L’innovazione sociale è questione di impronta

All’inizio era una telefonata, entrambe rinchiuse nelle proprie case, in un tiepido giorno di Fase 2 di lockdown in Italia. Poi è diventato un incontro, dove perdi di vista lo scorrere del tempo. Alla fine eravamo in due su un tappeto volante a sorvolare tre continenti: Asia, Africa e Sudamerica. Perché è lì che Francesca […]

All’inizio era una telefonata, entrambe rinchiuse nelle proprie case, in un tiepido giorno di Fase 2 di lockdown in Italia. Poi è diventato un incontro, dove perdi di vista lo scorrere del tempo. Alla fine eravamo in due su un tappeto volante a sorvolare tre continenti: Asia, Africa e Sudamerica. Perché è lì che Francesca Folda, con alle spalle una lunga carriera da giornalista per Panorama, Focus e Sky, realizza la sua vocazione: promuovere iniziative che abbiano un impatto e che siano sostenibili nel tempo, senza confini.

Francesca oggi è il direttore globale della comunicazione di Amani Institute, un’organizzazione con sedi in Kenya, India e Brasile, che si occupa di formazione nel mondo dell’impatto sociale, e che lei ha conosciuto nel 2015 frequentando a Nairobi il loro programma in Social Innovation Management. Il corso – che nei prossimi giorni sarà eccezionalmente lanciato online per rispondere alla sfida globale lanciata dalla pandemia – mira a formare professionisti del cambiamento, indipendentemente dal fatto che lo facciano sviluppando un business in proprio, lavorando all’interno di una azienda o in una organizzazione non profit. Un’opportunità di formazione fuori dagli schemi per mettere in pratica il concetto di innovazione sociale.

“Per me l’innovazione sociale comincia con la consapevolezza che tutti noi generiamo un impatto, positivo o negativo. Abbiamo un impatto per come ci muoviamo, che tipo di spesa facciamo, con chi lavoriamo. Esserne consapevoli è il primo passo per spostare l’impatto dal negativo al positivo. La neutralità non esiste. Ma innovazione sociale è soprattutto frutto della visione del futuro: vuol dire che tu hai un’idea del mondo migliore di come lo vedi oggi. Dobbiamo comunicare un futuro di cui ci si possa innamorare perché poi, se ci innamoriamo in tanti di quell’idea di futuro, va a finire che la realizziamo.”

 

Francesca Folda, direttore della comunicazione di Amani Institute

 

Forse la sfida allora passa attraverso il fare “sul serio” innovazione sociale con una dose più grande di coraggio. Come entra questo nella progettazione del futuro?

Si parla molto di futuro di lavoro. Ad Amani Institute ci siamo chiesti: “Che cos’è il futuro del lavoro applicato all’impatto sociale?”. Nel 2019 abbiamo organizzato delle conferenze su questo tema a San Paolo del Brasile, poi a Delhi, a Bangalore, Mumbai e Nairobi, invitando speaker internazionali del settore pubblico, privato e non profit. Abbiamo scoperto che tutti sarebbero più produttivi e felici mettendo senso e valori nel loro lavoro. Qual è il problema? È che ci si parla poco: ci sono reti di associazioni non profit, reti del mondo CSR, reti di sindaci, di grandi imprese, ma raramente si costruiscono reti che attraversano questi mondi. Invece bisogna creare occasioni per incontrarsi per trovare soluzioni che possano davvero migliorare il sistema, perché l’innovazione non è per forza inventare una cosa nuova: è far incontrare o scontrare idee che poi fanno nascere una scintilla, mescolando soluzioni o adattandole a contesti nuovi. Questo succede quando ci sono attori diversi nella stessa stanza, inclusi coloro che sono il target degli interventi, che fanno leva su competenze differenti e innescano cambiamenti a livello sistemico.

Forse i tempi sono oggi maturi come non mai per rinnovare un patto fra i diversi settori, dove si mettono al centro credibilità e accountability (reciproche), si disegna insieme una strategia e si agisce in rete.

Gli esempi non mancano. Penso ad ANDE (Aspen Network of Development Entrepreneurs), che mette insieme le piccole e medie imprese dei mercati emergenti con l’obiettivo di portare sviluppo contribuendo a far replicare modelli sostenibili e buone pratiche, dando visibilità alle iniziative virtuose nelle varie comunità e facendo advocacy. Penso ad Ashoka, il network degli imprenditori sociali che, per esempio con il progetto Scuole Changemaker, contribuisce a identificare policy innovative per migliorare la scuola. Penso a Fondazione Cariplo e Compagnia di San Paolo, che si sono alleate per il progetto Innovazione per lo Sviluppo e sono diventate punto di riferimento per l’open Innovation per il sociale. Ma penso anche a individui che fanno la differenza all’interno delle loro organizzazioni. In Brasile, per esempio, ho conosciuto Lisiane Lemos, riconosciuta da Forbes nel 2017 come leader under 30 per avere sostenuto, quando lavorava in Microsoft, la rete BAM (Blacks at Microsoft), che ha contribuito a portare l’attenzione sui temi della diversity e dell’inclusione in modo trasversale, non limitandosi alle pari opportunità uomo-donna, ma dando agli afrodiscendenti visibilità nel mondo corporate brasiliano.

Allora, mi dico, forse in Italia c’è bisogno di una collaborazione più sistemica tra tutti gli altri attori. Se solo la pubblica amministrazione fosse capace di considerare il terzo settore come un partner per l’innovazione, e non solo un fornitore di servizi a basso costo; se solo l’innovazione sociale potesse diventare sempre più parte integrante della strategia d’innovazione di un’impresa, creando valore; se solo potesse emergere con maggior forza il serbatoio incredibile di conoscenze e professionalità diffuse e al servizio dell’altro che appartiene al mondo del volontariato e delle organizzazioni no profit, e si imbastisse una nuova narrativa positiva basata non sul riferimento a “brave persone”, ma su una leva strategica per non lasciare nessuno indietro. Francesca risponde:

Confesso che l’espressione “terzo settore” non mi piace molto: come se ci fosse un primo e un secondo e poi un terzo gruppo di persone. Persone che tra l’altro spesso non vengono considerate professioniste, ma volontari che mettono sul piatto solo la buona volontà. All’estero si fa più propriamente riferimento a social sector o impact sector. Questa divisione per silos tra privato, pubblico e non profit non funziona e ci toglie delle opportunità. Queste aree devono collaborare perché hanno un potenziale di impatto enorme e diverso. Il pubblico interviene a livello di policy, con l’opportunità di cambiare in meglio la vita di milioni di persone, come nessuna singola organizzazione è in grado di fare. Allo stesso tempo, però, è rallentato dalla burocrazia e dalla politica, non è flessibile e fa fatica a prendere decisioni non testate. Un’organizzazione non profit sul territorio, invece, può sperimentare lavorando a stretto contatto con le comunità, e una volta verificato l’impatto dell’intervento può ispirare la policy a livello pubblico. Il privato può intervenire dal punto di vista della ricerca e dello sviluppo e contribuire a riorientare nuovi modelli di produzione, di sviluppo, di consumo. Ma anche il privato dovrebbe farlo con tutta la sua forza, non limitando questo tipo di pensiero a un dipartimento di CSR, spesso considerato periferico.

Assistiamo oggi alla fragilità dell’attuale sistema economico e sociale, scorgendo la prospettiva di una fase recessiva prolungata: sappiamo che serviranno soluzioni nuove per rispondere alle domande sociali che affiorano quotidianamente, per sostenere una ripresa più solida e scongiurare il semplice ritorno al passato.

La pandemia ci obbliga a rivedere molte abitudini. Come in qualsiasi ambito, possiamo subire il cambiamento, pensare a quello che non potremo più fare, o cavalcarlo, pensando a cosa davvero vogliamo poter fare e ridisegnando le soluzioni. Io credo che la ripresa passerà da organizzazioni ibride: imprese sociali che avranno per obiettivo non solo il profitto, ma anche l’impatto sociale, e metteranno la sostenibilità al centro delle loro strategie. Le organizzazioni non profit, da parte loro, possono ripensare la loro offerta di servizi per non dover dipendere esclusivamente dalle donazioni. Guardate che cosa sta accadendo adesso: tutti corrono a donare per le iniziative contro il COVID-19 e altre iniziative fondamentali perdono improvvisamente tutto il sostegno economico di cui hanno bisogno. Offrire servizi utili alle comunità a prezzi calmierati in certi casi rende il servizio sostenibile sul lungo periodo, e fa concentrare chi lo offre più sulla qualità che sul fundraising. Certo, ci sono interventi umanitari e di emergenza che non potranno mai essere gestiti così, ma la collaborazione tra player di settori diversi potrà favorire la fiducia necessaria a far nascere collaborazioni positive anche in questi campi.

Non c’è però una lampada magica da sfregare e un genio che realizza tutti i sogni per un mondo migliore, ma ciascuno di noi può essere attore e attivatore di cambiamento. È così?

Devi creare il tuo lavoro, il tuo impatto, non li trovi confezionati. E occorre mettere in gioco una grande dose di audacia: fare un passo nel futuro, anche senza essere sicuri di come andrà a finire, ma con le idee chiare su dove si vorrebbe arrivare. Il cambiamento parte da noi.

 

Photo by Hans-Peter Gauster on Unsplash

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