“L’Italia si salverà solo ripartendo dalla bellezza di provincia”

Fino a quella domenica di maggio in cui Antonio Natali ha scaldato il tendone del Moby Dick Festival nella piazza di Terranuova Bracciolini, lui per me era solo il nome che aveva diretto a lungo la Galleria degli Uffizi e si può essere un nome in tanti modi. Ero seduta in fondo, con la fortuna […]

Fino a quella domenica di maggio in cui Antonio Natali ha scaldato il tendone del Moby Dick Festival nella piazza di Terranuova Bracciolini, lui per me era solo il nome che aveva diretto a lungo la Galleria degli Uffizi e si può essere un nome in tanti modi. Ero seduta in fondo, con la fortuna che ogni fondo si porta appresso: da laggiù vedi meno bene il palco ma domini meglio il pubblico e non c’è festival che non si misuri dal pubblico. Persone rapite intorno all’arte, tutti noi lì con facce e storie visibilmente distanti da quelle degli accademici colti e opachi. Alla fine gli applausi lo travolgono e Natali, in camicia bianca disinvolta, prende tutto quel calore come farebbe un figlio con la madre. Di colpo la società si mostra benigna e incline ad ispiratori che sappiano ingentilirla e non renderla bruta. Lo raggiungo e gli chiedo un telefono per poterlo intervistare a breve. “Mentre la ascoltavo, mi ha ispirato molte riflessioni su alcuni mea culpa che dovremmo fare in Italia. Un mea culpa corale, senza giudizi o dita puntate l’uno contro l’altro”. “Con piacere”.

Mi racconti allora un mea culpa sugli ultimi dieci anni italiani dell’arte e della sua cultura. 

Di certo ci sono anche responsabilità imputabili non solo al nostro Paese, ma intanto fermiamoci al nostro. Dieci anni che però sono esito degli anni precedenti. A me sembra che ci siano delle colpe gravi, molto gravi, spesso conseguenti a ciò che è successo prima. Se guardo al passato – e me lo posso permettere perché ho l’età per farlo – mi rendo conto che non ci troviamo in questa situazione perché all’improvviso siamo caduti in un baratro, ma perché abbiamo cominciato a sdrucciolare giù per un pendio che già era scosceso, ma sul quale noi abbiamo sparso olio per scivolare ancora di più. Quello che è successo negli ultimi trenta o quarant’anni è stato un deteriorarsi delle virtù. A molti sembrerò un nostalgico, ma voglio dire che chi oggi non è nostalgico è molto giovane oppure non si rende conto di che stagione stiamo vivendo.

Quanto a responsabilità non ho governi da evocare perché più o meno tutti si sono attenuti allo stesso contegno. L’accusa maggiore che muovo a chi ha governato nei decenni precedenti è quella d’aver fatto credere che la furbizia e l’arroganza fossero virtù. Le faccio un esempio davvero banale, ma eloquente: nelle strade nessuno rispetta più i limiti di velocità, se non quando s’incrociano gli autovelox. Chi li rispetta viene tampinato, se non tamponato, finché non rientra nella deserta corsia degli onesti (reputati ottusi). La furbizia s’è fatta virtù a furia di esser praticata da premier e ministri, da coloro cioè che avrebbero dovuto essere esempi di correttezza e di rispetto delle regole.

Intuisco che lei abbia vissuto sulla sua pelle forme di elusione mal digerite. Sbaglio?

Di esempi ne avrei molti. Mi pare sia però emblematico ciò che mi è accaduto nel 2006, quando ero stato appena nominato Direttore alla Galleria degli Uffizi. Avvertivo il peso di una responsabilità inedita: ero stato nella direzione del museo fiorentino più di vent’anni, ma esserne Direttore era tutta un’altra cosa. Dopo poche settimane mi piomba la tegola dell’Annunciazione di Leonardo in Giappone. Ai giornalisti che mi chiamano rispondo di non saperne nulla (d’altronde, di fatto ne ero venuto a conoscenza solo da voci di corridoio, giacché non m’era ancora giunta alcuna richiesta ufficiale). Per farla breve: la notizia di colpo rimbalza fino al Giappone, dove tutto era già stato attivato per accogliere l’opera. E in quel paese sembrò che l’Italia ci avesse ripensato e avesse posto un veto. Quasi subito mi arriva una telefonata dall’allora Ministro Rutelli, il quale molto civilmente (a differenza di altri, va detto) mi dice che io non posso dare contrordini rispetto ai superiori. “Non ho dato alcun contrordine”, risposi. Non avevo infatti espresso parere negativo alla trasferta in Giappone dell’Annunciazione vinciana; avevo soltanto dichiarato che ci sono opere per le quali è vietata l’esportazione (ancorché temporanea) all’estero. Ma non per un mio capriccio, bensì per legge. Nel 2004 (cioè due anni prima di questa vicenda) il cosiddetto Codice Urbani aveva stabilito che le opere costituenti “il fondo principale di una determinata e organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria” non possono uscire dall’Italia. E chi può negare che la tavola di Leonardo risponda a quei requisiti? Quello che si dimentica è che, al cospetto della legge, il Ministro è come ognuno di noi. Alla fine l’Annunciazione ovviamente andò e io mi presi tre giorni di ferie perché non volevo assistere a quella partenza, anche se dal palazzo di fronte rimasi in contatto costante con la squadra tecnica che stava provvedendo allo spostamento: non volevo né potevo disinteressarmene. I principî hanno lo stesso valore ineludibile di una legge: sui pareri e sulle opinioni si discute, ma sui principî e sulle leggi proprio no. Si possono cambiare, ma non scavalcare. Diciamo che, col tempo, abbiamo un po’ alla volta scardinato ciò che avrebbe dovuto essere ineludibile.

Una distanza prima di tutto emotiva verso quella decisone dall’alto.

Con le mie ferie stavo dicendo che non volevo assistere a quel trasloco illegale di un’opera d’arte.

Un senso di appartenenza rispetto all’arte è garantito a tutti oppure occorre fare un mea culpa anche sul fatto che stiamo barattando l’arte col commercio?

Certamente sì. Da quando ho lasciato gli Uffizi e mi sto dedicando a quanto io reputi importante, mi occupo di lezioni nella provincia italiana, soprattutto toscana. Credo che la storia dell’arte non sia affatto elitaria, ma che lo sia diventata col tempo. Se lei, storico dell’arte, parla con una persona, questa persona per prima cosa metterà le mani avanti esordendo: “Sa, io non me ne intendo, ma vorrei sapere…”. Quella stessa persona lei pensa che farebbe lo stesso se, invece di un’opera d’arte figurativa, si ragionasse di un romanzo? Io non credo. La scuola ha una grande responsabilità. La scuola dovrebbe fin da subito farsi carico di educare allo studio della storia dell’arte. Da direttore, quando il lunedì mattina gli Uffizi erano chiusi, facevo entrare i bambini anche d’età prescolare e chiedevo agli operatori della didattica di far scegliere direttamente a loro le opere al cospetto delle quali fermarsi. Volevo che non fossero viziati dai nomi suggeriti magari dai genitori, già condizionati dal turbine della massificazione. Lasciati liberi di scegliere, erano attratti da quei dipinti che incuriosivano per quello che raccontavano, come fossero una fiaba. E su tutti la Tebaide, attribuita anche al Beato Angelico: piena di piccolissimi eremiti sparsi fra le colline, ognuno perso dietro a qualche faccenda divertente o misteriosa. Quell’esperimento fu anche un bell’insegnamento per noi grandi.

Gli adulti vanno davanti a un’opera d’arte anche solo per poter poi raccontare di aver “visto”?

Tutto qui il problema, capita quasi sempre così. Ci hanno illuso di conoscere la bellezza ma non è vero.

Proviamo a ricostruire il punto di rottura andando indietro nel tempo. 

Abbiamo smesso di vedere e riconoscere la bellezza forse più di un secolo fa, quando – per così dire – si è rotto il patto col popolo. Le avanguardie di primo Novecento, sancendo la frattura con le rappresentazioni naturalistiche, mimetiche, costrinsero a un’educazione e a uno studio che andavano oltre l’espressione figurativa. Si creò una frattura. Nacque l’incomprensione. Tutto ciò che infrangeva le sembianze mimetiche veniva (e tuttora viene) preso dai più come un oltraggio o uno sberleffo e non come un esito di una sempre nuova ricerca. Per colpa dei governi, la scuola ha abdicato al suo ruolo educativo in materia d’arte; salvo poi dire, a ogni possibile occasione, che il patrimonio artistico è la nostra ricchezza.

La fermo su questo aspetto. Quale patrimonio e quale ricchezza?

Faccio ricorso al gergo giornalistico. In questi tempi abbiamo assistito al cosiddetto “Toto Ministri”. Tutti si saranno accorti che in nessun quotidiano si faceva la benché minima profezia sul Ministero dei Beni Culturali. Il nome è venuto fuori all’ultimo momento. C’è stato chi se n’è stupito; ma chi si meraviglia, evidentemente, è molto giovane o ha poca memoria, giacché è così da tanti anni. La stampa – per vendere – si occupa di quello che interessa alla gente e se non si sbilancia in previsioni su chi governerà il nostro patrimonio vuol dire che alla gente non interessa. Non sono affatto ottimista: quel nome – ma soprattutto quel valore immenso che sta dietro al nome – non interessa alla stampa, non interessa ai politici, non interessa ai cittadini.

Che italiani ha conosciuto negli ultimi decenni?

Davanti al patrimonio artistico mediamente c’è freddezza da parte degli italiani. C’è calore soltanto al cospetto dei feticci. E allora via con le mostre su Leonardo, Caravaggio, gli Impressionisti, Van Gogh, e giù per la scesa. Le mostre non dovrebbero essere organizzate per conoscere il già noto, ma per avvicinarsi al poco noto o addirittura all’ignoto; solo così le mostre diventano davvero educative. La conoscenza può essere rassicurante o inquietante, ma è comunque conoscenza e non si può eludere.

Riusciamo con lei a fare due conti in tasca all’arte italiana? 

Franceschini ha perfino detto che il suo era il primo ministero economico; ma l’errore, suo e di molti altri, sta nel pensare che la ricchezza derivi dal puntare tutto sui musei, mentre si dovrebbe investire sul territorio. Quando ero agli Uffizi mi inventai una collana di mostre intitolata ‘La città degli Uffizi’. In luoghi vicini o lontani dal museo ordinai mostre con opere il più delle volte tratte appositamente dai depositi, che lasciavano Firenze per tornare in quei posti a cui erano in vario grado legate. E il territorio si arricchiva in conoscenza e coscienza storica; e però ne guadagnavano anche le condizioni economiche. Nelle terre della provincia italiana ci sono bellezze ragguardevoli che lo Stato sta da troppi anni trascurando.

La ascolto e non le ho mai sentito mettere un accento sulla responsabilità dei cittadini.

Non do mai la colpa ai cittadini, mai. Non perché siano immuni da colpe, ma perché la responsabilità è sempre di chi li governa. In questa materia c’è una totale assenza di governi. Un’assenza che fa finta d’essere presenza. Se i milioni di euro dati in questi anni agli Uffizi e ad altri musei (che non sempre ne avevano così bisogno) fossero stati spesi per i territori, oggi saremmo più ricchi culturalmente e, per naturale conseguenza, economicamente. C’è da invertire una tendenza che ci ha condotti alla rovina. Spesso mi si contesta dicendo che una cura come la mia richiede tempi troppo lunghi; e io non mi stanco mai di dire che, se non si comincia mai, sarà sempre peggio. Tutto è ormai fondato sull’immagine e non sulla sostanza. La sostanza ha i suoi tempi; per l’immagine basta una promessa.

L’inganno sta allora nel far credere che si offra la cultura che le persone chiedono.

Purtroppo sì. Non è vero – come si sente dire – che diamo alla gente quello che la gente vuole. No. Noi diamo alla gente quello che noi abbiamo voluto ci chiedesse. Lo abbiamo fatto con ogni mezzo di comunicazione possibile, pompando sempre gli stessi nomi. Pubblico e privato hanno compiti diversi: l’educazione spetta indiscutibilmente al primo, il secondo può liberamente sostenerla, ma non è tra i suoi doveri. Sarebbe bello pensarlo, ma non posso pretendere che un privato rischi capitali e posti di lavoro dei suoi dipendenti in nome di progetti educativi. È allo Stato che spetta l’educazione del popolo. Le mostre che ho voluto agli Uffizi erano incentrate su temi e nomi degni di essere conosciuti: chi entrava in Galleria per guardare i suoi capi d’opera celebrati aveva l’opportunità di vedere gratuitamente anche dipinti e sculture che solo un istituto statale può permettersi di raccogliere in una mostra, facendoli pervenire da ogni parte del mondo.

Dentro un’Italia così diversa da sud a nord, che coscienze ha incontrato?

Ammetto che potrebbe avermi condizionato la mia nascita in provincia. Il mio legame con la provincia è ombelicale. Sono convinto che, se l’Italia si salverà, si salverà soprattutto grazie alla provincia i cui cittadini dovranno però essere confortati da uno Stato che se ne prenda cura davvero. Naturalmente lo Stato s’incarna negli uomini. Se l’uomo è di valore, anche lo Stato lo è; se l’uomo è un cretino, lo Stato declina. Come quando si parla di burocrazia: il problema non è la burocrazia, ma chi è chiamato a gestirla. Insomma il problema sono i burocrati. Realtà a struttura piramidale non possono, anzi, prescindere dalla burocrazia a cui peraltro si danno colpe che sono invece di tutt’altra natura. Renzi sbagliava ad attaccare le Soprintendenze, dove – a suo giudizio – s’inceppavano taluni progetti. Si sa, sarebbe bello che le nostre idee trovassero sempre la strada spianata; ma i vincoli esistono. Senza Soprintendenze Firenze non sarebbe oggi la città che è.

Avevamo iniziato questa intervista parlando di virtù, abbiamo finito coi vizi.

L’arte non appartiene al genere dei beni voluttuari. L’arte è la nostra memoria, la nostra coscienza storica, l’eredità dei nostri padri. Il patrimonio è di ognuno di noi e può essere perfino rischioso dire che è dello Stato, perché lo Stato è purtroppo visto come un’entità astratta. Dire che il patrimonio è dello Stato può alla fine deresponsabilizzare e basta. Ciascuno deve dire “è mio”. A Empoli, con Unicoop Firenze, fra poco comincerà il restauro della bella Fontana dei Leoni. Unicoop avrebbe potuto offrirsi come mecenate e mettere il proprio marchio sulla pubblicità, ma ha preferito fare in modo che fossero i suoi clienti a partecipare al finanziamento dell’intervento, scegliendo di destinare una quota della spesa al restauro della loro fontana ottocentesca. Solo quando sentiamo nostro un valore, facciamo di tutto per proteggerlo. D’ora in poi, verosimilmente, i cittadini di Empoli saranno i primi difensori di un monumento che è tornato ad esser loro.

CONDIVIDI

Leggi anche