Perché solo i rider hanno una coscienza di classe?

L’amicizia tra un rider e un giovanissimo cliente nel segno della solidarietà tra i lavoratori più sfruttati dell’era digitale. Recensiamo “Le balene mangiano da sole, romanzo di Rosario Pellecchia.

Succede che un dodicenne cerchi la compagnia di un ragazzo più grande di lui; ma che un ventitreenne cerchi l’amicizia di un dodicenne è decisamente strano.

Il fatto è che un po’ tutto quello che riguarda Gennaro, detto Genny, è strano. Napoletano triste, laureato in design al Politecnico di Milano, vive una sorta di periodo sabbatico, prima di affrontare la laurea specialistica. In attesa di superare il trauma della morte di una fidanzata condivide un miniappartamento con Kalidou, un collega senegalese, e fa il rider. Uno di quelli che recapitano cibo in bicicletta portando uno scatolone cubico sulle spalle. Ed è durante una consegna che incontra Luca, il dodicenne milanese che la madre ha lasciato a casa a guardarsi la partita del Napoli, con i soldi per ordinare pollo fritto e patatine a domicilio.

Sarà la comune passione per quella squadra a convincere Genny a violare una norma rigorosa, per i rider, che prevede che il contatto con i destinatari dei recapiti non superi mai gli stretti tempi della consegna.

Le balene mangiano da sole, il romanzo metropolitano sui rider di Rosario Pellecchia

Questo il nucleo della storia che racconta Rosario Pellecchia in Le balene mangiano da sole (Feltrinelli). Del perché Luca tifi per il Napoli, perché tra i due nasca la curiosa amicizia di cui si è detto, del perché si scopra che le balene mangiano da sole e perché finiscano per andare, loro due soli, in trasferta per veder giocare la loro squadra a Napoli accenneremo soltanto.

Quel che bisogna dire è che quel mestiere, che a noi sembra faticosissimo e assai poco affascinante, oltre che poco remunerativo, a Genny piace. L’ha affrontato perché l’amico Kalidou gli ha spiegato che “devi farti il culo, ti pagano una miseria e in inverno in bicicletta fa un freddo pazzesco”, ma è sempre meglio di stare otto ore chiuso in un call center. E a Genny piace perché gli permette di distrarsi dai suoi problemi, perché può incontrare gente sconosciuta e anche immaginare, sulla base della consegna da effettuare, chi incontrerà.

Come succede quando deve recapitare una pizza alla Bismarck, con uova e asparagi (per un napoletano un’eresia), si immagina di trovare un energumeno con la coda di cavallo e si ripromette di fare un’osservazione sarcastica sulla scelta effettuata. Ma gli apre una signora anziana, minuta, che gli racconta che quella era la pizza preferita dal marito morto, e quando lei gli chiede se la pizza alla Bismarck gli piace, lui, intenerito, mente: “Sì, signora, moltissimo”; e incassa una buona mancia.

Gioie (poche) e dolori (molti) dei rider

Un lavoro che sembra autonomo, ma in realtà ha dei risvolti di duro sfruttamento, perché impone molti obblighi e nessuna garanzia. Il rider viene contattato da una app, viene tracciato lungo tutto il percorso, ha tempi regolamentati che vanno rispettati rigorosamente. “Il Grande Fratello non ti perde mai di vista”, e se sullo schermo il puntino si ferma scatta subito l’emergenza e il telefono squilla nel giro di pochi secondi.

Ci sono società che impongono gli orari, e altre che permettono di lavorare quando si vuole. Mentre la bicicletta e lo smartphone se li deve procurare il rider. Quando si è presentato per l’assunzione, Genny ha detto che gli piaceva l’idea di vedere le persone, le facce, le storie: “Le vite degli altri: come nel film”. Ma il manager gli ha spiegato: “La conversazione più lunga che avrà con i suoi clienti sarà di cinque secondi sullo zerbino”.

A Genny però bastano. Quando riceve un’ordinazione di un gelato “pistacchio salato e cioccolato fondente” immagina subito un gruppo di ragazzi, in prevalenza maschi, e ci indovina. Non ci indovina, invece, quando deve recapitare una piadina prosciutto e formaggio e si trova davanti al portone di una chiesa. Il prete lamenta che la volta precedente non c’era abbastanza formaggio, che il cibo è dono di Dio, ma che per colpa dell’uomo alle volte le cose non vanno nel verso giusto.

Una nuova coscienza di classe: quella dei rider

Quando, durante la trasferta a Napoli, Luca sparisce, Genny non sa che pesci pigliare ed è terrorizzato all’idea di dover rispondere alla madre del ragazzino della sua sparizione. È Kalidou a metterlo in contatto con un gruppo di rider napoletani che intervengono subito, fanno ricerche e gli prestano una bicicletta per recuperare Luca. Perché, come una volta accadeva tra chi lavorava in fabbrica, tra i rider c’è una solidarietà che potremmo definire di classe, quella che caratterizza chi vive un disagio sociale e non è preso dalla competitività contemporanea.

Un mondo che risente di una condizione che unisce, invece di dividere, tanto che i rider– almeno in questo romanzo – si trovano anche dopo il lavoro, vanno in pizzeria e si raccontano le vicende più curiose. C’è chi si è visto aprire la porta da un signore magrissimo, in mutande, con dietro una signora grassissima, in mutande anche lei. Chi consegna il pranzo a un ragazzo cieco, che si offende se si cerca di aiutarlo. Chi ha portato una poke a un famoso calciatore e ci si è fatto un selfie insieme. Uno a cui hanno offerto una canna. E uno che sogna ancora una ragazza bellissima, che però non gli ha dato nemmeno la mancia.

A noi continua a sembrare un meccanismo di sfruttamento disumano. Ma sembra proprio vero che, al di là della fatica, sia un mestiere che mette in contatto con le sfaccettature più originali di un’umanità parcellizzata e sola. E lo si scopre pedalando, portando pranzi solitari a eremiti metropolitani che vivono, isolati, tra i milioni di persone che abitano la stessa città.

CONDIVIDI

Leggi anche