Editoriale 80. Modello Piemonte

Che peso essere l’alunno modello, quello a cui guardano tutti, tutti che si aspettano qualcosa, la tensione del ruolo che va retto sempre. Al primo errore che fai non te lo perdona nessuno, anzi non vedevano l’ora che arrivasse. Il guaio dei modelli è che prima di diventarlo non ci pensano al peso che comporta […]

Che peso essere l’alunno modello, quello a cui guardano tutti, tutti che si aspettano qualcosa, la tensione del ruolo che va retto sempre. Al primo errore che fai non te lo perdona nessuno, anzi non vedevano l’ora che arrivasse.

Il guaio dei modelli è che prima di diventarlo non ci pensano al peso che comporta e che un conto è fare da modello, un conto è esserlo.

Torino mi fa venire in mente tutto questo, anche il Piemonte.

Mentre scrivo questo editoriale scorre da ore la notizia del fermo a Michel Platini per “presunti atti di corruzione” nell’affare Qatargate sui Mondiali di calcio del 2022. Quando nell’82 arrivò in Italia, la Juventus di Gianni Agnelli non esitò un giorno a metterselo in cantiere, barattando per lui persino Liam Brady perché era appena entrato in squadra anche Boniek e a quei tempi si concedevano massimo due stranieri alle squadre di serie A. Oggi fa sorridere.

I numeri gli attribuiscono più di 650 partite tra nazionale e club: Platini passò alla storia sì per il talento, ma anche per non esser mai stato espulso nonostante la carica agonistica in campo, l’estro, e nonostante i difensori accaniti che si trovava puntualmente addosso. Platini era un modello di gioco e di persona e lo dico pur non avendo mai tifato Juve; io in quegli anni ero piccola per età ma già grande per ricordare e, con una sorella che lo aveva scelto come mito, il suo poster appeso in camera nostra me lo ricordo ancora. Davanti alla contestazione dei reati lui giustamente nega e giustamente si prepara alla difesa, la verità chissà quanto è lontana ma per ora il modello è stato infranto, si è crepato, qualcuno l’ha macchiato. I modelli possono rompersi. La Torino dei suoi anni Ottanta non è la Torino di oggi di Ronaldo. Torino è una città di potere che va letto come sostantivo e come verbo. Non è mai semplice dire se le città cambino perché cambiano le persone o viceversa, a mordersi la coda è un attimo. Una volta l’Avvocato disse di lui «L’abbiamo comprato per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras». Anche nel fare i complimenti il sangue dei potenti esprime sempre punte più acri del normale. 

Il Piemonte lo sa molto bene quanto è fertile e quanto ha generato idee, a loro volta madri. Pochissime le regioni italiane che hanno il coraggio di partorire, la maggior parte adotta alla luce del sole o ruba sperando di non farsi notare.

Quella che qui ancora in molti chiamano “sindrome dello scippo” è sempre viva: se parli col tassista, ti fa subito l’elenco dei primati sottratti alla città; però la lista l’ho ascoltata nell’ordine anche in autobus, da due imprenditori, da un giornalista locale e da un paio di signori al bar col giornale in mano. Una voce contraria e illuminante l’ho raccolta da una editrice caparbia quando sottolinea che se al Piemonte gli rubano ancora i modelli vuol dire che le buone idee non mancano e il tessuto di impresa nemmeno.

Diciamo anche una cosa: in Piemonte è facile venire a rubare i sistemi perché gli imprenditori comunicano poco, parlano meno e in comunicazione investono quasi zero; a parte i grandi progetti e i grandi nomi, il marketing di Milano qui se lo sognano. Soprattutto, invece, una raccomandazione: non dite ai piemontesi che sono provinciali, che Torino è una città industriale e che tutti lavoravano in Fiat. Anche se pensate di aver ragione, evitatelo.

Per decenni abbiamo incollato l’immagine di Agnelli sopra Torino, quella di Olivetti sopra Ivrea, Petrini su Slow Food, Farinetti sulla sua Eataly, la politica sul Salone del libro. Di questi, però, non tutti hanno restituito al territorio e i piemontesi hanno memoria lunga sui torti subiti e dita lunghe a cui legarsi i ricordi.

Industria e agricoltura, fabbriche e campagne: in un modo o nell’altro, almeno da fuori, i due poli sono sempre stati lì. Siamo poi sicuri che l’idea di fabbrica tanto militare abbia fatto così bene al capoluogo, cresciuto a pane, salario e controllo? Tra le braccia di una madre senza dubbio si rinasce ma qualsiasi abbraccio, troppo stretto, alla lunga soffoca.

Non pochi sostengono che in Piemonte, a viverci, tutto sembri piatto perché nessuno pesta i piedi a nessuno e non tanto per rispetto ad ogni costo ma per paura del confronto. Torino prova adesso a rialzare la testa perché le vecchie madri sono morte e con loro certi lacci; in tutta la regione, cresciuta a campi e fabbriche, i giovani cercano mappature diverse rispetto ai padri e ai nonni, la cultura sul territorio frena e accelera al tempo stesso, schizofrenico e ardito il Piemonte non ha mai smesso di voler essere la Capitale d’Italia. Chissà, forse proprio perché gliel’hanno tolto politicamente, ha guidato il Paese dalle cabine industriali di regia. La prova del nove arriva adesso: davanti alla tecnologia e al digitale, davanti al cambio di passo relazionale che i giovani impongono, la cultura manageriale prenda uno specchio in mano e dica cosa vede, senza il trucco della politica e senza le madri pronte come un tempo a coprire i difetti. Torino e il suo Piemonte devono dimostrare solo una cosa: di saper diventare grandi da soli e di essere davvero un modello, non solo di farlo. Non abbiano paura di sbagliare anche se sono stati da sempre i primi della classe.

La città è indebitata fino all’osso, le casse della finanza regionale sono disidratate e tutte rughe, la disoccupazione giovanile ha un tale girovita che imbarazza l’Italia. Tutti gli stereotipi sui malfunzionamenti al Sud si sono incarnati qui, nella Pubblica Amministrazione? Chi ha voglia di scherzare potrebbe obiettare – con poco gusto – che i meridionali emigrati negli anni Cinquanta hanno esportato anche i loro migliori difetti ma vorrebbe dire cadere nella quarta delle cose da non dire mai a Torino: che i piemontesi veri non esistono più.

Ripartirei da qui per capire di che pelle è fatta oggi questa terra, dalla fortuna della mescolanza e dal sangue misto, dal rigore dei locali e dalla disperata creatività di chi, almeno tre generazioni fa, ha lasciato tutto per cercare di rinascere. C’è sempre da imparare anche se ci si sente per tutta la vita Capitale.

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