Nello sport se non ti diverti non c’è mestiere

“Il mestiere del calciatore? Direi che definirlo un mestiere mi sembra una parola grossa. Diciamo che è un divertimento, una passione che pochi giovani hanno avuto la fortuna di poter intraprendere. Almeno, ai nostri tempi era così. Ora con tutto questo business che gira attorno al calcio le cose stanno diversamente”. Mariolino Corso, per gli […]

“Il mestiere del calciatore? Direi che definirlo un mestiere mi sembra una parola grossa. Diciamo che è un divertimento, una passione che pochi giovani hanno avuto la fortuna di poter intraprendere. Almeno, ai nostri tempi era così. Ora con tutto questo business che gira attorno al calcio le cose stanno diversamente”.
Mariolino Corso, per gli amici Mandrake e per la gloria che si conquistò negli anni ‘60 nell’Inter di Helenio Herrera, “il piede sinistro di Dio”, ha un’idea tutta sua del mestiere di calciatore.
È convinto comunque che dagli anni in cui lui dominava la scena calcistica assieme ad altre glorie come Mazzola, Suarez, Bedin, le cose siano molto, ma molto cambiate.

“Ai miei tempi prima di tutto ti divertivi, giocavi, ti mettevi in mostra per le doti che avevi e poi, se eri bravo, diventavi un professionista. C’era meno business ma anche meno problemi. Oggi è tutto cambiato. Sei sempre nell’occhio del ciclone, anche perché le cifre che girano rispetto ai miei tempi sono impressionanti”.

Questo vale anche per la formazione del giocatore? Cosa è cambiato?
“Tutto. una volta oserei dire che la preparazione atletica non c’era. C’era soltanto il pallone e il pubblico. Non voglio dire che noi non fossimo preparati da un punto di vista atletico ma è certo che la macchina della preparazione atletica era molto più semplificata”. Lei non ha fatto soltanto il mestiere del calciatore ma anche quello dell’allenatore. Anche lì è cambiato tutto? “Penso di sì. Una volta l’unico a comandare era l’allenatore che decideva in base alla sua capacità. Oggi un allenatore deve gestire i giocatori, i procuratori e gli avvocati e tutto diventa più complesso. E poi diciamolo chiaramente: tutto dipende dal risultato: se vinci sei bravissimo, appena cominci a perdere ti cacciano. E dietro tutto ciò c’è sempre il business che ormai permea di sé questo sport”.

Mi pare che lei sia uno di quelli che mette sul banco degli imputati il business. Come sostiene qualcuno, i soldi rovinano il calcio?
“I calciatori certo non si rovinano con i quattrini che prendono. Ma lo sport ne soffre. Prenda ad esempio quello che alcuni definiscono lo spirito di appartenenza. Una volta c’era più attaccamento ai colori della propria squadra e della prorpia città. Tenga conto che le parla uno che è stato vent’anni nella stessa squadra. E che ha amato la squadra nella stessa misura in cui ha amato la città di Milano. Oggi non è così: se ti danno due milioni di euro il tuo spirito di appartenenza per la tua squadra e per la tua città è grande ma se qualcuno te ne offre tre di milioni il giorno dopo il tuo spirito di appartenenza cambia maglia rapidamente”.

Torniamo a Mariolino Corso allenatore: che consiglio darebbe a un giovane che sogna di fare il mestiere del calciatore. “Pensare a giocare e divertirsi. E soprattutto sganciarsi dalla famiglia”. Perché dalla famiglia?
“Perché in base alla mia esperienza di allenatore dei giovani prima a Napoli poi all’Inter ho potuto purtroppo constatare che le famiglie hanno un ruolo negativo sui ragazzi. Quando i ragazzi si presentano agli allenamenti, prima e dopo si respira una insopportabile pressione psicologica delle mamme e dei papà che non fa del bene ai ragazzi che vorrebbero giocare al calcio. Se fanno goal diventano i cocchi della famiglia, se perdono o non si mettono in mostra vengono sgridati anche pesantemente. Questo non è buono. E temo che anche dietro questo fenomeno ci sia l’ombra del business. Spesso le famiglie, sentendo le cifre che circolano per i grandi professionisti, sognano di poter ottenere dal proprio figlio introiti simili. Ma questo, lo ripeto, non è l’approccio giusto. I ragazzi vanno lasciati liberi, se c’è la stoffa del campione prima o poi emerge senza bisogno di inutili pressioni psicologiche delle famiglie che immaginano per i propri figli una carriera miliardaria che, tra l’altro, è assai difficile. Su centinaia di giovani che si avvicinano al calcio solo due o tre emergono. Questa è la realtà”.

[Credits photo: Corso con Spalazzi negli anni ’60, L’Unità]

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