L’orgoglio invisibile dei service editoriali

Non era scontato dare la voce ai service editoriali. Sarebbe stato un errore impagabile escluderli. Ascoltando per tre giorni i relatori di The Publishing Fair, se c’è una parola che è stata ripetuta più di ogni altra, quella parola è outsourcing: la traduzione letterale suonerebbe tristemente “approvvigionamento esterno”, ma il gergo “esternalizzazione” rende bene l’idea, […]

Non era scontato dare la voce ai service editoriali.

Sarebbe stato un errore impagabile escluderli.

Ascoltando per tre giorni i relatori di The Publishing Fair, se c’è una parola che è stata ripetuta più di ogni altra, quella parola è outsourcing: la traduzione letterale suonerebbe tristemente “approvvigionamento esterno”, ma il gergo “esternalizzazione” rende bene l’idea, anzi il metodo, sempre più vivo nel mondo del lavoro aziendale. Le case editrici come ce le immaginavamo una volta non esistono più. Lo ha spiegato per filo e per segno anche Carlo Alberto Bonadies che di mestiere, e da una vita, fa il direttore editoriale di Einaudi.

 

Le aziende in outsourcing che risolvono i problemi dell’editoria

Chi gestisce oggi buona parte della cabina di regia della filiera editoriale sono proprio i service ed è per questo che hanno titolato il loro intervento in fiera ServicePride, rivendicando fortemente l’attività che li caratterizza: risolvere problemi.

“Ci confrontiamo con diversi soggetti, per i quali lavoriamo su commissione: soprattutto gli editori e gli autori, ma non solo. Ci confrontiamo con testate giornalistiche. Gestiamo la produzione di testi scritti per aziende che non hanno nulla a che fare con l’editoria. Collaboriamo a stretto contatto con studi di grafica, con uffici stampa, con produttori di audio e video, con programmatori che strutturano nuove e stupefacenti vesti digitali per il libro e, per le versioni cartacee, dialoghiamo coi tipografi”.

Ha aperto così Raffaella Cavaletto di Ibidem: torinese, studi in filosofia ed esperienze come consulente scientifica, editor e redattrice freelance prima di fondare la società nel 2017 insieme a quattro professionisti del settore; stringendo, si occupano di grafica e messa a punto redazionale. Ha poi aggiunto la parola “ibridazione” per spiegare il lavoro che fanno, spiegando che “siamo il Rasoio di Occam per convalidare nuove tecnologie che consentano la digitalizzazione, e anche il miglior risultato grafico e contenutistico, con minore spesa: se è vero che il lavoro non va deprezzato, è anche vero che non possiamo pretendere che i nostri committenti non pretendano da noi un continuo aggiornamento. Aggiornamento tecnologico ma anche di competenza, investendo autonomamente in corsi di formazione o master privati che tornano a noi con un incremento delle produzioni. Anche in questo senso i service editoriali sono aziende a tutto tondo. Per noi si tratta di investire su un metodo gestionale perché, per natura, siamo le figure che devono evitare a tutti i costi modelli disfunzionali”.

Raffaella Cavaletto, Ibidem. Photo @Domenico Grossi

I service editoriali, aziende smart e crossborder che non vivono (solo) nelle grandi città

“Manca totalmente un censimento della filiera editoriale che dia i numeri anche del tassello dei service: chi lavora nel comparto purtroppo non sa dire quanti colleghi abbia e che funzioni specifiche ricoprano. Senza numeri è difficile anche alzare la voce. Abbiamo cercato dati statistici che ci illuminassero sulla presenza dei service nel nostro Paese. Dove fossero dislocati. Da quanto tempo fossero in attività. Non abbiamo trovato documenti in questo senso.”

“Siccome a noi le sfide piacciono, vogliamo colmare questo gap e abbiamo un anno di tempo per censire i service in Italia. Lanceremo anche un’indagine sulla rete. L’obiettivo è arrivare alla seconda edizione di The Publishing Fair dati alla mano, per confrontare alcune nostre intuizioni. Io per esempio penso che la dislocazione in grandi realtà urbane non sia più una scelta dirimente per l’attività di un service editoriale. Penso anche che molti service stiano scegliendo una strada smart e mobile in una realtà, l’Italia, che sembra sempre un po’ ancorata a modelli passati”.

Si definiscono aziende crossborder e la Cavaletto prosegue parlando infatti di identità: “Siamo aziende diverse, alcune più piccole, altre più grandi. Alcune con un impianto più strutturato e con dipendenti, altre con un impianto più snello che si fonda sui collaboratori, i freelance, le aziende individuali. Ma la nostra essenza è quella di aiutare il committente a portare il prodotto scritto ed editato al fruitore. Siamo dei traghettatori. Per fare questo, diversamente dagli editori, dobbiamo switchare a comando e, nello stesso tempo, rimanere eterogenei, senza fossilizzarci sulle preferenze di un singolo committente. Questo essere transfrontalieri ingrandisce la nostra esperienza e la nostra capacità di offrire soluzioni e risolvere problemi, mantenendo inderogabilmente tempistiche di produzione snelle”.

“La velocità è nostra amica perché per noi velocità coincide col pagamento: pagamento che va inteso non solo come ricezione del credito, ma anche come risorsa per pagare quella fitta rete di collaboratori con cui creiamo azienda e network e su cui fondiamo il nostro persistere sul mercato. Dobbiamo elaborare business plan che tengano conto degli investimenti miranti all’estensione, tariffari basati su un’esperienza non declinata al singolare ma su una casistica multiforme che per noi rappresenta il know-how non solo produttivo e gestionale, ma anche amministrativo ed economico.”

“Dobbiamo essere sfidanti come prezzi ma mai sottopagati. In un certo senso vorremmo usare l’accezione positiva del ‘fare cartello’, inteso in senso metaforico al fine di scambiarci fra noi service tutte le informazioni sulle potenzialità di crescita e tutti gli aggiornamenti per fare in modo che il nostro lavoro vada anche a tutela dei freelance singoli e non venga deprezzato. Deprezzare il lavoro è un vizio di forma che la società tutta non può permettersi e ce lo ha già insegnato la prima rivoluzione industriale”.

 

Lavorare insieme per lavorare meglio. E la motivazione conta quanto la formazione

Valeria Ferracuti ha fondato Rosso China che nasce nel 2012 a Varese. Nel 2016 si trasferisce a Roma per seguire più da vicino la collaborazione con alcuni clienti importanti, e oggi lavorano con lei 19 professionisti tra editor, grafici, traduttori, illustratori, copywriter, trascrittori; lo fanno per case editrici ma anche per aziende – piccole, medie e grandi – di settori completamente differenti da quello editoriale. Mi racconta che non fumano, non bevono e che a volte fanno le ore piccole. Che cosa voglia dire lavorare in remoto me lo dice partendo dal clima di lavoro.

“Di collaboratori da remoto ne abbiamo cambiati tanti. E la maggior parte sono durati poco. Lavorare tutti nello stesso ufficio ci permette di confrontarci, discutere, ispirarci. In questo modo il progetto nella sua interezza diventa di tutti, e non solo di chi ha curato una singola parte o un singolo step. Questo non è così semplice da trasmettere a chi l’attività non la vive ‘da dentro’. Se a Natale i nostri clienti ci spediscono arance dalla Sicilia vuol dire che siamo riusciti a stabilire con loro un contatto che va oltre il semplice scambio tra domanda e offerta.”

“Io ho sempre cercato, nei limiti del possibile, di tenere tutto in casa. Un po’ perché ho la mania del controllo, un po’ perché nel momento in cui trovo una persona che è brava, che conosce il suo lavoro ma soprattutto che ama quello che fa, me la tengo stretta perché so che è una grandissima risorsa. Do quasi più importanza alla motivazione che alla formazione. Una persona che ha studiato molto ma che non dimostra passione in quello che fa non potrà esserci di grande aiuto. Viceversa, una persona fortemente motivata potrà essere affiancata a figure senior che sono in grado di insegnarle la parte tecnica del mestiere.”

“Certo, a volte aiuti esterni sono necessari. Lo scorso anno, una grossa compagnia di navigazione ci ha fatto una richiesta un po’ fuori dall’ordinario. Per testare la qualità del servizio di assistenza all’interno delle sue navi da crociera ha pensato bene di piazzare un microfono su ogni desk presente all’interno della nave (banchi informazione, bar, ristoranti, palestra, baby park…). In sostanza, sono state registrate tutte le richieste fatte dai croceristi al personale di bordo per tre giorni consecutivi, 24 ore su 24, quindi anche di notte, per un totale di circa 980 ore che andavano sbobinate in sole quattro settimane.

“Oltretutto i passeggeri, chiaramente, non parlavano solo italiano, ma c’erano inglesi, tedeschi, russi, cinesi – e un costante sottofondo di zumba e bambini che strillano. Visti i tempi molto stretti che ci sono stati concessi e le numerose lingue presenti, per questo lavoro sono stati necessari molti collaboratori esterni. Ho avuto a che fare, in quattro settimane, con circa 35 trascrittori, provenienti da ogni parte del mondo, che quindi avevano anche un fuso orario diverso e per i quali abbiamo dovuto gestire quasi 4000 file”.

Valeria Ferracuti, Rosso China.

Una comunicazione e gestione delle informazioni serrata ma accogliente

Solo quando la comunicazione diventa metodo i processi trovano la giusta strada. Per i service editoriali riveste ancora più centralità fare in modo che il dialogo e lo scambio di informazioni non incontri ostacoli all’interno della catena di lavoro e non strappi la cerniera. Raffaella Cavaletto torna a ribadire la strategia degli strumenti di lavoro e la sua connessione col fattore tempo, non perdendo mai di vista come il fattore umano resti alla fine il valore aggiunto quasi inestimabile.

“Molto spesso le comunicazioni con i committenti, nell’editoria, avvengono via mail (in alcuni drammatici casi, oserei definirli, anche tramite altri servizi di messaggistica). Senza efficienza gestionale e ottima archiviazione, senza un metodo chiaro e distinto di comunicazione, la gestione di committenti e di collaboratori sarebbe impossibile. Non dimentichiamo poi che la gestazione di un prodotto scritto è medio-lunga e non può essere vincolata a un’unica persona, pena la qualità ma anche il potenziale ingrandimento, soprattutto se il service è grande.”

“Il metodo di comunicazione e trasmissione delle informazioni, strutturato seguendo le regole della programmazione informatica nel caso Ibidem, è una tipologia di metodo che io scientificamente chiamo ‘a prova di stupido’. Le informazioni devono essere sempre facilmente reperibili, da qualsiasi device, a qualsiasi ora; ogni procedura spiegata in modo didascalico, anche pedante, ma sintetico. La nomenclatura delle cartelle e dei singoli documenti facilita l’ordine automatico in archivi personali e nell’archivio aziendale deve essere aggiornato costantemente: non esiste un ‘domani’ o un ‘lo faccio dopo’.”

“Un metodo ben strutturato può anche essere più facilmente condiviso con i committenti: anzi loro sono il test popperiano di un metodo che funziona. Il metodo che funziona è accogliente: se tu service dai un buon esempio gestionale questo esempio viene accolto – accolto, ribadisco, non imposto – dai collaboratori e dai clienti, e per esperienza posso dare questa consuetudine al 75% dei casi.”

“Da questo punto di vista, un’altra risorsa per noi sono i corsi che attiviamo annualmente per i privati che vogliono intraprendere questo lavoro (e che magari entrano a far parte della nostra rete di collaboratori), per gli editori che hanno bisogno di organizzare nuovi archivi digitali e per le aziende dove un metodo di produzione e di archiviazione di contenuti scritti omogenei può essere una risorsa allo snellimento e anche all’eliminazione della carta tema green da non dare per scontato in questo periodo storico”.

 

 

Foto di copertina di Domenico Grossi

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