Non aprite quella porta

Per molti anni, persone ed aziende hanno tenuto rigorosamente chiusa quella porta che divideva il mondo lavorativo dal cosiddetto mondo “privato”: tranne alcuni casi particolari, c’era uno spazio in cui la Persona stava in azienda e svolgeva un lavoro con la propria competenza, c’era poi uno spazio esterno in cui la stessa Persona viveva una vita […]

Per molti anni, persone ed aziende hanno tenuto rigorosamente chiusa quella porta che divideva il mondo lavorativo dal cosiddetto mondo “privato”: tranne alcuni casi particolari, c’era uno spazio in cui la Persona stava in azienda e svolgeva un lavoro con la propria competenza, c’era poi uno spazio esterno in cui la stessa Persona viveva una vita quasi parallela, senza intersezioni con la propria attività professionale. Come se esistesse un tacito patto di “non contaminazione” e “non ingerenza” reciproca fuori dalla porta del luogo di lavoro.

C’erano certamente (e ci sono ancora, seppure diminuiti in modo esponenziale rispetto al passato) contesti di grandi aziende capaci di offrire un welfare che abbracciava parte della sfera privata dei collaboratori, cosi come persone che – percependone il vantaggio economico – consentivano volentieri a questo “abbraccio”, che restava comunque molto parziale.

Ma qualcosa oggi in questo reciproco guardarsi è mutato: da una parte le aziende riconoscono nel proprio collaboratore un ambassador dei propri valori, dei prodotti e dei servizi. Un ambasciatore che – per via dei social network – parla al territorio e al mondo intero in modo diretto ed immediato, senza bisogno dei media tradizionali.

Le aziende, inoltre, non possono più accontentarsi di una competenza meramente specialistica: nella progettazione, nella produzione, nella relazione, una cultura ampia del collaboratore rappresenta una ricchezza “aziendale” che va ben oltre la mera conoscenza tecnico-specialistica. In un mondo in cui la competizione di qualsiasi prodotto e servizio diviene globale, è sempre più improbabile inventare e migliorare senza contaminazione: la curiosità, la conoscenza di mondi, persone ed esperienze “differenti” dal proprio cosmo aziendale rappresentano veri e propri fattori strategici di successo.

E allora, se cultura significa coltivare la conoscenza di sé e della diversità, anche di ciò che sta ”dentro” e “fuori” dal proprio cosmo, è proprio la cultura uno dei fattori strategici per il raggiungimento degli obiettivi di impresa che le aziende dovranno ricercare.

Dall’altra parte abbiamo il collaboratore che, soprattutto se appartenente alle nuove generazioni, sembra non accettare più quel confine, quel perimetro che separa l’essere se stesso e l’essere in azienda. Se l’azienda deborda quel confine, egli stesso ritiene di poterlo fare.

Dimenticata la stagione in cui si andava in pensione dopo 30 anni nella stessa azienda, ciascun collaboratore diviene poi protagonista della progettazione e riprogettazione della propria competenza specialistica e non: quello che già ha imparato deve continuamente essere alimentato, messo in discussione e rinnovato, in una prospettiva imprenditoriale e non più (per quanto concerne l’apprendimento) di subordinato. Ma l’azienda non può più essere la fonte esaustiva della competenza, dell’esperienza e della cultura: oggi – come mai prima – è necessario investire un proprio tempo sulla conoscenza, dentro e fuori alla “porta” dell’edificio lavorativo.

Quali dunque le sfide principali del mondo imprenditoriale nella promozione della conoscenza?

Il mondo dell’impresa deve rendere visibile e vincente il collaboratore capace di affiancare alla sua specializzazione uno sguardo ampio, trasversale, costruito su esperienze e materie anche molto differenti. Il modello di manager italiano presentato dalla presidente dell’AIE alla Fiera del libro di Francoforte nel 2015 (quasi il 40% di dirigenti e professionisti, secondo le statistiche, non leggeva nemmeno un libro all’anno) sembrerebbe indicatore di un impoverimento culturale da contrastare in se’ e in quanto cattivo esempio per chi sogna di fare il manager domani.

Deve avere uno sguardo ampio, trasversale, costruito su esperienze e materie anche molto differenti. Il modello di manager italiano presentato dalla Presidente dell’AIE alla Fiera del libro di Francoforte nel 2015 (quasi il 40% di dirigenti e professionisti, secondo le statistiche, non legge nemmeno un libro all’anno) sembrerebbe indicatore di un impoverimento culturale da contrastare in sé e in quanto cattivo esempio per chi sogna di fare il manager domani.

L’ampiezza (e non solo la profondità) dello sguardo è cultura salutare per il futuro di un business: la sfida è certamente avere la pazienza di misurare gli effetti di questa ampiezza su un tempo più lungo.

Occorre iniziare a ripensare all’organizzazione, a renderla capace di uno “sguardo nuovo”, sensibile in modo concreto ad accogliere modelli non convenzionali, pronta a modificarsi con le persone e ad accogliere e far tesoro del loro patrimonio culturale.

Questo sguardo nuovo sarà vincente per attrarre e trattenere i nuovi talenti, per generare innovazione attraverso la contaminazione, per generare ambienti di lavoro inclusivi e positivi, per comprendere la necessità di cambiare, ma anche per ispirare e responsabilizzare i collaboratori e – certamente – condividere un futuro da costruire insieme.

Aprite quella porta, c’è il futuro.

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