nuovi luoghi dell’informazione, luoghi sempre più contaminati, trasversali, in cui noi giornalisti non saremo le sole figure presenti.

Questo nuovo modo di fare giornalismo è tutt’altro che nuovo. È un ritorno al metodo e al rigore, aiutato però da un know-how tecnologico impensabile solo vent’anni fa, e finalmente specchio della rivoluzione digitale: aperto, condiviso, che sfrutta la rete per verificare e non per pubblicare.

Faccio parte di quella schiera di professionisti dell’informazione che sono diventati imprenditori-umanisti, un ossimoro (o forse no?), innamorati della complessità digitale e della sfida più grande che comporta: rendere sostenibile e redditizia l’informazione di qualità. Un bene la cui altissima domanda è confermata dall’esplosione e dal successo delle piattaforme social, che di notizie e contenuti informativi campano. Strumenti che non hanno inventato la viralità ma l’hanno resa per la prima volta misurabile essendo, questa, sempre esistita. Sin da quando esiste la stampa a caratteri mobili.

Il problema, come sappiamo, è riconvogliare l’attenzione verso organi di informazione che un tempo erano gli unici monopolisti delle notizie e fare in modo che questa attenzione sia remunerata. Mario Tedeschini Lalli, giornalista ed esperto di strategie digitali, spiega che uno dei mezzi per ottimizzare questa attenzione è lasciar fare ai social il megafono e ai giornalisti il loro mestiere: andare più lenti, verificare, arrivare dopo ma con un prodotto di qualità. Filtrare, dire “no, questa non è una notizia e non la pubblichiamo”. Detto altrimenti: è inutile lavorare sulla quantità, perché l’unico bene su cui un utente è disposto a spendere è ancora la qualità.

 

Le redazioni del futuro esistono già: alcuni esempi

La conferma arriva da chi questo approccio ha deciso già di metterlo in pratica. Si tratta di casi non risolutivi, ma esemplari. Tra questi c’è Slow News, progetto editoriale indipendente made in Italy e da cui ho “rubato” molti spunti per l’organizzazione del lavoro giornalistico (più simile al lavoro in team delle startup della Silicon Valley, strutturato ma flessibile).

Io stessa da freelance ho lavorato per quattro anni a un progetto di startup per servizi digitali all’editoria basati sui dati e sulle infografiche e ho imparato moltissimo sul modo in cui l’innovazione contamina contesti di solito refrattari al cambiamento.

È forse per questo che dimensioni leggermente più piccole e strutture snelle come quelle dei giornali locali – in cui l’innovazione passa dalla riorganizzazione del flusso di lavoro prima ancora che da un nuovo sito web – sono le candidate perfette per diventare redazioni del futuro. Anzi, qualcuna lo è già diventata. Parlo del Giornale di Brescia, una realtà che nel 2012-2013 soffriva ancora profondamente la crisi, la perdita di lettori e lo sconforto della competizione con le società hi-tech, ma che, grazie a un investimento intelligente per integrare carta, sito online e app, ha ridisegnato anche il processo di lavoro in redazione. Certo, conquistare i lettori è sempre difficile, ma a Brescia in un solo anno dopo la trasformazione digitale la raccolta pubblicitaria era cresciuta del 144%.

In scala più grande, e anche più coraggiosa, la stessa rivoluzione è accaduta al quotidiano canadese LaPresse, che dopo 131 anni di notizie solo in formato cartaceo e un calo costante delle vendite in edicola ha deciso di passare definitivamente all’online, chiudendo le stampe. Per farlo ha pianificato il passaggio per tre anni, assumendo community editor e data analyst e formando i suoi giornalisti interni. Risultato: dal lancio del solo formato web/app ha totalizzato 260.000 utenti abbonati paganti contro i 200.000 delle copie cartacee.

Sono solo alcune ricette, tentativi, con un elemento comune: non usano la tecnologia per fare innovazione, ma puntano sulle competenze, le mansioni e l’organizzazione interna per innovare prendendo spunto dal digitale. E dicono anche un’altra cosa. Per rendere dignitoso e credibile il nostro mestiere bisogna partire dall’autocritica (abbiamo sbagliato a voler scimmiottare la velocità social nel fare informazione) e dalla contaminazione.

A me piace parlare di responsabilità digitale. Come giornalista sono responsabile di ciò che comunico e della conoscenza dei mezzi che uso per comunicare; senza pretendere che sia qualcun altro a darmi la soluzione per fare al meglio il mio mestiere. Viviamo un tempo eccezionale in cui possiamo applicare tecniche e know how quasi a costo zero e creare redazioni che siano davvero lo specchio della realtà: trasversali, aperte, luoghi di condivisione eterogenei e multiculturali. Responsabili della propria coesione, che poi è l’unico vero segreto per lavorare al meglio e produrre un’informazione seria, utile, al servizio degli altri.

 

Photo by Patrick Fore on Unsplash

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