Non è vero e ci credo. What else?

Qualche mese fa la quinta edizione dell’indagine Ipsos Perils of perception, che esamina il divario tra la realtà e la sua percezione da parte delle persone in 38 paesi di tutto il mondo, posizionava l’Italia all’ultimo posto in Europa e al diciottesimo nel globo. Dalla ricerca è emerso che, oltre a essere istintivamente portati a […]

Qualche mese fa la quinta edizione dell’indagine Ipsos Perils of perception, che esamina il divario tra la realtà e la sua percezione da parte delle persone in 38 paesi di tutto il mondo, posizionava l’Italia all’ultimo posto in Europa e al diciottesimo nel globo.

Dalla ricerca è emerso che, oltre a essere istintivamente portati a percepire la realtà in modo assai peggiore di quanto non lo sia davvero, l’opinione degli italiani su molti fenomeni o trend è spesso clamorosamente sbagliata. A volte basandoci sul sentito dire, altre fidandoci troppo del potenziale del nostro “spannometro” personale, traiamo conclusioni assai lontane dal vero.

Ad esempio siamo convinti che più del 90% dei nostri connazionali sia dotato di smartphone, mentre il dato reale è inferiore al 70%. Allo stesso modo, non abbiamo la percezione del fatto che negli ultimi diciassette anni gli omicidi siano diminuiti quasi del 40%. E potremmo continuare a lungo.

Ma un perfetto esempio in un settore diverso mi è capitato qualche giorno fa, imbattendomi in un interessante articolo su Business Insider il cui titolo ha subito attirato la mia attenzione: si parlava di Amazon, e ho realizzato che anche in questo caso la realtà era assai distante da quanto si potesse pensare.

Il low cost che non paga

Si scopre così che Amazon non solo non produce alcun utile con la divisione retail, ma che addirittura genererebbe perdite per due miliardi di dollari se il business non fosse compensato dalla vera fonte di guadagno: i servizi cloud. O, in parole povere, l’affitto di server online.

Evidentemente l’altissimo valore di Amazon sul mercato dei listini è in gran parte fondato sulle ulteriori aspettative di crescita, così alte da giustificare una capitalizzazione superiore di tre volte al fatturato (a fronte di una media nettamente inferiore dei competitor), e soprattutto di quasi cento volte l’EBIT, il risultato ante oneri finanziari (mentre quella media dei competitor è di circa dieci volte).

In estrema sintesi, l’idea che Amazon distruggerà la stragrande maggioranza dei player operanti nel mondo del retail non è nient’altro che l’ennesima percezione errata.

Amazon è percepito dai più esclusivamente come un negozio on line, una modalità efficace di acquisto che permette di risparmiare tempo e denaro, e non come un modello di business diverso del quale la commercializzazione e distribuzione di prodotti è solo la parte più visibile.

In realtà questo modello è applicato con successo con sfumature diverse anche da Skype o Bloomberg, che offrono multi side platform gratuitamente o a costi irrisori per portare gli utenti sulle loro piattaforme, e successivamente proporre loro servizi aggiuntivi che costituiscono il vero business della società.

Ma questo modello di business, e quello di Amazon in particolare, ha una conseguenza che impatta più di ogni altra sul mercato tradizionale: comunica una serie di informazioni inconsapevolmente distorte. Il cliente medio formula una semplice equazione: se compro su Amazon il prodotto costa meno, ergo il resto del mondo del retail non solo è più caro, ma si arricchisce indebitamente alle mie spalle. Peccato che il retail tradizionale, anche quando si serve della vendita online, si sostenta esclusivamente con la vendita dei prodotti, non avendo possibilità di cross selling così spinte.

Per questo motivo molti piccoli e grandi marchi del settore hanno dovuto correre ai ripari cercando di spostare il focus dal prezzo, dove non avevano possibilità di competere, ad altri ambiti, alzando la qualità del servizio o puntando sulla customer experience emozionale del cliente.

George, what else?

Un altro esempio di distorsione della realtà è rappresentato dal caso Nespresso. Qualche anno fa, durante una conversazione, mi fu chiesto di rispondere a un semplice quesito: ipotizzando che il mercato delle cialde di caffè sia in mano a due sole aziende, Lavazza e Nespresso, come pensavo che fosse ripartito in percentuale? Naturalmente sbagliai la risposta, e non di poco.

Il mercato delle cialde era allora saldamente in mano a Lavazza, ma la mia percezione, grazie all’efficace campagna di comunicazione, mi indusse in errore. Clamorosamente.

Ma il grande potere della percezione è quello di rappresentare una realtà diversa, alla quale crediamo così tanto da farla diventare un motore che trasforma la stessa realtà, fino a farla assomigliare al modo in cui era stata percepita. In quel periodo, i primi spot di George Clooney, icona della dolce vita e dello charme, la nascita dei negozi ad altissima customer experience, innovativi per design e qualità del servizio, e la visione del cliente al centro – come un vero VIP – riuscirono a trasmettere l’immagine di un prodotto top di mercato.

Pochi sanno, però, che nella realtà il gruppo Nestlè aveva creato la startup Nespresso nel lontano 1986, sviluppando un progetto a lungo termine che solo dopo parecchio tempo li avrebbe portati a produrre utili e a posizionarsi dove la percezione dei consumatori li pensava da tempo.

Credo, ergo est

Nel quotidiano, il lato più positivo delle realtà soggettive e intersoggettive – e delle percezioni associate – è quello che ci permette di credere che stiamo davvero comprando un biglietto per un volo low cost.

La realtà oggettiva, invece, dopo aver aggiunto la scelta del posto, l’imbarco prioritario, comprato una bottiglietta d’acqua e pagato un extra per farsi salutare dalla hostess appena salito a bordo, mi dice che per essere davvero low cost dovrei viaggiare qualificandomi come il bagaglio a mano di un altro passeggero.

 

Photo by Mark Mathosian [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr

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