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Ama tutto ciò che è comunicazione: lettura e scrittura in primis. La sua attività si orienta su due direttrici: cultura e sport. 
Bookblogger accreditata ai maggiori saloni nazionali dedicati all’editoria, social media manager del Festival del Giornalismo Culturale e di Raccolti Festival, ambasciatrice social per la lettura a “Libri Come” all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Cura presentazioni editoriali in dialogo con gli autori. 
La sua attrazione per i social media si esprime nella produzione di post calibrati per le caratteristiche di ogni piattaforma. Specializzata in live tweet, di cui predilige l’immediatezza come fonte di produzione informativa.
Scrive articoli d’opinione e cronaca sulla testata giornalistica “Formula Uno Analisi Tecnica”, gestendone il profilo Twitter per il racconto live delle dichiarazioni dei protagonisti. Collabora con un quotidiano online locale “InfoVercelli24”, seguendo manifestazioni culturali e i campionati nazionali di hockey pista con cronaca dei match, approfondimenti ed interviste.

Elisa Rubertelli

Ama tutto ciò che è comunicazione: lettura e scrittura in primis. La sua attività si orienta su due direttrici: cultura e sport. Bookblogger accreditata ai maggiori saloni nazionali dedicati all’editoria, social media manager del Festival del Giornalismo Culturale e di Raccolti Festival, ambasciatrice social per la lettura a “Libri Come” all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Cura presentazioni editoriali in dialogo con gli autori. La sua attrazione per i social media si esprime nella produzione di post calibrati per le caratteristiche di ogni piattaforma. Specializzata in live tweet, di cui predilige l’immediatezza come fonte di produzione informativa. Scrive articoli d’opinione e cronaca sulla testata giornalistica “Formula Uno Analisi Tecnica”, gestendone il profilo Twitter per il racconto live delle dichiarazioni dei protagonisti. Collabora con un quotidiano online locale “InfoVercelli24”, seguendo manifestazioni culturali e i campionati nazionali di hockey pista con cronaca dei match, approfondimenti ed interviste.

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Elisa Rubertelli - Informazione senza filtro

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Informazione senza filtro


<p>Da <strong>venerdì 15 ottobre</strong> il ritorno di ufficio di tanti dipendenti della pubblica amministrazione avrà conseguenze sui <strong>trasporti pubblici locali</strong>, dove sarà più difficile mantenere le distanze. Per entrare in ufficio e in quasi ogni altro luogo è necessario munirsi del <strong>Green pass</strong>, tranne che per i mezzi pubblici. La gestione dei flussi e il rispetto del distanziamento si scontrano infatti con un paradosso: è necessario munirsi del certificato verde per i treni a lunga percorrenza, dove è facile limitare i posti prenotabili e dove ognuno ha il suo spazio, ma <strong>non è richiesto per i treni regionali</strong>, quelli utilizzati dai pendolari. Sono i treni più frequentati, soprattutto nelle ore di punta, quando può diventare difficile sedersi, e dove può quindi avere luogo più facilmente il contagio da Coronavirus.</p>



<p>Il motivo di questa differenza è intuibile: sulle tratte brevi, dove a volte non viene controllato nemmeno il biglietto, sarebbe poco pratico richiedere il Green pass a ogni passeggero. Ce lo conferma <strong>Stefano Marchionna</strong>, del Comitato pendolari Gallarate-Milano: “Dopo un anno e mezzo di auto ho iniziato a riprendere il treno dal primo di settembre; <strong>mi hanno controllato </strong>tre volte i documenti,<strong> zero volte il Green pass</strong> e zero volte l’abbonamento”.</p>



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<h2 id="h-il-comitato-pendolari-gallarate-milano-contro-le-incoerenze-di-mezzi-pubblici-e-green-pass">Il Comitato pendolari Gallarate-Milano contro le incoerenze di mezzi pubblici e Green pass</h2>



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<p>Il <strong>Comitato pendolari</strong> esiste da una decina d’anni e raduna i pendolari della principale linea della Lombardia, che unisce le linee che arrivano fino a Domodossola e a Varese. Su quella tratta si muovevano circa <strong>110.000 persone al giorno</strong>, nella situazione pre-pandemica. Il caso lombardo è peculiare non solo per il numero di soggetti coinvolti, ma anche per la presenza di un attore, <strong>Trenord</strong>, società privata detenuta in parte da Trenitalia e presente solo in quella Regione.</p>



<p>“I treni a lunga percorrenza sono a prenotazione e ogni passeggero può essere gestito individualmente, è anche un luogo di lavoro più sereno per i ferrovieri. Sui mezzi a trasporto pubblico locale è molto più difficile, perché si sale e si scende con un biglietto che vale per la tratta, non per il posto”, aggiunge <strong>Andrea Mazzucotelli</strong>, membro del Comitato pendolari, rappresentante del nodo di Saronno.</p>



<p>Il comitato è nato con l’idea di migliorare la situazione dei pendolari tramite la richiesta di un aumento dei treni, essendo una delle tratte più stressate, dove passano anche gli Eurostar che vanno in Svizzera, il nuovo collegamento fino a Malpensa, i treni merci.</p>



<p>Il problema, secondo Marchionna, è che non è più possibile aumentare l’offerta dei treni perché <strong>gli slot di percorrenza sono occupati</strong>. “L’opera del nostro comitato è stata quella di insistere su un progetto di raddoppio della linea fra Rho e Parabiago, per decongestionare la linea attuale”. La pandemia, però, ha esacerbato i problemi relativi alla congestione dei treni, in quanto luoghi di possibile contagio.</p>



<p>“In pre-pandemia, ogni mattina viaggiavo in treno su un singolo piede, col viso a 10 cm da quello del volto di un altro, per oltre mezz’ora e senza mascherina”, racconta Marchionna. “<strong>Tutto quello che poteva aiutare il diffondersi del virus, questa Regione lo aveva</strong>”. Questo potrebbe essere proprio uno degli elementi che hanno fatto della zona di Milano uno dei centri di diffusione maggiori nel gennaio 2020.</p>



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<h2 id="h-trenord-disinveste-dai-treni-perch-gestisce-anche-un-autostrada">“Trenord disinveste dai treni perché gestisce anche un’autostrada”</h2>



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<p>I membri del comitato lamentano dei tagli alle corse, che non sono ancora state ripristinate ai livelli del 2018. Secondo loro, Trenord sta seguendo una <strong>politica di disinvestimento</strong> riguardo i suoi treni: avendo acquistato un anno fa la maggioranza dell’autostrada Milano-Serravalle, per loro decongestionare il traffico ferroviario significa spingere su quello su gomma.</p>



<p>“Non c’è ancora un sovraffollamento come in pre-pandemia, dove la situazione era al collasso”, afferma Marchionna. “Ora solo nell’ultima stazione prima di Milano restano in piedi. Se però avvengono dei <strong>guasti</strong> perché ci sono <strong>treni vecchi</strong>, perché la Regione Lombardia ha abbandonato Trenord a sé stessa, i <strong>sovraffollamenti</strong> sono scontati”.</p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile" style="grid-template-columns:21% auto"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="498" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/immagine_2021-10-18_101436-498x1024.png" alt="" class="wp-image-46767 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p>I problemi della compagnia sono dimostrati anche dalle <strong>proteste dei lavoratori</strong>: dall’inizio dell’anno ci sono stati sei scioperi, pare non ci sia dialogo fra azienda e dipendenti. “C’è una contrapposizione totale fra sindacati e Trenord. Noi del Comitato abbiamo parlato con i ferrovieri, perché il problema è della società”.</p>



<p>Con la riapertura delle scuole gli <strong>studenti</strong> sono tornati a prendere il treno, e questo aumenta la percentuale di posti occupati. “Il treno che da Gallarate va verso Milano si svuota a Busto Arsizio, perché c’è un liceo scientifico molto frequentato. Mancano ancora molti universitari. Quando il 15 gli statali torneranno tutti in ufficio si vedrà”, dice Marchionna.</p>
</div></div>



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<h2 id="h-non-vogliono-migliorare-il-servizio-ma-il-costo-del-biglietto-sale">“Non vogliono migliorare il servizio”, ma il costo del biglietto sale</h2>



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<p>Quindi, quale può essere la soluzione? Sappiamo che non è possibile controllare tutti i Green pass, perché sarebbe necessaria una grande quantità di personale su ogni treno. Perché non ricorrere a un <strong>sistema automatico</strong>?</p>



<p>Quelli del Comitato ci hanno pensato: “Il problema è che in Lombardia <strong>in nessun modo viene contingentato l’accesso ai treni</strong>, come invece avviene nella metropolitana. Questa è una cosa che il Comitato sta chiedendo da anni, e avrebbe evitato i disagi di chi non prende il biglietto e porta all’intervento della Polfer, di chi cade o si butta sulle rotaie. Oggi sarebbe stato doppiamente utile per la questione Green pass: sarebbe bastato abbinare il pass all’abbonamento, ma è un investimento che ha dei costi e <strong>loro non vogliono migliorare il servizio</strong>”.</p>



<p>“Ma perché io, pendolare pagante, dovrei <strong>cedere il mio posto a un passeggero a scrocco?</strong>”, si chiede Marchionna. “Perché devo mettere a rischio la mia salute quando la congestione dei treni è causata anche da soggetti che occupano i corridoi perché nessuno controllerà mai loro il biglietto? Tutto questo sarebbe sempre servito, e ora col Green pass ce ne accorgiamo. Eppure non sarebbe difficile, le tessere magnetiche sono ormai ovunque. Ora coi telefoni e la tecnologia NFC non servirebbe neanche una tessera ad hoc”.</p>



<p>Insomma, l’impossibilità di restringere l’uso dei treni unicamente ai possessori del Green pass non è che un effetto della mancata volontà di gestire i flussi. Se fosse stato fatto, ora sarebbe possibile applicarlo ovunque. Ironicamente, <strong>il costo dei biglietti è aumentato</strong>: “Per l’adattamento dell’inflazione, ora il biglietto è aumentato di dieci centesimi. Per andare e tornare da Milano devo spendere 8 euro e 20. <strong>Stanno incentivando tutti ad andare in macchina</strong>”, dice Marchionna.</p>



<p>Inoltre bisogna considerare che i tanto demonizzati mezzi pubblici non sono l’unico luogo a rischio di contagio, e per tutti gli altri sono state prese delle precauzioni. “Non posso negare che i mezzi pubblici siano un centro di pericolo, ma mentre i ristoratori protestavano, quando nei loro locali è indispensabile togliersi la mascherina, i treni e gli autobus avrebbero dovuto ricevere una valutazione più serena”, afferma Mazzucotelli. “Ovviamente c’è un problema, ma l’antipatia recondita degli italiani per i mezzi pubblici ha solo creato più traffico sulle strade”.</p>



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<h2 id="h-la-situazione-dal-15-ottobre-trenord-blocca-le-ferie-per-gestire-i-dipendenti-senza-green-pass">La situazione dal 15 ottobre: Trenord blocca le ferie per gestire i dipendenti senza Green pass</h2>



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<p>Nell’attuale situazione, però, non solo il Green pass non è possibile, ma non è nemmeno auspicabile. Come fa notare il rappresentante del nodo di Saronno, <strong>imporre il Green pass</strong> anche in questi mezzi potrebbe essere un problema perché <strong>disincentiverebbe a usarli</strong>: a quelli che non prendono il treno per paura del contagio si sommerebbero quelli che non riescono a gestire la prenotazione. Su un Frecciarossa, invece, la situazione è completamente diversa.</p>



<p>“I volumi non sono ancora pre-pandemia, ma nelle tratte dei pendolari si stanno già verificando dei casi di affollamento. I casi peggiori sono quelli dei <strong>treni internazionali-regionali</strong> che vanno da Milano a Locarno per alcuni problemi tecnici che portano talvolta al dimezzamento dei vagoni occupabili”, spiega Mazzucotelli.</p>



<p>Quindi, cosa succederà il 15? Quello che sappiamo è che <strong>Trenord</strong> vuole prevenire le assenze dei lavoratori sprovvisti di Green pass, e <strong>ha bloccato le ferie dei dipendenti</strong> per gestirli in modo più libero, così da correre ai ripari in caso di assenze. Difficile dire se basterà: senza ferrovieri i treni non partono e quelli che restano saranno più affollati, il che potrebbe innescare una spirale negativa.</p>



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<p><em>Photo credits: ketk.com</em></p>


Il Comitato pendolari Gallarate-Milano: &#8220;Green pass? Trenord disinveste da anni, altro che controlli&#8221;


<p>Nel giorno in cui l’Italia si continua a fratturare tra i sì e i no del Green Pass, tra le sigle violente con cui ormai qualsiasi gesto viene ricondotto ad appartenenze generaliste e, soprattutto, nel giorno in cui scioperi annunciati riempiono la legittimità delle strade, l’editoriale che sto iniziando a scrivere racconta, piuttosto, <strong>qualcosa che unisce</strong>.</p>



<p>Un festival è di per sé un momento collettivo perché chiama all’appello le persone.</p>



<p><strong>Nobìlita</strong> questo fa da quattro anni: sul palco mescola saperi, generazioni, geografie, mestieri, scenari, paure e progetti.</p>



<p>Nobìlita non è un convegno, non è un congresso.</p>



<p><strong>Nobìlita è una piazza libera anche se ha la forma di un palco e i palchi dell’edizione 2021 sono ben tre: Ivrea, Imola, Bari, e un&#8217;Italia che si cuce da nord a sud.</strong></p>



<p>Quello che non troverete dentro gli articoli di questo mensile sono frasi che mi sono appuntata velocemente mentre ascoltavo gli interventi dei relatori nelle diverse città. Frasi trascritte di corsa perché hanno avuto la prontezza di venirmi incontro meglio di altre o forse, semplicemente, di esser dette nel modo giusto.</p>



<p>Le trascrivo senza commento per non creare condizionamenti o vie di fuga.</p>



<p>Sono quattro frasi secche che raccontano alcuni nodi dell’Italia 2021 senza scadere in polemiche, giudizi, disaffezione. <strong>Un festival che funziona è quello che ha qualcosa di impellente da dire e che, nel farlo, ti prende per mano fino all’ostacolo successivo, una sorta di cane guida per non vedenti.</strong></p>



<p><em>“È tempo di impadronirsi dei doni del nostro tempo: il digitale è il nuovo ascensore sociale”</em></p>



<p><strong>Massimo Russo, Direttore Esquire Italia</strong></p>



<p><em>“Qui stiamo correndo il rischio dell’efficientismo politico”</em></p>



<p><strong>Alessandro Gilioli, Direttore Radio Popolare</strong></p>



<p><em>“Abbiamo bisogno, ormai, di città con servizi commerciali e con servizi umani”</em></p>



<p><strong>Cleto Corposanto, Sociologo</strong></p>



<p><em>&#8220;La sicurezza del lavoro interessa a pochi in Italia. Alla fine conta di più la tragedia raccontata, la morbosità sulle vite private sbattuta in prima pagina&#8221;.</em></p>



<p><strong>Claudio Micalizio, Direttore Radio Roma</strong></p>



<p>Il viaggio di Nobìlita si chiude a Bari il 26 ottobre per una tappa interamente dedicata ai giovani, agli studenti, al mondo universitario e all’orientamento al lavoro: per chi cerca piazze e non conflitti.</p>



<p><strong>www.nobilitafestival.com</strong></p>



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<p><em>Photo credits: Domenico Grossi. Officina H, Ivrea</em></p>


Editoriale 106. Un palco per il lavoro

<p>Già dal titolo di questo romanzo di <strong>Hiroko Oyamada</strong>, <strong><em>La fabbrica</em></strong> (edito da Neri Pozza), si comprende quanto il tema del lavoro costituisca le fondamenta dell’opera della scrittrice giapponese.</p>
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<h2 id="h-la-fabbrica-lo-straniamento-diventa-un-dramma-anodino"><em>La fabbrica</em>: lo straniamento diventa un dramma anodino</h2>
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<p>Il racconto è condotto da <strong>tre voci narranti</strong>, appartenenti a due uomini e una donna di età ed estrazione sociale diverse, il cui percorso di vita trova uno sbocco comune proprio nell’<strong>impiego nella fabbrica</strong>. Non si tratta, però, di uno stabilimento più o meno esteso come si potrebbe pensare, bensì di uno spazio sterminato, una sorta di mondo a parte, in cui chi vi lavora svolge le mansioni più diverse, con una varietà analoga a quella presente nella società umana.</p>
<p>Yoshio è un <strong>ricercatore universitario</strong> che si trova a lavorare in questo contesto controvoglia, inviato dal proprio ateneo: gli verrà chiesto di occuparsi di un progetto sperimentale di lungo respiro su cui godrà di un’assoluta autonomia decisionale.</p>
<p>Diversa, se non opposta, la natura delle mansioni degli altri due personaggi: Yoshiko, <strong>ventenne di belle speranze</strong>, sarà invece assegnata a un impiego dalle caratteristiche impersonali e meccaniche. Infine, Ushiyama svolgerà compiti di <strong>correttore bozze</strong> in un contesto anomalo, ossia senza nessun feedback e continuità argomentativa e semantica dei testi esaminati.</p>
<p>Al contrario, unico sarà l’approdo di queste esperienze: un progressivo e fagocitante senso di <strong>straniamento</strong> derivato dal lavoro.</p>
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<h2 id="h-l-appiattimento-individuale-degli-operai-si-ci-che-si-fa">L’appiattimento individuale degli operai: si è ciò che si fa</h2>
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<p>Nelle prime fasi del romanzo, l’autrice rende bene il vissuto intriso di novità, l’attesa mista ad ansia e speranza che tutti noi proviamo di fronte a un nuovo impiego. Per i personaggi si tratta di un cambio di pelle che impatta tanto sulla percezione di se stessi in relazione al mondo quanto sulla propria autostima. Come detto, però, gli sviluppi saranno a tinte fosche.</p>
<p>Infatti <strong>l’unica entità vera del libro è la fabbrica</strong>: tempo e spazio nel racconto sono frammentati e dalla precaria concretezza; persino le stesse voci narranti non raggiungono una vera profondità. I loro lavori sono spersonalizzanti, non elevano o valorizzano. Più si procede nella lettura e più è come se gli individui sfumassero, inghiottiti dal corpo immenso della fabbrica che li omologa, annullandone le peculiarità.</p>
<p><strong>Qui si è ciò che si fa</strong>: tutto l’enorme quantitativo di personale è classificato anche visivamente, grazie al <strong>diverso colore dei cordini porta badge</strong>, in base a compito e livello di assunzione. Nonostante la cura degli ambienti e il piacevole aspetto da mondo accogliente e attento alle esigenze dei propri dipendenti, la fabbrica ha elementi in comune con un campo di lavoro che li divide in caste. La persona non è una risorsa, ma un banale ingranaggio di un tutto sconfinato e incredibilmente vario.</p>
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<h2 id="h-una-prosa-monocorde-e-funzionale-al-grigiore-della-fabbrica">Una prosa monocorde e funzionale al grigiore della fabbrica</h2>
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<p>La <strong>narrazione</strong> della Oyamada diventa veicolo e specchio di tutto ciò: è <strong>piatta</strong>, <strong>piana</strong>, <strong>priva di slanci</strong>. Si fa resoconto dei pensieri dei tre personaggi sugli incarichi compiuti e da svolgere, rendendone plasticamente la dimensione di intrappolati in una routine che avvelena. Nei loro asfittici compiti l’individualità non è mai prevista, e quindi non può trovare espressione nemmeno tramite il loro stesso racconto.</p>
<p>Ognuno, prima o dopo, metterà in discussione non solo il senso di ciò che sta facendo come lavoratore, ma andrà oltre. <strong>La fabbrica</strong>, infatti, <strong>mina l’identità nel profondo</strong>, corrodendola goccia dopo goccia in modo inesorabile. Non è un caso se nel libro gli unici segnali di vita sono le pochissime <strong>anomalie</strong> che sfuggono al sistema; si tratta di comparse assai fugaci, a volte contraddistinte da tratti disturbati e disturbanti, ma sufficienti a evidenziarsi per contrasto, rendendo ancora più grigio il quadro generale.</p>
<p>Voluti sono anche la somiglianza e il rimando fra nomi e cognomi dei tre, che rafforzano l’appiattimento del singolo in favore di una massa simile.</p>
<p><strong>Un personaggio fa da collante</strong> alle voci narranti: le sue funzioni di guida, supervisore e coordinatore inizialmente gli consegnano un ruolo autorevole. Anche qui, però, la verità smentirà in fretta questa impressione: egli, attraverso approcci e direttive verso i tre lavoratori, espliciterà, incarnandoli, gli assurdi e grotteschi paradossi della fabbrica.</p>
<p>Assolutamente da rimarcare anche l’uso evocativo e simbolico che la Oyamada fa della <strong>natura</strong>, elemento che sottolinea la coesione dell’universo-fabbrica e che carica ulteriormente il racconto di scollamento dalla realtà.</p>
<p>Parlando dell’esperienza di lettura, durante buona parte della trama <strong>ci si attende sviluppi più concreti della vicenda</strong>; un’aspettativa che resta in parte delusa perché tutto si gioca su un livello diverso, più impalpabile e simbolico. Se, da un lato, questo è funzionale al condurci in una dimensione quasi onirica, dall’altro c’è il rischio di perdersi in un racconto che non decolla del tutto dal punto di vista narrativo.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-la-fabbrica-di-hiroko-oyamada">Perché leggere <em>La fabbrica</em> di Hiroko Oyamada</h2>
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<p>Si tratta di un romanzo che dipinge in maniera fedele le pesanti conseguenze personali e sociali di un mondo eventuale, ma anche inquietantemente futuribile, in cui <strong>l’uomo si trovi a valere assai meno del lavoro che svolge</strong>.</p>
<p>Tramite la loro scarsa caratterizzazione, il libro mostra e restituisce l’immagine desolante di <strong>persone piatte, intercambiabili</strong>, piccole e tremendamente uguali di fronte all’entità della fabbrica che tutto contiene, prevede e conosce. Oyamada tratteggia il processo per cui, accettando un lavoro in un contesto simile, si demanda a un’autorità vaga ma potentissima la totalità della propria esistenza. L’autrice riesce anche a far sentire il lettore totalmente perso come i suoi personaggi, talvolta facendogli porre le loro medesime domande.</p>
<p>Insomma: un libro che richiede la capacità di sopportarne il buio, che crea un universo freddo come avvertimento e ammonimento, affinché quel costrutto narrativo non si realizzi mai del tutto nella vita vera.</p>


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Se i romanzi sulla fabbrica sono una fabbrica di romanzi

Una prosa monocorde lega tre voci narranti nell&#8217;appiattimento di uno stabilimento produttivo giapponese. Recensiamo &#8220;La fabbrica&#8221; di Hiroko Oyamada.

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Il mensile 106 di <em>SenzaFiltro</em>, “Un palco per il lavoro”, ispirato ai contenuti del festival Nobìlita 2021.

Numero 106 - Un palco per il lavoro


<p>Nei mesi scorsi la pandemia ha imposto l’organizzazione del <strong>lavoro da remoto</strong> per tantissime aziende e istituzioni pubbliche nel mondo. Il tutto etichettato sotto una generica definizione di smart working, anche quando di questo non si trattava. In Italia il lavoro da casa è diventato realtà per <strong>8 milioni di persone durante il lockdown</strong>, mentre pre-pandemia interessava solo 500.000 persone (dati CGIL 2020).</p>



<p><strong>Quali sono gli effetti di questo incremento?</strong> Un’analisi della Fondazione Studi Consulenti del lavoro ha sottolineato i limiti e le problematiche della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori cosiddetti agili durante il periodo del lockdown. Un <strong>impatto negativo</strong> che avrebbe lasciato il segno sia a livello fisico che psicologico: il 48,3% degli intervistati ha dichiarato infatti disturbi e problemi fisici legati all’inadeguatezza delle postazioni domestiche, e ben il 49,7% ha lamentato un aumento dei livelli di stress e ansia da prestazione prodotti da questa modalità di organizzazione del lavoro.</p>



<p>Si tratta di effetti dovuti solo alla pandemia? Oppure, a prescindere, <strong>lo smart working può avere anche degli impatti negativi sulla salute</strong> (soprattutto psicologica), oltre agli aspetti positivi che gli vengono generalmente attribuiti?</p>



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<h2 id="h-il-lavoro-da-remoto-e-le-sue-patologie">Il lavoro da remoto e le sue patologie</h2>



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<p>Anche prima della pandemia era aperto un <strong>dibattito sugli effetti del lavoro agile</strong>, seppur spesso sbilanciato verso gli aspetti positivi, riguardanti ad esempio l’aumento della produttività e la riduzione dei costi per le aziende, o i miglioramenti in termini di conciliazione tra lavoro e vita privata e di riduzione degli impatti ambientali.</p>



<p>Le ricerche dagli anni Novanta in poi in realtà non sono sempre state concordi a riguardo, come puntualizza un’analisi del 2019 di Albano, Parisi e Tirabeni, soprattutto per quanto riguarda gli effetti psicologici di questa modalità di organizzazione del lavoro, come indicano anche vari studi tra cui quello dell’European Working Condition Survey del 2017.</p>



<p>Come sostenuto dal Consiglio Nazionale degli ingegneri in Italia, in numerosi Paesi dell’Unione Europea, in cui la diffusione dello smart working è storicamente più radicata che in Italia, la manifestazione di questa <strong>sorgente di rischio di stress lavoro-correlato</strong> è stata rilevata più volte.</p>



<p>Oltre ad aver confermato che esistono categorie di lavoratori più esposte al rischio di <strong>tecnostress</strong> (come le professioni che rientrano nell&#8217;area STEM o quelle della comunicazione), sono state individuate diverse <strong>patologie causate dal lavoro da remoto</strong>, come ipertensione, attacchi di panico, depressione, insonnia, calo della concentrazione, disturbi gastrointestinali e cardiocircolatori, cervicalgia e sensazione di vertigine, disturbi dell&#8217;alimentazione e carenze nutritive, alterazioni comportamentali, e infine disturbi della sfera emotiva e relazionale.</p>



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<h2 id="h-di-smart-working-ci-si-ammala-la-fatica-da-iperconnessione-e-altri-mostri">Di smart working ci si ammala. La fatica da iperconnessione e altri mostri</h2>



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<p>Secondo <strong>Nicola Zamperini</strong>, giornalista e consulente&nbsp;per le strategie digitali di aziende e istituzioni, se da un lato è innegabile che il lavoro da remoto porti grandi vantaggi per lavoratori, imprese e comunità, è anche vero che genera molti problemi se non gestito in maniera adeguata.</p>



<p>“Basta pensare alla <strong><em>Zoom fatigue</em></strong>, la fatica da iperconnessione, che nasce dalla relazione mediata dalla tecnologia che il lavoratore ha con la propria comunità professionale. Il lavorare e l’avere interazioni con gli altri in assenza di corpo porta le persone a sostenere un costo in termini di <strong>fatica cognitiva</strong>. Quando siamo connessi per molte ore in riunioni online il nostro cervello registra che non ci stiamo relazionando fisicamente con gli altri. L’occhio, ad esempio, ricerca sempre noi stessi nello schermo, proprio per avere una conferma della nostra esistenza. A questa assenza si sommano poi tanti altri elementi di fatica, come il senso di isolamento, o il fatto che spesso il tempo della connessione travalica il normale orario di lavoro.”</p>



<p>Quello che Zamperini auspica è uno <strong>sforzo congiunto di più soggetti</strong> (lavoratori, imprese, manager, la politica, sindacati, psicologi e medici del lavoro), che si impegnino per riflettere non solo sulle potenzialità del lavoro da remoto e sui modi per incentivarlo, ma anche sull’analisi degli elementi problematici e soprattutto sulla <strong>comprensione dell’elemento tecnologico</strong>: “Non si deve solo conoscere il funzionamento degli strumenti a disposizione, ma anche il linguaggio, la grammatica, e soprattutto gli<strong> effetti</strong> <strong>sull’essere umano</strong>”.</p>



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<h2 id="h-a-chi-tocca-curare-il-benessere-dei-lavoratori-da-remoto">A chi tocca curare il benessere dei lavoratori da remoto</h2>



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<p><strong>Vittorio Agnoletto</strong>, docente e medico del lavoro, esprime un parere simile a quello di Zamperini. Anche se il remote working che abbiamo sperimentato durante il lockdown non corrisponde allo smart working che può essere fatto in condizioni normali, se quest’ultimo deve diventare uno scenario futuro nel Paese, secondo Agnoletto è necessario considerarne aspetti positivi e negativi, al fine di prevenire patologie individuali e sociali. La medicina del lavoro e la disciplina della tutela della sicurezza devono riflettere su questi temi, e dare le risposte anche operative che oggi mancano per tutelare il <strong>benessere psicofisico dei lavoratori</strong>.</p>



<p>La normativa sullo smart working riconosce il tema dei <strong>rischi</strong> – intensificazione dei ritmi, iperconnessione, <em>overworking</em>, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero, isolamento, incapacità di gestire spazi/tempi lavorativi e non – e ha previsto che <strong>il datore di lavoro si adoperi</strong> per fare in modo che il lavoratore non subisca questi effetti negativi. Tuttavia vanno risolte ancora molte questioni: “<strong>Non sono ancora chiari diversi aspetti operativi</strong>, come a chi spetti il costo dell’organizzazione della postazione di lavoro, o chi dovrebbe occuparsi dei controlli nelle abitazioni del rispetto delle misure di sicurezza previste per legge (con particolare riferimento al ruolo dei lavoratori RLS)”.</p>



<p>Quello che sembra necessario oggi per Agnoletto è sopperire alla mancanza di dati in Italia per valutare <strong>l’impatto dello smart working in una situazione non pandemica</strong>. Informazioni che servirebbero non solo per quantificare le patologie in campo psichico-psicologico, ma anche per individuarne le differenze rispetto alle patologie che si sviluppano normalmente nel posto di lavoro in presenza.</p>



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<h2 id="h-costi-gi-ma-addio-alla-condivisione-il-gioco-dello-smart-working-vale-la-candela">Costi giù, ma addio alla condivisione: il gioco dello smart working vale la candela?</h2>



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<p>Un altro importante tema di indagine per Agnoletto riguarda il <strong>risparmio delle aziende</strong>.</p>



<p>“Lo smart working porta delle riduzioni dei costi importanti: riduzione degli spazi dei locali, diminuzione di macchinari e servizi di ristorazione; le forme di risparmio sono tante. Sarebbe utile <strong>uno studio che quantifichi questi risparmi </strong>e che valuti <strong>come</strong> <strong>reinvestirli</strong> per favorire il benessere dei lavoratori.”</p>



<p>Agnoletto solleva inoltre il tema della condivisione delle problematiche vissute tra i lavoratori e dell’impegno del <strong>sindacato</strong> su questi temi. “Andare al lavoro vuol dire <strong>socializzare</strong>, mentre non possiamo dimenticarci che <strong>lo smart working è invece atomizzazione del lavoro</strong>. La consapevolezza della propria condizione nasce dalla condivisione con altri, su cui si fonda poi il lavoro del sindacato. Se dovessimo andare verso una società tutta di smart working (per i lavori in cui ciò è possibile) sarebbe un problema, poiché verrebbero meno quelle relazioni che favoriscono l’aggregazione di bisogni collettivi”.</p>



<p>Diverso sarebbe invece puntare a un <strong>modello ibrido</strong> (smart working e lavoro in presenza insieme), che secondo Agnoletto permetterebbe di arginare i rischi e gli impatti negativi di questa modalità di organizzazione del lavoro, mantenendone gli aspetti postivi (meno traffico, meno affollamento nei mezzi pubblici, miglior gestione del tempo personale, etc.).</p>



<p>Altrimenti il rischio che si corre, secondo Agnoletto, è quello di avere <strong>una situazione simile a quella delle partite IVA individuali</strong>, nate per favorire un modello di flessibilità e che invece si sono trasformate in molti casi in <strong>mancanza di tutele</strong> (pensionistiche, sanitarie) o in false partite IVA che svolgono di fatto lavori dipendenti.</p>



<p>Sembra quindi necessario non solo intensificare gli sforzi di analisi e raccolta dati legati agli impatti dello smart working, ma anche favorire un dibattito quanto più possibile aperto all’interno della medicina del lavoro e della disciplina per la sicurezza e la salute dei lavoratori.</p>



<p>Le innovazioni tecnologiche che consentono lo smart working, come già segnalato, hanno un grande potenziale in termini di effetti positivi. Tuttavia il significato che possono acquisire dipende dal <strong>progetto di evoluzione sociale</strong> che si vuole realizzare. Il rischio è non solo di generare esternalità negative che peseranno sulla salute delle persone e della comunità, ma anche di fare un irrimediabile passo indietro nel campo della medicina e della sicurezza sui luoghi di lavoro.</p>



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<p> <em>L&#8217;articolo prende spunto dal panel &#8220;Quanto costa la sicurezza&#8221;, che puoi seguire cliccando</em> <em><a href="https://fb.watch/8EX1bZbChB/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a>.</em></p>


Patologie del lavoro da remoto: chi rompe e chi paga?


<p><strong>Quello che le aziende non vogliono, i giovani scelgono</strong>: questo è quanto emerge dall&#8217;incrocio dei dati tra le ricerche di lavoro e le iscrizioni all&#8217;università.</p>



<p>È come se tra i due mondi che dovrebbero essere contigui ci fosse una barriera difficile da oltrepassare, che con il passare degli anni è diventata sempre più alta. Un anno e mezzo di pandemia ha profondamente modificato le esigenze del lavoro, ma i desiderata dei diplomati italiani continuano a muoversi su altri binari che sembrano lontani dalla realtà, come spesso segnalano gli stessi responsabili delle risorse umane delle aziende.</p>



<p>Secondo i dati forniti dal Censis sulle <strong>iscrizioni all&#8217;università</strong> i percorsi di studio dell’<strong>area economica-giuridica-sociale </strong>sono quelli che attraggono la quota maggioritaria di immatricolati (il 34%), seguiti dai percorsi <strong>STEM</strong> (Science, Technology, Engineering and Mathematics) scelti dal 29,9% dei nuovi iscritti. Accolgono, infine, quote di studenti sotto la soglia del 20% l’area disciplinare <strong>sanitaria</strong> e <strong>agro-veterinaria</strong> (16,3%) e <strong>artistica-letteraria-insegnamento</strong> (19,8%). Quest’ultima, con il 77,7% di studentesse immatricolate, è l’area disciplinare con il tasso di femminilizzazione più elevato.</p>



<p>All’opposto, nell’area disciplinare STEM l’universo femminile è rappresentato da una quota che, pur incrementandosi di anno in anno, resta ancora minoritaria (il 39,4%). Il richiamo della finanza, nonostante nell&#8217;ultimo anno gli istituti di credito abbiano operato pesanti riduzioni e tagli, è ancora forte. Al contrario il mondo digitale sembra attrarre meno del dovuto i millennial, che pure sono la prima generazione di nativi digitali. Resiste ancora il fascino dell&#8217;avvocato, mentre quella del medico, complici anche i numeri chiusi delle università, è una professione che attira sempre meno studenti.</p>



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<h2 id="h-le-lauree-che-danno-pi-lavoro-nel-2021-cercasi-medici-infermieri-e-informatici">Le lauree che danno più lavoro nel 2021: cercasi medici, infermieri e informatici</h2>



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<p>Eppure il mondo delle professioni e dell&#8217;impresa manda segnali contrastanti. Da un&#8217;indagine svolta nel primo semestre del 2021 tra le agenzie per il lavoro risulta che <strong>il tipo di impiego più ricercato</strong> è quello di <strong>sviluppatore front end</strong>, cioè un programmatore specializzato nello sviluppo della parte esterna di siti e di applicazioni. I primi posti della classifica sono occupati dall&#8217;informatica (software engineer, java software engineer, project manager IT e digital, sistemisti e ingegneri di sistema).</p>



<p>Ci sono poi i sempreverdi <strong>progettisti meccanici</strong> e <strong>ingegneri elettromeccanici</strong>, e solo al settimo posto della graduatoria arrivano le professioni che hanno a che fare con l&#8217;<strong>area economico-sociale </strong>(account manager, responsabili rapporti commerciali, specialisti in e-commerce e responsabili amministrativi contabili), che è la più scelta dai ragazzi che si iscrivono all&#8217;università.</p>



<p>Se le agenzie per il lavoro rimandano un&#8217;immagine forse troppo legata alle <strong>dinamiche delle aziende private</strong>, i dati di Assolavoro non si differenziano molto. Se non per il primo posto, occupato dalle ricerche di infermieri qualificati, seguiti da tecnici di laboratorio, specialisti sanitari e medici, che sono professioni diventate tristemente d&#8217;attualità nel corso dell&#8217;ultimo anno e mezzo.</p>



<p>Prima di arrivare agli impieghi che provengono dall&#8217;area economico-sociale, ci sono i sempre presenti analisti software, sistemisti e tecnici di rete. Con una sintesi brutale si può dire che <strong>informatica</strong> e <strong>medicina</strong> siano <strong>i due campi che danno più lavoro</strong>, assieme a <strong>ingegneria</strong> e in generale all&#8217;<strong>insegnamento</strong>, che con la MAD (Messa a Disposizione) negli ultimi anni si è classificato come uno dei più importanti sbocchi lavorativi per molti laureati.</p>



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<h2 id="h-si-studia-tanto-e-si-guadagna-come-gli-altri-cos-muoiono-le-facolt-scientifiche">“Si studia tanto e si guadagna come gli altri”: così muoiono le facoltà scientifiche</h2>



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<p>«I corsi di laurea in materie sanitarie e scientifiche sono in media più impegnativi degli altri», spiega <strong>Alberto De Toni</strong>, ordinario di Ingegneria economico-gestionale presso l&#8217;Università degli Studi di Udine, «e quando i laureati arrivano nel mondo del lavoro non c&#8217;è una grande differenza nelle retribuzioni rispetto magari a un laureato in scienze della comunicazione. Poi c&#8217;è anche il grande tema legato all&#8217;<strong>educazione femminile</strong>, perché sono poche le donne che scelgono attività scientifiche. Non è una novità, sono ormai vent&#8217;anni che la situazione è questa. Anche perché <strong>l&#8217;Italia ha un limite culturale</strong>. Non dimentichiamoci che siamo il Paese che ha processato Galileo e dove c&#8217;è chi ha definito la scienza un grande libro di cucina. Abbiamo una cultura di fondo che predilige i licei e la formazione umanistica. Anche se in questi giorni abbiamo ricevuto un premio Nobel per la fisica».</p>



<p>Ma il problema potrebbe essere radicato nel profondo e nella stessa dimensione universitaria, che dovrebbe essere riformata e adeguata a tempi mutevoli come quelli che si stanno vivendo. «<strong>I limiti li ha senza dubbio l&#8217;università</strong> – spiega <strong>Cleto Corposanto</strong>, preside della facoltà di Sociologia di Catanzaro – perché è troppo lenta a recepire i mutamenti nella società. Mi chiedo se il fatto che oggi c’è la necessità di tanti informatici sia una condizione sufficiente perché l&#8217;università rimodelli il suo percorso formativo su quella che può rivelarsi una bolla e in base a un mercato del lavoro che cambia in modo rapido. La sfasatura sulla quale bisogna stare attenti è quella di un mercato del lavoro che va molto a ondate, a fronte di percorsi di studi che richiedano più tempi del dovuto. Da questa situazione si può uscire in due modi: da una parte ci vogliono studi molto attenti per provare a individuare le necessità formative nell&#8217;arco dei prossimi 15 anni, e non solo nell&#8217;immediato; dall&#8217;altro l&#8217;università deve lavorare in modo svincolato dal mercato del lavoro in senso stretto. Non significa che debba fare altre cose, ma che debba <strong>insegnare altro</strong>».</p>



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<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Cleto-corposanto.jpg"><img width="799" height="533" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Cleto-corposanto.jpg" alt="" class="wp-image-46569" /></a><figcaption> <strong>Cleto Corposanto</strong>, Preside della facoltà di Sociologia di Catanzaro. Photo credits: Domenico Grossi</figcaption></figure>



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<h2 id="h-che-cosa-cercano-i-giovani-dall-universit">Che cosa cercano i giovani dall’università?</h2>



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<p>Tuttavia non è detto che una volta tanto non siano i giovani davvero in anticipo sui tempi, e che stiano creando percorsi in grado di fornire loro una duttilità che si rivelerà utile in futuro.</p>



<p>«I dati – continua Corposanto – nascondono un altro aspetto, cioè che gli studenti cercano di orientarsi con una modalità di <strong>formazione generalista</strong>. La sociologia ad esempio è una disciplina complicata da inserire nel mercato del lavoro, ma risponde a una domanda formativa complessa. Il ruolo del sociologo comprende la capacità di valutare il clima organizzativo ed è spendibile in vari campi. Oggi molti giovani si iscrivono a filosofia perché i giovani ritengono l&#8217;apertura mentale una qualità che può essere loro utile nel mondo del lavoro. Il problema è capire <strong>che ruolo deve avere l&#8217;università</strong>. Se l&#8217;obiettivo è essere aderente al mercato del lavoro bisogna cambiare molte cose, e non è semplice perché molti dei lavori di oggi non ci saranno più, e tanti che arriveranno oggi non li conosciamo. Per provvedere a questi bisogni bisogna pensare a come saranno le città nel 2030, di che tipo di servizi necessiteranno. Tra dieci anni metà della gente lavorerà facendo cose delle quali oggi nemmeno conosciamo l&#8217;esistenza.»</p>



<p>Quello che è cambiato è anche l&#8217;approccio che molti ragazzi hanno con il mondo dell&#8217;università, ma soprattutto con la sfera lavorativa e professionale. «Da tempo <strong>l&#8217;università non rappresenta più un ascensore sociale</strong>, e di conseguenza in un&#8217;ipotetica scala di valori dei giovani ha una posizione diversa», spiega Corposanto. «Le generazioni precedenti avevano la realizzazione professionale come un&#8217;ambizione irrinunciabile, oggi le cose sono diverse. Si pensa prima a stare bene inteso in senso ampio, prima che alla sicurezza nel mondo del lavoro. Anche le scelte che riguardano il futuro dipendono da questo. Basti pensare che oggi nessuno più pensa ai fondi integrativi pensionistici, che fino a poco tempo fa attraevano anche i giovani».</p>



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<p><em><em><em>L&#8217;articolo prende spunto dal panel &#8220;Competenze giovani o giovani competenze?&#8221;, che puoi seguire cliccando <a href="https://fb.watch/8EVwKVYhTy/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a> e <a href="https://fb.watch/8EVDyjePNH/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a>.</em> </em></em></p>



<p><em>Photo credits: quifinanza.it</em></p>


Università: cosa cerca il lavoro, cosa cercano i giovani

<p>È stata Imola la sede della seconda tappa del festival <strong>Nobìlita 2021</strong>, ospitato dall’<strong>autodromo Enzo e Dino Ferrari</strong> negli spazi del museo multimediale Checco Costa. Una cornice prestigiosa quanto suggestiva, ma non fine a se stessa: il motorsport è rientrato attivamente nel programma del festival, grazie a un <a href="https://fb.watch/8CpQr35_Jf/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">monologo di Diego Alverà</a> dedicato alla storia umana e professionale di <strong>Ayrton Senna</strong> e tratto dal suo libro <em>Il predestinato</em> (Giorgio Nada Editore). Il fuoriclasse brasiliano, tre volte campione del mondo di F1, trovò la morte proprio sul circuito del Santerno il 1°maggio 1994 durante una tragica edizione del GP di San Marino, già funestata il giorno precedente da un altro incidente mortale in qualifica occorso al pilota austriaco <strong>Roland Ratzenberger</strong>.</p>
<p><strong>La loro morte può definirsi un incidente sul lavoro?</strong> La domanda non deve suonare provocatoria, in quanto la F1 (come ogni altra categoria) è un ambiente di lavoro chiamato a garantire la sicurezza di chi vi opera a ogni livello: piloti, addetti ai lavori e personale del circuito. Una tutela da estendere anche al pubblico su prati e tribune.</p>
<p><strong>Come e quanto ha inciso</strong> il drammatico fine settimana di Imola ’94 <strong>sulla</strong> <strong>cultura della sicurezza in F1</strong>?</p>
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<h2 id="h-roberto-chinchero-giornalista-sportivo-in-f1-le-cose-sono-cambiate-dopo-le-morti-dei-numeri-uno">Roberto Chinchero, giornalista sportivo: “In F1 le cose sono cambiate dopo le morti dei numeri uno”</h2>
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<p>Per comprenderlo al meglio è necessario un veloce quadro storico. Ci accompagna in questo excursus <strong>Roberto Chinchero</strong>, giornalista che scrive di motorsport dai paddock dal 1992 per la maggiori testate dedicate (<em>Autosprint</em>, <em>Rombo</em>, <em>Quattroruote</em>, <em>La Gazzetta dello Sport</em>) e attualmente collaboratore di Sky Sport e del network motosport.com.</p>
<p>“In F1 nel corso degli anni c’è stata <strong>un’evoluzione della sicurezza</strong>, voluta, cercata, resa obbligatoria con alcune misure tecniche. Parallelamente, è stata dettata da uno sviluppo tecnologico dei materiali. I progressi maggiori, che vediamo ancora oggi in pista, sono stati due: la <strong>fibra di carbonio</strong> e gli effetti della <strong>lotta contro il fuoco</strong>.”</p>
<p>Uno snodo importante nell’evoluzione della sicurezza è il 1982, che ha un punto di contatto importante con i fatti del ’94: la morte in pista del pilota più popolare in quel momento storico, <strong>Gilles Villeneuve</strong>. Chinchero fa notare un aspetto amaro, ma significativo: “Purtroppo <strong>quando muore un pilota semisconosciuto non c’è lo stesso impatto emotivo</strong> di quando succede a un numero uno. Se accade a un pilota delle ultime file, anche non in modo coscio, c’è elaborazione: si tende a pensare che, non essendo la squadra di primo livello, possa non aver lavorato bene, oppure si dà peso all’inesperienza del pilota. Quando invece a morire è il numero uno, che di solito è al volante di un top team, non si può più liquidare così la faccenda. Si deve prendere atto che c’è qualcosa di strutturale che non va”.</p>
<p>Dopo la tragedia del canadese, seguita da quella di <strong>Paletti</strong> in Canada e dal gravissimo incidente di <strong>Pironi</strong>, si reagì con l’<strong>abolizione dell’effetto suolo </strong>e l’introduzione del <strong>fondo piatto</strong>. Giungiamo così agli anni Novanta: “Ci fu un’evoluzione in termini di sicurezza, complici i freni in carbonio e le scocche ancora più rigide, e si è arrivati a un punto in cui si credeva che fosse un obiettivo raggiunto.”</p>
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<h2 id="h-com-cambiata-la-f1-dopo-la-morte-di-ayrton-senna">Com’è cambiata la F1 dopo la morte di Ayrton Senna?</h2>
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<p><strong>Nel ’94</strong> <strong>un cambio regolamentare spoglia le auto dall’elettronica</strong>, ma lascia le performance intatte quanto ingovernabili. I piloti faticano a controllare le vetture; le avvisaglie estreme di pericolosità non mancano sin dai test prestagionali. A Imola ci saranno due morti in due giorni e una sequela di incidenti gravi, alcuni con coinvolgimento del pubblico in tribuna e dei meccanici ai box.</p>
<p>Chinchero tocca punti nodali: “I <strong>grandi cambiamenti</strong> sono sempre arrivati <strong>dopo momenti drammatici</strong> che hanno reso evidente un problema che non si è potuto, o voluto, vedere prima. Credo che questo sia applicabile non solo in F1, ma a tutte le problematiche riguardanti la sicurezza sul lavoro. Non ci si può passare sopra, e il motorsport non l’ha fatto. Dopo la tragedia di Senna, il presidente della FIA <strong>Max Mosley</strong> lanciò una vera e propria <strong>campagna per la sicurezza</strong> con un percorso sia immediato che di lungo respiro. Si capì che non era più possibile intervenire solo dopo delle tragedie, semplicemente perché avrebbero portato alla morte della F1 stessa. La società non era più disposta ad accettare uno sport in cui un potenziale incidente mortale era possibile in qualsiasi momento”.</p>
<p>Il primo approccio fu quello di intervenire sulle <strong>piste</strong>, non potendo cambiare il progetto tecnico delle monoposto a stagione in corso: “La priorità fu cercare di ridurre la <strong>velocità</strong>, specie delle curve più rapide, e ampliare le <strong>vie di fuga</strong>. Si pensò anche a migliorare la tecnologia delle barriere: all’inizio parve un lavoro di nicchia, ma con il tempo ha portato a risultati pazzeschi. Le <strong>barriere Tecpro</strong>, infatti, hanno una capacità di assorbimento di energia molto elevata grazie a strutture e materiali innovativi (<em>polimeri di polietilene, N.d.R.</em>). Una rivoluzione che ha consentito di raggiungere standard di sicurezza impensabili anche là dove non c’erano grandi vie di fuga.”</p>
<p>Sulle <strong>strutture delle vetture</strong> si intervenne a partire dalla stagione successiva “in primo luogo con la riduzione della potenza dei motori; poi si protessero collo e spalle del pilota con strutture apposite, le dimensioni dell’abitacolo aumentarono per consentirgli di uscire più facilmente, fu inserita una crash box anteriore potenziata, si introdussero i crash test laterali, fu ridotta la deportanza modificando le ali anteriori e tanto altro.” Negli anni, poi, si arriverà al collare HANS e ad Halo, decisivo nell’evitare il peggio già più volte.</p>
<p>Chinchero ben sintetizza: “La <strong>sicurezza</strong> ora è un target tecnico<strong> </strong>che viaggia a <strong>pari passo con lo sviluppo della performance</strong>. È come se si fosse aperto un laboratorio, operativo h24, che monitora, prevenendo e cogliendo tutti i più piccoli segnali di allarme. <strong>La sottovalutazione del rischio non esiste più</strong>. La F1 è uno sport che si è evoluto e che ora cattura la fantasia degli appassionati non solo per la velocità massima o quella media stratosferica sul giro, ma anche mettendo al riparo i propri attori da circostanze che, in altri contesti, sarebbero indubbiamente mortali. La sicurezza è diventata un fiore all’occhiello e uno spot per la F1”.</p>
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<h2 id="h-pietro-benvenuti-direttore-autodromo-di-imola-la-nostra-attivit-coordinata-al-secondo">Pietro Benvenuti, direttore autodromo di Imola: “La nostra attività è coordinata al secondo”</h2>
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<p>Fondamentale è anche il lavoro compiuto sul versante dei <strong>circuiti</strong>. Ce ne parla <strong>Pietro Benvenuti</strong>, direttore dell’autodromo di Imola.</p>
<p>“La tragedia di Senna ha voluto dire tanto per la F1 e per tutto l’ambiente, e ha avuto conseguenze anche per quanto riguarda la <strong>sicurezza degli addetti alla pista</strong>, dove esiste un lavoro che nessuno vede ma che, in un fine settimana di gara, coinvolge anche 1.000-1.500 persone. Adottiamo lo stesso standard di sicurezza per ogni manifestazione. Tutto il personale medico, antincendio, il soccorso di recupero con i carri e i commissari fanno corsi di sicurezza analoghi a quelli nell’industria di medio e alto rischio. Poi continuiamo con una formazione aggiuntiva, garantendo il raggiungimento di un adeguato livello di preparazione.”</p>
<p>“La nostra attività si basa sul <strong>coordinamento al secondo</strong>: l’errore di uno può fare catena e compromettere tutti, mettendo anche a rischio la vita, quindi la preparazione mira all’apprendimento e al rispetto di regole e comandi. Finché il direttore di gara non dice ai commissari di uscire dalla postazione, nessuno deve farlo. In generale, ogni situazione deve essere gestita a seconda di ciò che si è verificato, quindi non c’è una procedura fissa. Il difficile è applicarne una facendo intervenire le persone adatte nel momento giusto.”</p>
<p>La formazione passa da un’imprescindibile e mirata <strong>parte pratica</strong>: “Il campo contribuisce a tenere allenate le menti. Si prova con i commissari, gli addetti antincendio e, soprattutto, con i medici. Qui in autodromo abbiamo uno chassis di una Dallara con cui ci si allena sulle procedure di estricazione al fine di portar via il pilota nel minor tempo possibile senza creargli ulteriori traumi. Questa scocca di una formula Indy ha l’Halo e tutte le protezioni: durante i WE di F1, a rotazione, tutti i medici (una trentina fra pista e centro medico) e gli infermieri si esercitano dal mercoledì al sabato”.</p>
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<h2 id="h-l-evoluzione-dei-team-medici-nelle-piste-di-f1">L’evoluzione dei team medici nelle piste di F1</h2>
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<p>Negli anni, il <strong>team medico</strong> in circuito è divenuto un mix fra locali e dottori che seguono tutto il campionato di F1, come spiega Benvenuti: “È fondamentale, perché i <strong>fissi</strong> hanno conoscenze più approfondite dei mezzi, delle caratteristiche individuali di ogni pilota e poi apprendono qualcosa su ogni pista. I <strong>locali</strong>, invece, sanno tutto sulla gestione immediata nel dato luogo, come muoversi e le caratteristiche del centro medico del circuito. Gestiscono i collegamenti con gli ospedali della zona. Noi lavoriamo con trasporto in elicottero al Bufalini di Cesena per gli ustionati e al Maggiore di Bologna per tutti gli altri casi gravi, compresi i traumi alla spina dorsale.”</p>
<p>La presenza di <strong>mezzi di soccorso</strong> è capillare: “Ci sono postazioni dedicate alle medical car e ambulanze ogni 500-600 metri di pista”. Sono state implementate anche le <strong>misure passive e attrezzature</strong>: “Le reti per la protezione del pubblico sono state alzate, i muretti a tutela dei commissari prolungati di cinque metri. Per loro sono diventati obbligatori caschetto, guanti, scarpe antinfortunistiche e tute antistrappo (ignifughe per gli addetti antincendio) e poi, negli ultimi anni, dotazioni aggiuntive: tappetino, guanti e stivali di gomma, perché con le macchine ibride esiste il pericolo di scarica elettrica.”</p>
<p>Cruciale anche l’evoluzione dei <strong>centri medici dei circuiti</strong>: “All’inizio erano degli ambulatori; oggi sono dei <strong>veri e propri pronto soccorso con rianimazione e mini sale operatorie</strong> per effettuare piccoli interventi al fine di stabilizzare il ferito prima di trasferirlo.”</p>
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<h2 id="h-le-ricadute-della-sicurezza-in-f1-sulla-sicurezza-stradale">Le ricadute della sicurezza in F1 sulla sicurezza stradale</h2>
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<p><strong>Massimiliano Ghinassi</strong>, direttore di gara e di pista a Imola, ci spiega come la formazione dei medici in circuito sia risorsa preziosissima anche per la sicurezza su strada.</p>
<p>“Sono tutti medici, anestesisti e infermieri del 118. Su strada, ovviamente, arrivano quando il sinistro è già accaduto. In pista, invece, grazie alla sala monitor in cui registriamo tutto, compresi gli interventi di soccorso, possono rivedere sia la dinamica dell’incidente che il loro stesso operato. Questo, unito alla velocità appresa e messa in pratica, torna utile a livello pubblico, perché <strong>creiamo una figura medica professionalmente più avanzata</strong> e portatrice di un’esperienza unica. Molti la sottovalutano, ma noi facciamo una formazione importante per la collettività.”</p>
<p>Concludiamo tornando da Roberto Chinchero per altre <strong>ricadute della cultura della sicurezza in F1 su quella stradale</strong>: “In passato il rapporto era molto diretto. Adesso, invece, il passaggio riguarda i materiali (le supercar e le hypercar sono fatte in fibra di carbonio). Il travaso di conoscenza incide su quali e come si utilizzano e sui coefficienti di rigidità di certi compositi. Ora il rapporto fra F1 e strada è un processo più lineare e lungo<strong>, </strong>ma che conferma il legame tra le due realtà. Ad esempio, i freni carboceramici sono stati sviluppati in F1 e ora sono anche in macchine di serie, assicurando frenate mostruose<strong>.</strong> Il presente è il travaso sulla tecnologia ibrida, il futuro quello sui biocarburanti”.</p>
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<p><em>L&#8217;articolo prende spunto dal JobX di Diego Alverà &#8220;Senna, il predestinato&#8221;, che puoi seguire cliccando</em> <em><a href="https://fb.watch/8EVIKwuy41/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a>.</em> </p>
<p><em>Foto di copertina: Diego Alverà durante il suo JobX &#8220;Senna, il predestinato&#8221; a Nobìlita 2021 &#8211; Imola. </em></p>
<p><em>Credits: Domenico Grossi</em></p>


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Ayrton Senna, la F1 e la sicurezza: ora va sano anche chi va forte

Un&#8217;indagine sull&#8217;evoluzione della sicurezza in F1 da Ayrton Senna in poi, con gli interventi del giornalista sportivo Roberto Chinchero e del direttore dell&#8217;autodromo di Imola Pietro Benvenuti.

Ayrton Senna, la F1 e la sicurezza: ora va sano anche chi va forte - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Diego-Alvera-cop-per-Eli.jpg


<p>Tor &#8211; Recruitment &amp; HR Consulting, divisione di ricerca e selezione del Gruppo Lavoropiu Spa, ricerca una figura di RESPONSABILE DI PRODUZIONE REPARTO LAMIERATI per azienda metalmeccanica con sede Suisio (BG).</p>



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<p><strong>Attività</strong></p>



<p>La risorsa si occuperà del monitoraggio del processo produttivo e del raggiungimento degli obiettivi di efficienza e qualità della linea produttiva. Si occuperà di coordinare risorse dirette che operano su macchine utensili cnc (come laser lamiera, piegatrici) e il reparto assemblaggio saldatura a filo.</p>



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<p><strong>Requisiti</strong></p>



<p>• Laurea ad indirizzo meccanico o diploma di perito tecnico meccanico;</p>



<p>• Conoscenza e lettura del disegno meccanico;</p>



<p>• Ottima conoscenza delle macchine utensili cnc;</p>



<p>• Conoscenza delle normative saldatura;</p>



<p>• Provenienza da aziende di stampo metalmeccanico e lavorazione lamierati.</p>



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<p><strong>Si offre</strong>: contratto di lavoro a tempo indeterminato, full time.</p>



<p>Il livello di inserimento e il trattamento economico saranno commisurati all&#8217;esperienza e alle competenze maturate.</p>



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<p><strong>Sede di lavoro</strong>: Suisio (BG)</p>



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<p>Per candidarsi a questa ricerca inviare il CV indicando il titolo dell’annuncio e il codice di riferimento all’indirizzo:&nbsp;<span class="has-inline-color has-vivid-cyan-blue-color">milano@tor.jobs</span></p>



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<p>Questo annuncio è pubblicato da TOR – Recruitment &amp; HR Consulting, divisione di ricerca e selezione del Gruppo Lavoropiu Spa (Aut. Min. del 26/11/2004 _ Prot. 1104/SG), Sede di Milano. Il presente annuncio è rivolto ad entrambi i sessi, ai sensi delle leggi 903/77 e 125/91 e a persone di tutte le età e tutte le nazionalità, ai sensi dei decreti legislativi 215/03 e 216/03.<br>Ti chiediamo di prendere visione dell’informativa privacy consultabile al link lavoropiu.it/privacy e di inserire nel CV l’autorizzazione al trattamento dei tuoi dati personali ai sensi del Regolamento UE n. 679/2016 e della legislazione italiana vigente. Ti preghiamo di non inserire dati appartenenti a particolari categorie (dati che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale. TI ricordiamo che Lavoropiù non richiede mai, nella prima fase di ricezione delle candidature, l’invio di documenti di riconoscimento o di altra documentazione burocratica (ad esempio informazioni personali, dati, codici collegati a sistemi di pagamento) ed i nostri annunci riportano sempre un indirizzo mail per la ricezione delle candidature con uno dei seguenti domini aziendali: @lavoropiu.it / @tor.jobs / pyou.eu.<br>Diffida da chi, anche tramite annunci apparentemente legati al nostro brand, Ti chiede di inviare scansioni di documenti per partecipare a selezioni e/o colloqui, in particolare quando riporti nel testo indirizzi mail con domini differenti. In caso di dubbi, cerca sul nostro sito la filiale a Te più vicina per avere tutte le informazioni necessarie.</p>


RESPONSABILE DI PRODUZIONE LAMIERATI (241.BN.45)


<p>Si intitola <strong><em>Tre</em></strong> il romanzo più letto e discusso dell’estate 2021 pubblicato dalle Edizioni e/o. Scritto da <strong>Valérie Perrin</strong>, autrice del best seller <em>Cambiare l’acqua ai fiori</em>, il libro è il racconto di formazione di Nina, Adrien e Etienne, tre amici che si giurano amicizia eterna in un lasso di tempo che va dal 1987 al 2018.</p>



<p>In un continuo flashback temporale, la Perrin ci trascina a <strong>La Comelle</strong> (paesino rurale della Borgogna, nella Francia centro orientale) dove vivono i tre protagonisti. Tre personalità diverse eppure legatissime.</p>



<p><strong>Étienne Beaulieu</strong> è bello, ricco, superficiale. Nasconde le sue fragilità sotto uno scudo d’arroganza, amante di tante donne, ma alla fine preso solo da se stesso. La sua storia con la fidanzata del liceo Clotilde Marais, ossessionata da lui e scomparsa senza lasciare traccia in una notte d’estate, condizionerà la vita dei tre protagonisti.</p>



<p><strong>Adrien Bobin</strong> invece è l’opposto di Étienne. Timido, studioso, acuto osservatore. Padre assente che compare solo per pagare le spese mensili, madre hippy e frivola. Trasferitosi a Parigi, libero di essere e diventare quello che vuole nella grande metropoli, scriverà sotto pseudonimo un romanzo autobiografico che riscuoterà grande successo.</p>



<p>A unire il trio vi è <strong>Nina</strong>, occhi da cerbiatto, libera, bravissima a scuola, temperamento da artista: abbandonata dalla madre quando aveva pochi mesi, vive da sempre con suo nonno Pierre Beau, il postino del paese. Quando l’uomo morirà investito da un camion, sconvolta dall’accaduto e rimasta sola al mondo, accetterà di sposare, appena diciottenne, Emmanuel, un uomo ricco e possessivo che la priverà, a parole e gesti, della sua persona e dei suoi affetti. In particolar modo, dei suoi due amici d’infanzia.</p>



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<h2 id="h-tre-amici-la-borgogna-e-le-loro-speranze-e-un-delitto-sullo-sfondo">Tre amici, la Borgogna e le loro speranze. E un delitto sullo sfondo</h2>



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<p>Nella prima parte del libro il lettore viene catapultato nell’<strong>infanzia</strong> e nell’<strong>adolescenza</strong> <strong>spensierata</strong> dei tre protagonisti, godendo assieme a loro di quel tempo felice fatto di tuffi in piscina e sogni di gloria per il loro futuro, dove si progetta di fuggire insieme dalla noiosa provincia dopo il liceo per vivere la vita in città, a Parigi, non separandosi mai. Mentre Étienne e Adrien ci riusciranno, ognuno seguendo il proprio percorso di crescita fuori La Comelle, Nina sarà costretta a farlo rimanendo nel suo paese, anzi nella sua casa-prigione dorata, fatta di solitudine e violenza fisica e verbale.</p>



<p>Filo narrante del romanzo è <strong>una giornalista</strong>, <strong>Virginie</strong>, che a distanza di trent’anni racconta gli avvenimenti dei tre protagonisti: come la vita li ha cambiati e quello che sono diventati. Il ritrovamento sul fondo del lago del paese di un’automobile con i resti di Clotilde getterà un’ombra inquietante su tutto il romanzo, come ogni libro della Perrin che si rispetti.</p>



<p><em>Tre</em> è <strong>un romanzo decisamente estivo</strong>, che conquista per la sua scrittura leggera e malinconica, dimostrando ancora una volta la capacità dell’autrice di sondare l’animo umano nella sua parte più intima e profonda. Tocca temi comuni a tutti noi, come la difficoltà di crescere, l’abbandono, le insidie della vita di coppia, l’identità di genere, la sessualità, la malattia.</p>



<p>Eppure, ritengo che l’insieme di troppe tematiche, che indubbiamente fanno colpo sul lettore medio, alla lunga faccia sfociare il libro nella <strong>banalità</strong> e in un eccesso di bonarietà finale. L’aderenza a un modello vincente garantisce il celere successo editoriale, ma il prezzo da pagare è la qualità.</p>



<p>Spero che, nella sua prossima opera, la Perrin si riappropri di quella profondità che scaturisce dal talento letterario autentico, profondo e originale che le appartiene, e che ho apprezzato molto in <em>Cambiare l’acqua ai fiori</em>.</p>



<p>Nonostante quest’ultimo appunto, trovo che la sua abilità di destreggiarsi in una <strong>narrazione su più piani temporali</strong> senza far confondere il lettore sia degna di nota.</p>



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<h2 id="h-perch-leggere-tre">Perché leggere <em>Tre</em></h2>



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<p>Consiglio di leggere <em>Tre</em> perché la Perrin racconta – e in ciò sta il suo talento, il suo timbro unico – una storia ordinaria rendendola speciale. La sua capacità di far <strong>affezionare</strong> e <strong>immedesimare</strong> i lettori nei suoi personaggi, di far riflettere sul potere degli incontri (anche se sbagliati e tossici), crea una sorta di dipendenza dai suoi libri, pagina dopo pagina.</p>



<p><em>Tre</em> è un romanzo ricco di <strong>spunti musicali</strong> (ho riempito il mio Spotify di tutte le musiche ritrovate nella narrazione, come ad esempio gli Indochine), letterari (tanti i libri citati) e di luoghi geografici, dalla Borgogna alla Sicilia, ricchi di dettagli accurati e onirici. Apprezzo molto la sua idea salvifica dell’amicizia: un sentimento spesso sottovalutato, ma forse pari all’amore.</p>



<p>Concludo con uno scambio di battute fra Étienne e Adrien, che a mio avviso rappresenta le paure che tutti noi abbiamo provato una volta nella vita:</p>



<p>“Di che hai paura?”</p>



<p>“Della felicità, della liberazione, di diventare quello che sono. Non so cosa sono”.</p>


Tre vite fanno un libro. Il romanzo dell&#8217;estate è francese?

<p><strong><em>La ragazza del convenience store</em></strong> di <strong>Murata Sayaka</strong>, pubblicato in italiano da Edizioni E/O, è un romanzo giapponese che ha nel lavoro un elemento portante della propria trama.</p>
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<h2 id="h-la-ragazza-del-convenience-store-la-storia-normale-di-un-personaggio-estremo"><em>La ragazza del convenience store</em>, la storia normale di un personaggio estremo</h2>
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<p><strong>Keiko Furukura</strong> è una donna di trentasei anni, da diciotto <strong>commessa</strong> in un<em> kombini: </em>un tipo di minimarket molto diffuso in Giappone e aperto 24 ore su 24. Si tratta di un impiego con contratto a tempo determinato, part-time, a turni, pagato a ore e in cui sono previsti due giorni di riposo settimanale. Per le sue caratteristiche d’impegno e retribuzione è adatto, ricercato e svolto soprattutto da studenti e giovani che, portato a termine il percorso scolastico, preferiscono arrangiarsi con occupazioni precarie (una categoria chiamata <em>freeter</em> in Giappone<em>).</em></p>
<p>Per la protagonista, però, il rapporto con questo lavoro sfugge da ogni logica e in questo risiede l’originalità del romanzo. Infatti Keiko, fin da bambina, presenta <strong>tratti di personalità anomali</strong>: le sue reazioni agli episodi infantili fra coetanei, a scuola o in momenti di gioco, sono imprevedibili e spiazzanti. Incapace di empatia e compassione, il suo pensiero è totalmente sganciato dalla componente emotiva (che pare non possedere affatto) ed è orientato soltanto al senso pratico, mirato all’ottenimento più rapido di un dato scopo, incurante dell’ammissibilità del modo scelto per arrivarci.</p>
<p>Tutto ciò sarà fonte di grande imbarazzo per la sua famiglia e Furukura sceglierà di <strong>esporsi il meno possibile</strong> per limitare l’impatto straniante delle sue reazioni sugli altri, trascorrendo gli anni della scuola senza alcun amico.</p>
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<h2 id="h-una-protagonista-ossessiva-che-esiste-per-il-suo-lavoro">Una protagonista ossessiva che esiste per il suo lavoro</h2>
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<p>Ed eccoci tornare al <strong>tema del lavoro</strong> e alla sua particolare coniugazione in questo libro.</p>
<p>Per Keiko essere commessa al <em>kombini </em>non è un impiego, ma <strong>diventa immediatamente la sua identità</strong> di essere umano. Fin dalla fase di training e formazione, prima di entrare in servizio, resta estasiata dal dover apprendere e applicare regole di comportamento e condotta: dopo non aver mai saputo come comportarsi, la liberazione è avere trovato qualcuno che le dica cosa e come fare, e metterlo in pratica.</p>
<p>Il rapporto con il lavoro diventa da subito viscerale in modo spontaneo: è come se Furukura assumesse la medesima sostanza, fisica e mentale, del suo market. In quell’“acquario trasparente”, come lo definisce lei stessa, &nbsp;Keiko fa della propria esistenza una funzione: <strong>commessa modello</strong>. In questo contesto si sente pienamente integrata, utile, attiva, in armonia, perché ogni azione e reazione è prevista e prevedibile.</p>
<p>L’identificazione totale con il suo lavoro, però, risulta <strong>ossessiva</strong>: Keiko giudica i suoi colleghi in base al loro attaccamento all’impiego, si nutre esclusivamente di alimenti provenienti dal <em>kombini</em>, calibra i ritmi delle sue giornate con l’unico scopo di essere più in forma possibile per lo svolgimento delle proprie mansioni; addirittura per addormentarsi immagina il market e spesso lo sogna.</p>
<p>Anche il <strong>rapporto con il mondo circostante</strong> è figlio dello sguardo funzionale all’occupazione: passeggiate mirate nei dintorni del <em>kombini </em>in cerca di cambiamenti o nuove attività e la consultazione delle previsioni del tempo sono mezzi per prevedere e programmare vendite e ordini di merce.</p>
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<h2 id="h-una-scrittura-misurata-che-mette-in-crisi-la-normalit-sociale">Una scrittura misurata che mette in crisi la “normalità” sociale</h2>
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<p>Murata Sayaka dosa la sua <strong>scrittura</strong> in maniera sapientemente piana, essenziale e chirurgica, adattandola alla personalità della sua protagonista che è la voce narrante del romanzo.</p>
<p>L’autrice riesce a cucire il pensiero di un personaggio che ha poco di umano, i cui ragionamenti spesso sono tanto immediati quanto alienanti, infondendo nel lettore un <strong>senso di disturbo</strong>, a volte di incredulità. Contemporaneamente, però, il modo di pensare di Keiko è reso in modo così coerente e senza fronzoli da assorbire chi legge, facendolo, a volte, solidarizzare con alcuni suoi passaggi. Volute sono anche alcune <strong>ripetizioni</strong> che rendono i limiti dei personaggi, ma rafforzano anche i concetti base che reggono il libro.</p>
<p>Infatti un cardine fondamentale di tutto il romanzo, portato all’attenzione non solo da Keiko ma da un altro personaggio che entrerà gradualmente nella trama, riguarda le <strong>aspettative della società sulle vite dei singoli individui</strong> affinché possano essere considerati “<strong>normali</strong>”. Per Furukura la violenza e l’invadenza dell’altrui giudizio, che si sente legittimato a esprimersi su di lei per la mancanza di un impiego fisso e di una relazione, è qualcosa con cui confrontarsi da sempre, un peso, un’ingerenza difficile da sopportare che limita e condiziona i suoi già scarsi rapporti con gli altri.</p>
<p>Dov’è la chiave, nel restare fedeli a se stessi subendo l’emarginazione e sentendosi chiedere giustificazioni, o nell’aderenza, magari forzata o simulata, agli usuali schemi sociali? Qui risiede il vero nodo del libro, che sarà approfondito nel suo sviluppo.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-la-ragazza-del-convenience-store">Perché leggere <em>La ragazza del convenience store</em></h2>
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<p><em>La ragazza del convenience store</em> è un interessante spaccato di alcuni <strong>usi e costumi giapponesi</strong>: principalmente il <strong>cibo</strong>, la cui varietà è ben rappresentata nelle merci distribuite dal<em> kombini; </em>poi lo è anche la <strong>casa</strong>, con il suo arredamento tipico ed essenziale. Molto utile il <strong>glossario</strong> a fine testo che spiega riccamente tutti i vocaboli giapponesi presenti.</p>
<p>Inoltre, come si diceva, è un interessante ritratto della <strong>società giapponese</strong>, fatta di schemi rituali, stereotipi, aspettative a cui spesso viene persino auspicato sia immolata la propria individualità. Interessante, poi, la parte del corso di formazione per commessǝ e l’espletamento del lavoro: la ripetizione di frasi rituali, il contegno e l’ossequio richiesti verso il cliente con modalità molto diverse da quelle a cui siamo abituati in Occidente.</p>
<p><strong>Il personaggio di Keiko</strong>, poi, è più unico che singolare. Spesso lascia basiti, eppure nel suo disagio abitano domande scomode che riguardano la dinamica collettiva dei rapporti umani con i limiti e le ipocrisie dell’omologazione, vere barriere nel capire, aiutare e supportare una persona, anche cara.</p>
<p>Il libro, poi, incoraggia riflessioni sulle <strong>questioni di genere</strong> (più che mai attuali nella nostra contemporaneità): infatti nei discorsi fra i personaggi risultano ancora ben radicati, e con una naturalezza disarmante, gli stereotipi tradizionali verso i due sessi. Insomma: la storia di Keiko, seppur nella sua particolarità così estrema, è utile per ripensare a molto di ciò che battezziamo come giusto e auspicabile, sia per la persona che per la collettività.</p>


Essere o non essere il proprio lavoro? Il Giappone risponde con un romanzo

Dietro la figura di una commessa di minimarket si cela un personaggio dai tratti estremi che mette in scacco diversi assunti sociali. La nostra recensione de &#8220;La ragazza del convenience store&#8221;, di Murata Sayaka.

Essere o non essere il proprio lavoro? Il Giappone risponde con un romanzo - Informazione senza filtro

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<p>Nelle ultime settimane, <a href="https://www.reuters.com/world/the-great-reboot/pay-cut-google-employees-who-work-home-could-lose-money-2021-08-10/">un articolo dell&#8217;agenzia di stampa Reuters</a> ha attratto in maniera ossessiva l&#8217;attenzione di alcuni giornali, rimbalzando di testata in testata con articoli condivisi su tutti i social da parte di manager dell&#8217;Ottocento, molto compiaciuti.</p>



<p>Facciamo un passo indietro.<br>Google nel 2021 si calcola abbia risparmiato grazie allo smartworking circa 268 milioni di euro e oltre un miliardo in viaggi e trasferte, motivo per cui, al netto delle traduzioni fatte con la forchetta ed il cucchiaio da alcune testate giornalistiche (La Stampa non più di un mese fa titolava &#8220;<a href="https://www.lastampa.it/tecnologia/news/2021/04/01/news/addio-telelavoro-google-accelera-sul-ritorno-in-ufficio-1.40100523">Google accelera sul ritorno in ufficio</a>&#8221; e naturalmente il <a href="https://www.corriere.it/economia/lavoro/21_aprile_03/google-microsoft-grandi-aziende-richiamano-ufficio-smart-working-solo-autorizzazione-e002548a-9453-11eb-baed-430cc8195593.shtml">Corrierone Nazionale con ennesima bufala</a>), ha decretato un ampliamento dello Smartworking fino al 40% dei dipendenti globali. Quasi la metà.</p>



<p>In concomitanza con questa decisione però pare che l&#8217;azienda di Mountain View abbia messo a punto un&#8217;app (per alcuni &#8220;un algoritmo&#8221;, per altri &#8220;un sistema di valutazione&#8221;) con cui ogni dipendente può ricalcolare il proprio stipendio sulla base del luogo in cui decide di svolgere lo smartworking. <br><br>Di fatto, il più lontano dalla Silicon Valley (l&#8217;articolo fa l&#8217;esempio di un dipendente che vive a Stamford, Connecticut – circa un’ora di treno da New York) potrebbe essere pagato il 15% in meno se scegliesse di lavorare da casa.</p>



<h2 id="h-quanto-guadagna-un-impiegato-e-quanto-costa-affittare-casa-in-silicon-valley">Quanto guadagna un impiegato e quanto costa affittare casa in Silicon Valley?</h2>



<p>Sul blog di <a href="https://www.idealista.it/news/immobiliare/internazionale/2019/02/12/130007-a-san-francisco-non-basta-uno-stipendio-a-sei-cifre-per-laffitto-di-casa">uno dei siti più attivi nel mercato immobiliare</a>, si legge:</p>



<blockquote class="wp-block-quote"><p><em>Lo&nbsp;<strong>stipendio medio iniziale</strong>, per un giovane che inizia la sua esperienza in un’azienda della Silicon Valley, si aggira attorno ai<strong>&nbsp;91.738 dollari</strong>, una cifra di tutto rispetto. In qualsiasi altra parte del mondo, magari. Ma nel&nbsp;<strong>mercato immobiliare più competitivo degli Stati Uniti</strong>&nbsp;le cose non stanno così.<br></em></p><p><em>Tanto che trovare un alloggio a prezzi ragionevoli e accessibili è un’impresa pressoché impossibile. Basti pensare che nella&nbsp;<strong>Bay Area&nbsp;</strong>il&nbsp;<strong>prezzo medio per l’affitto</strong>&nbsp;di un&nbsp;<strong>appartamento con una sola camera da letto</strong>&nbsp;è di&nbsp;<strong>3.360 dollari,</strong>&nbsp;cosicché molti giovani professionisti dell’hi tech spendono gran parte dello stipendio per l’affitto.</em></p></blockquote>



<p>Durante uno dei miei viaggi in Silicon Valley ebbi conferma di questa situazione totalmente fuori controllo parlando con i fratelli Campilongo, due strepitosi &#8220;ragazzi&#8221; Calabresi che in quel di Palo Alto hanno due dei ristoranti più frequentati dai manager delle aziende del posto. Furono proprio loro a raccontarmi della difficoltà prima di tutto di trovare case libere, e secondariamente di un mercato immobiliare completamente impazzito proprio a causa dell&#8217;altissima concentrazione di aziende del new business.</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/08/Terùn.jpg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/08/Terùn-1024x768.jpg" alt="" class="wp-image-45738" /></a><figcaption>Maico e Franco Campilongo (sulla sinistra), titolari di Terùn, a Palo Alto.</figcaption></figure>



<p>Basterebbe questa informazione per far saltare il banco e rendere privi di interesse tutti gli articoli usciti fino ad oggi, o quantomeno a capovolgere completamente l&#8217;obbiettivo che Corriere della Sera in primis e a seguire il Sole24Ore si sono assegnati nel tentativo di addomesticare &#8211; ancora una volta &#8211; la terribile cultura del lavoro che attanaglia il nostro Paese.</p>



<h2>Partiamo dai dati. Proprio i LORO dati</h2>



<p>Sugli articoli di alcune di queste testate si citano le analisi retributive di <strong>Job Pricing</strong>, che noi di SenzaFiltro conosciamo bene, in quanto essere un partner estremamente serio ed affidabile. </p>



<p>Prendendo come esempio proprio la tabella riportata in uno degli articoli di Repubblica, emerge ciò che <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/quanto-vale-milano/">Senza Filtro già alcuni mesi fa aveva evidenziato,</a> ovvero che fra uno stipendio medio di Milano ed uno di Bologna c&#8217;è una differenza di circa 3000 euro lordi annui. Lo stesso stipendio rapportato ad un pari livello di Bari, non arriva a 8000 euro lorde annue di differenza. Con le quali in una delle mille città dormitorio che terminano in -ano, -ate o -ese a 20 km dalla &#8220;city&#8221;, ci paghi a stento un bilocale fronte muro.</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/08/Schermata-2021-08-20-alle-20.26.28.png"><img width="694" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/08/Schermata-2021-08-20-alle-20.26.28-694x1024.png" alt="" class="wp-image-45741" /></a></figure>



<p>A questo naturalmente va aggiunto un costo della vita che comprenda logistica, spostamenti e necessità basiche di un essere umano minimamente sociale che ha smesso di fare lo studente da più di cinque anni.</p>



<h2>Eh si, ma la qualità della vita&#8230;</h2>



<p>E anche sulla qualità della vita possiamo aprire una bella discussione, dal momento che tutta una serie di luoghi comuni fra cui il titolo di <strong><em>città del lavoro</em></strong>, è stato ampiamente smentito dalla <a href="https://lab24.ilsole24ore.com/qualita-della-vita/classifiche-complete.php#intro">classifica annuale del Sole24Ore</a> che (incredibilmente!) sottolinea una carenza non indifferente per quanto riguarda l&#8217;imprenditoria femminile, il numero di startup, la presenza di impianti sportivi pro capite, l&#8217;investimento in cultura, la qualità della sanità (ma questo poi ci ha pensato il Covid a darne evidenza) e molti altri fattori che definiscono una città &#8220;vivibile&#8221;.<br><br>Ma siccome ne abbiamo già parlato approfonditamente, se davvero vi interessa, <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/quanto-vale-milano/">qui trovate tutti i dati </a>per sostenere una discussione. </p>



<h2>La Great Resignation: Equilibrio Personale vs. Lavoro Schizofrenico</h2>



<p>Un fenomeno, anche questo proveniente dalle grandi Corporate Americane e che ha già iniziato ad attecchire anche nel sistema PMI tutto italiano, che i giornali mainstream fanno finta di non vedere è quello denominato della <strong><a href="https://www.axios.com/resignations-companies-e279fcfc-c8e7-4955-8a9b-47562490ee55.html?utm_source=newsletter&amp;utm_medium=email&amp;utm_campaign=newsletter_axiosam&amp;stream=top">&#8220;Great Resignation&#8221;</a>,</strong> ovvero quei dipendenti che richiamati in ufficio preferiscono dare le dimissioni.<br><br>E&#8217; evidente che un anno di benefici dovuti al tempo e allo stress risparmiato in trasferte e inutili riunioni (scopo unico di certi &#8220;capi&#8221; devoti al Comando e Controllo), il risparmio economico, il benessere fisico e la vicinanza ai propri familiari che per alcuni erano poco più che conviventi, per molti è una conquista da cui non si torna indietro.<br><br><strong>Nel nostro Paese</strong> &#8211; lo dico per competenza &#8211; <strong>il fenomeno acquisisce un aspetto ulteriore</strong>: nei colloqui di selezione la domanda sullo smartworking è diventata una costante con cui i candidati scelgono o meno di accettare una proposta. Motivo per cui le PMI riescono a sottrarre candidati ai loro competitor anche grandi, grossi e multinazionali a parità di stipendio, ma con il benefit del lavoro da remoto.<br><strong><br>Il potere contrattuale delle aziende inizia a incrinarsi se queste non agiscono anche sui processi interni, sulla formazione dei propri capi e sull&#8217;evoluzione del mondo circostante.</strong></p>



<h2>Un panorama imprenditoriale (e giornalistico) deprimente</h2>



<p>Quello che i giornali non dicono, non è poca cosa, ma sarebbe stato sufficiente per non prendere nemmeno in considerazione il tema. Da un punto di vista giuslavoristico <strong>la legge che regola lo smartworking vieta esplicitamente discriminazioni di stipendio e, al contrario, apre a premi di produttività per chi aderisce all&#8217;accordo.<br></strong><br>A questo si aggiunga anche un recente sondaggio di UIL Lombardia in cui il tanto vituperato smartworking (o quel che è stato, perchè non dimentichiamoci che quando non si vuole affrontare un cambiamento, si iniziano a fare questioni di lana caprina: &#8220;definiamo cosa sia smartworking e cosa telelavoro&#8230;&#8221; &#8220;adottiamo il modello ibrido&#8221;), ha invece trovato <a href="https://newsprima.it/top-news/dopo-lo-smart-working-ansia-di-tornare-in-ufficio-per-la-meta-dei-lavoratori/">un consenso pressochè totale</a>. <br><br>Comprendendo dunque <strong>la necessità del Corrierone Nazionale di consolidare un &#8220;modello&#8221; che sta sfuggendo di mano ad una velocità imprevista</strong>, un modello di business cittadino basato proprio e unicamente su quelle trasferte, quelle riunioni, quelle convention, che ora rischia di diventare obsoleto al di là di qualsiasi previsione. E ancor di più comprendiamo il tentativo di difendere e supportare le dichiarazioni di un sindaco non più adeguato a questi tempi, che da #MilanoNonSiFerma fino alle &#8220;grotte dello smartworking&#8221; non ne ha ingarrata più una.</p>



<p>Comprendiamo anche<strong> la fedeltà del Sole24Ore ai suoi industriali</strong>, un caravanserraglio di doppiopetti e cravatte che solo negli ultimi mesi ha dimostrato così poca etica e lungimiranza comparendo a turno sul giornale di riferimento a lamentarsi di personale introvabile, prima dando la colpa al Reddito di Cittadinanza, poi aggrappandosi alla mancanza di volontà, salvo &#8211; fatte le opportune verifiche da parte di qualche giornalista ancora dignitoso &#8211; non solo non trovare alcuna ricerca a loro nome, quanto altrettante testimonianze di ex dipendenti, sindacalisti e semplici candidati che hanno descritto un panorama ben diverso, fatto di mancate tutele e contratti non rispettati.<br><br>Panorama confermato dalle<strong> indagini condotte dal nuovo Direttore dell&#8217;Ispettorato Nazionale del Lavoro</strong> che nei primi dieci giorni di agosto ha controllato decine di aziende fra Prato e Milano <a href="https://www.open.online/2021/08/11/sicurezza-sul-lavoro-prato-milano-100-per-cento-irregolare/">trovando irregolarità contrattuali nel 100% dei casi</a>.<br></p>



<h2>Milano non fare la furba; non sei la Silicon Valley</h2>



<p>Per tornare al punto, ecco il mio personale &#8211; ma credo molto oggettivo &#8211; punto di vista sulla situazione retribuzioni.<br>Milano oggi non paga adeguatamente i suoi impiegati medi. Non è alto lo stipendio di un Bolognese; è giusto.<br>Con 32.000 euro lordi annui di media a Bologna ci vivi decentemente. Forse ce ne vorrebbero altri 8000 per dichiararsi un &#8220;borghese&#8221;.<br>A Milano con 35.000 euro lordi annui, fai la fame.<br><br>Il punto non è pagare meno il dipendente di un&#8217;azienda con sede a Milano che decide di lavorare da Bari.<br>Il punto è pagare almeno tre volte di più un dipendente di qualsiasi altra città a cui si chiede di lavorare in ufficio a Milano.</p>


Retribuzioni: se davvero Milano facesse come Google


<p>Premiati Oleifici Barbera &amp; Figli è un oleificio che vanta una tradizione che ha origine nel 1894 da un’impresa agricola dedita alla coltivazione di agrumi ed ulivi. Da allora l’azienda si è fortemente evoluta, dando vita ad un consorzio di olii di alta qualità.</p>



<p>Passione, intuito, lavoro e conoscenza sono le caratteristiche peculiari con cui l’ultima generazione sta affrontando le sfide dei mercati internazionali riconoscendo all’azienda il posizionamento fra i maggiori esperti del settore.</p>



<h2 id="h-posizione">Posizione</h2>



<p>Al fine di consolidare la propria presenza e ampliare la capillarità sul territorio nazionale, siamo alla ricerca di un Direttore Vendite Italia. In particolare:</p>



<ul><li>Gestirà ed implementerà la rete vendite della GDO con l&#8217;obiettivo di aumentare il relativo fatturato;</li><li>Elaborerà, di concerto con la proprietà, le strategie di sviluppo commerciale;</li><li>Si occuperà del brand “Atmosfere Siciliane”, il distributore controllato interamente da Barbera in Horeca, Gastronomia e Retail tradizionale, con personale dedicato al marketing e alla comunicazione e un ramo dedicato alle vendite nel dettaglio tradizionale e Horeca;</li><li>Strutturerà e migliorerà una rete vendita (agenti) per Atmosfere Siciliane;</li><li>Implementare le insegne e sviluppare nuovi segmenti all&#8217;interno dello scaffale dove già presenti;</li><li>La figura in prospettiva ricoprirà un ruolo direzionale.</li></ul>



<p><strong>Luogo di lavoro:&nbsp;</strong>Palermo</p>



<h2 id="h-requisiti">Requisiti</h2>



<p>È richiesta un&#8217;esperienza consolidata nel settore in aziende alimentari di non secondarie dimensioni possibilmente nei settori Grocery/Dry food</p>



<p><strong>Contratto offerto</strong>: Tempo indeterminato CCNL Industria Alimentare &#8211; Olio e Margarina. RAL 60-80K.</p>



<p><strong>Per candidarsi: </strong><a href="https://inrecruiting.intervieweb.it/scr/jobs/direttore_vendite_italia_151207/it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">cliccare qui</a></p>



<p>I/Le candidati/e potranno inviare la propria risposta rilasciando specifica autorizzazione ai sensi del del Regolamento (UE) 2016/679 sulla protezione dei dati (GDPR). Vedi informativa privacy <a href="http://www.scrconsulenza.it" target="_blank" rel="noreferrer noopener">www.scrconsulenza.it</a> Per informazioni: <a href="http://www.scrconsulenza.it" target="_blank" rel="noreferrer noopener">www.scrconsulenza.it</a> oppure 0544/270701.</p>



<p>Tale ricerca professionale é rivolta ad ambo i sessi (L. 903/77)</p>



<p>Autorizzazione Ministeriale a tempo indeterminato all’esercizio delle attività di ricerca e selezione del personale ai sensi del D.lgs. 276/03 prot. 13/1/0003008/MA004.A003</p>


Direttore Vendite Italia

<p><strong><em>Tutto un rimbalzare di neuroni</em></strong> (uscito a giugno per Einaudi Editore) è un romanzo ricco, sfaccettato e multiforme sul mestiere dell’insegnamento. <strong>Vanessa Ambrosecchio</strong> scrive un libro di assoluto interesse, pervaso di un’umanità autentica che trabocca da ogni pagina e riflette una realtà molto complicata.</p>
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<h2 id="h-tutto-un-rimbalzare-di-neuroni-cronaca-di-una-classe-tra-scuola-e-pandemia"><em>Tutto un rimbalzare di neuroni</em>: cronaca di una classe tra scuola e pandemia</h2>
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<p>La voce narrante è quella di una <strong>professoressa di italiano</strong> in una <strong>scuola media</strong> di un quartiere popolare di Palermo. I protagonisti sono i ragazzi di una classe non facile, la 3H. Li incontriamo all’ultimo anno, momento in cui si lavora di più per raccogliere i frutti dell’intero ciclo della scuola dell’obbligo.</p>
<p>Ai problemi posti da un contesto sociale disagiato si aggiunge, abbattendosi come un cataclisma imprevedibile, la <strong>pandemia</strong>. Quando la situazione diventa evidente agli occhi di tutti nella sua piena drammaticità, la dimensione scolastica si diluisce in una forma inedita e obbligata: la <strong>DaD</strong> (Didattica a Distanza). Ne scaturisce una funesta reazione a catena che ha nel disgregamento – non solo formativo, ma soprattutto dei legami umani ed emotivi – il proprio inesorabile grimaldello.</p>
<p>Il racconto inizia da qui, ma la forza del testo risiede nel <strong>contrasto narrativo</strong> che, capitolo dopo capitolo, Ambrosecchio disegna fra il presente vissuto in DaD e i giorni della scuola nella sua passata normalità. Non c’è spazio, però, per un arrendevole stacco fra ricordo e contingente: la narrazione vive di un flusso omogeneo, compatto, riuscito perché scritto restituendo ogni aspetto in modo sincero.</p>
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<h2 id="h-insegnanti-non-mestieranti-un-racconto-che-dirada-i-luoghi-comuni">Insegnanti, non mestieranti: un racconto che dirada i luoghi comuni</h2>
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<p><em>Tutto un rimbalzare di neuroni</em> ha il pregio di <strong>rendere giustizia al</strong> <strong>lavoro dell’insegnante</strong>, troppo spesso vittima di luoghi comuni al ribasso, e di farlo senza vittimismi o lamenti: è sufficiente l’impatto del resoconto di ciò che significa fare questo mestiere.</p>
<p>Nel disastrato insieme della scuola italiana, infatti, essere professore o professoressa significa avere compiti pratici ed empirici che esulano dalla didattica. Questo, ovviamente, ancor di più in situazioni sociali in cui, a causa dell’impellenza del sostentamento economico, &nbsp;il bene del sapere è spogliato del suo valore per la costruzione di un futuro migliore.</p>
<p>Il romanzo mette significativamente in evidenza quanto, in questo mestiere, la <strong>sostanza umana</strong> di chi lo esercita sia ciò che fa la differenza: uno scarto decisivo, fatto di sacrificio, sensibilità, disponibilità e lucidità che può davvero lasciare il segno nella vita dei ragazzi.</p>
<p>La professoressa che ci conduce nella vicenda ha il dono di interrogarsi, mettersi in discussione (a volte anche nei giudizi): soppesa problemi e punti di forza degli alunni guardando alla totalità delle loro vite. Il percorso intessuto con la sua <strong>3H</strong> tocca profondamente: lo sguardo della prof è rivolto alla singola, peculiare e <strong>preziosa individualità di ognuno</strong>. A muoverla la volontà ferrea di capire i limiti di ogni ragazzo per provare a superarli insieme, così come la ricerca dei loro talenti. A questo scopo adatta lo strumento della didattica rendendolo malleabile, amico, meno pesante e, nei limiti del possibile, intrigante.</p>
<p>Così, <strong>insegnare italiano</strong> diventa anche un modo per <strong>formare la coscienza civile</strong> dei suoi allievi: legge loro la storia delle vite di Falcone e Borsellino, poi cala l’argomento nel difficile contesto della quotidianità del loro quartiere, conducendoli a porsi domande decisive, a concepire sguardi dotati di diverse prospettive.</p>
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<h2 id="h-quant-distante-la-didattica-della-pandemia">Quant’è distante la didattica della pandemia</h2>
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<p>Poi <strong>la mannaia della DaD</strong>, che cala proprio nei mesi decisivi.</p>
<p>Anche qui, l’autrice racconta con efficacia e precisione che cos’è stato dover ricorrere a freddi strumenti informatici che hanno distorto il calore di uno spazio condiviso, <strong>trasformando rapporti in contatti</strong>. La debolezza di un filo che ha perso l’aspetto concreto di un legame da rianimare ogni giorno con fatica. I <strong>limiti economici delle famiglie</strong>, con connessioni assenti, dispositivi mancanti o condivisi, che si fanno barriere ancor più compatte su cui rimbalzano i tentativi di abbatterle della scuola (o di quel che ne rimane). <strong>L’invadenza della webcam</strong>, indiscreto e impietoso sguardo nell’intimità propria e altrui: qualcosa da rifuggire appena possibile, per i ragazzi.</p>
<p>La DaD entra a gamba tesa anche nella routine della professoressa, che sperimenta e racconta <strong>tutti i limiti dello smart working</strong>: cadono i confini fisici, il tempo si deforma, privo di soglie concrete e prefissate, estendendosi all’infinito. Cadono anche i confini specifici della Didattica a Distanza, del tutto sperimentale e straniante: l’aula ridotta ad una piattaforma, i ragazzi trasfigurati in icone pulsanti su uno schermo, con la connessione che di rado regge il segnale video di più utenti.</p>
<p>Ed ecco che, di nuovo, il tratto umano di chi insegna si fa determinante: il non rassegnarsi a tirare a campare e alle sempre più numerose assenze, ma <strong>superare anche il proprio sconforto</strong> attingendo ai riti gradualmente costruiti e poi condivisi nel tempo in cui si era in classe. La frattura fra prima e dopo è reale e dolorosissima, ma ciò che si creato insieme ha un potere salvifico.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-tutto-un-rimbalzare-di-neuroni">Perché leggere <em>Tutto un rimbalzare di neuroni</em></h2>
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<p>È <strong>un libro luminoso</strong> che, seppur non limando alcuno spigolo, abbraccia il lettore, lo conforta, gli mostra un <strong>campionario di varia umanità</strong> da cui non ci si vorrebbe più staccare.</p>
<p>Gli <strong>alunni</strong> sono più persone che personaggi: veri, pulsanti nei loro slanci e cadute, sinceri, commoventi senza essere melensi. La <strong>classe</strong> è uno spaccato di realtà: diversi nelle origini, nello stato psico-fisico, nelle potenzialità. Una convivenza complicata che, nel tempo, diventa forza di tutti e ognuno grazie al rispetto e alla valorizzazione proprio di quelle differenze di base.</p>
<p>Alla fine, solo chi è professore sa davvero cosa significhi insegnare. Ecco: <em>Tutto un rimbalzare di neuroni</em> infrange quel limite, raccontando bene quotidianità, sfide, condizioni, limiti, gioie e sconfitte del mestiere. Il tutto sottolineando, nei fatti, quanta differenza passi tra <strong>fare l’insegnante ed esserlo davvero</strong>.</p>


Quando la scuola viaggiava in terza classe

Il lavoro dell&#8217;insegnante in tutta la sua complessità, calato tra le mura di una classe di terza media, con la pandemia sullo sfondo. Recensiamo &#8220;Tutto un rimbalzare di neuroni&#8221; di Vanessa Ambrosecchio.

Quando la scuola viaggiava in terza classe - Informazione senza filtro

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<p>“Ho l’età giusta per parlare senza filtri e per dire le cose come stanno veramente. C’è chi non lo fa perché dice che tiene famiglia: si vede che ognuno ha il suo modo di tenerla.”</p>



<p>Inizia così, senza mezzi termini e ancora meno fronzoli, l’intervista con <strong>Valentino Mercati</strong>, ideatore e fondatore di <strong>ABOCA</strong>, la più grande azienda a livello non solo italiano, ma anche europeo, di prodotti per la salute a base di sistemi di sostanze naturali e biodegradabili, tra cui integratori alimentari.</p>



<p>Un caso unico nel suo genere per la scommessa vinta a livello internazionale, quando ancora nessuno ci pensava e nemmeno credeva. I numeri parlano chiaro: più di 40 anni in spalla, oltre 1.600 dipendenti, 80 studi scientifici gestiti, la presenza in 16 Paesi e 1.700 ettari di scrupolosa <strong>produzione biologica </strong>dislocati in Umbria e Toscana.</p>



<p>Un gioco da ragazzi? Tutt’altro. Ma il cuore tematico di questo nostro confronto non è la storia dell’azienda, bensì un insieme di argomenti più che mai attuali e urgenti che hanno attraversato e attraversano il percorso imprenditoriale e di vita dell’ideatore di ABOCA. Perché le aspirazioni, le sfide e le preoccupazioni – nel senso letterale di occuparsi di qualcosa prima che accada – travalicano gli steccati delle tradizionali distinzioni per avvincere tutto quanto insieme.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/07/Aboca_Valentino-Mercati.jpg"><img width="1024" height="698" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/07/Aboca_Valentino-Mercati-1024x698.jpg" alt="" class="wp-image-45405" /></a><figcaption>Valentino Mercati, fondatore di ABOCA.</figcaption></figure>



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<h2 id="h-valentino-mercati-ad-di-aboca-il-naturale-non-costa-niente-alle-aziende-se-ci-sono-i-ricavi-ma-quanta-disinformazione">Valentino Mercati, AD di ABOCA: “Il naturale non costa niente alle aziende, se ci sono i ricavi. Ma quanta disinformazione”</h2>



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<p>La nostra intervista parte in quarta da un tema spinoso e quanto mai attuale, dove protagonista è un’Italia bifronte: da un lato le <strong>risorse naturali</strong> e la bellezza, oltre che la predisposizione alla produzione agricola, dall’altro il <strong>selvaggio inquinamento industriale</strong> che ha inferto gravi e pericolose conseguenze. Tra i vari esempi la questione delle mancate bonifiche dei terreni in diverse zone da Nord a Sud, e non dimentichiamo che lo stesso Mercati anni fa aveva&nbsp;evidenziato la pesante contraddizione di trovarsi a confine con terreni coltivati da agricoltori che utilizzavano pesticidi. In seguito dalla Regione Toscana fu creato un tavolo tecnico che conciliasse gli interessi delle parti. In ogni caso, da allora l&#8217;azienda ha investito anche su nuovi terreni agricoli in aree più vaste e sicure, ad esempio in Val di Chiana.</p>



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<p><strong>Come valuta il nostro Paese sul fronte della possibilità di concretizzare un’agricoltura tutelata, se non addirittura biologica?</strong></p>



<p>Il problema è purtroppo diffuso a macchia di leopardo. Non a caso utilizzo la metafora dell’arca di Noè per dire di traghettare verso il futuro, oltre determinate dinamiche. Attualmente abbiamo il grave problema dell’avvelenamento dei pozzi e del sistema vivente. Non possiamo dire che l’agricoltura biologica risolva la questione, ma per come la vedo io è la dimostrazione di un autentico “si può fare!”. Ciò che fa arrabbiare alcuni è che si può fare addirittura con successo, e noi lo abbiamo dimostrato a livello europeo con fatturati, manodopera coinvolta e anche con la condivisione di intenti, che sta alla base di tutto. Questo a dispetto di un’agricoltura che inquina aria, acqua, suolo e cibo.</p>



<p><strong>Sempre a proposito di agricoltura rispettosa dell’ambiente, che senso ha parlare di chilometro zero in zone inquinate e scarsamente tutelate?</strong></p>



<p>Il chilometro zero ha il suo fascino, perché ha il grosso vantaggio di collegare direttamente alla produzione facendo capire di cosa parliamo, oltre al fatto di eliminare i trasporti. Non si tratta però di un aspetto risolutivo come vuole far credere una parte di stampa improvvisata: su questo tema si veicolano stereotipi, sarebbe importante far comprendere le differenze. Negli anni Ottanta esistevano i giornalisti scientifici; adesso dove sono?</p>



<p><strong>Tornando al tema di una produzione rispettosa dell’ambiente e della salute dei fruitori, quanto costa in termini materiali questa attenzione a un’impresa che voglia concretizzarla?</strong></p>



<p>Non costa niente, se poi hai ricavi, e per averli occorre investire. È una questione di coerenza: la mia azienda ha sempre guadagnato perché abbiamo sempre mantenuto le promesse. Se dico che il naturale ha questi vantaggi devo fare il naturale vero. Se ti prometto un vino che non ti infiammi l’intestino e poi ci metto dentro i solfiti per conservarlo di cosa sto parlando? Siamo un’azienda certificata B Corp, ossia per il bene comune: questo non significa fare i francescani ma creare un modo per vivere bene. Ogni volta che facciamo un prodotto i primi a cui pensiamo sono i bambini, e la condivisione nel gruppo di lavoro è uno dei modi che ci permette di lavorare meglio e con successo, non certo la lotta. Poi non tutti reggono, perché pensare in modo libero non è appunto per tutti; risulta difficile soprattutto pensare a quello che ancora non c’è. Ci sono laureati che preferiscono vivere in una gabbia anziché far succedere le cose. Dico sempre ai miei ricercatori di non basarsi sulla bibliografia, ma sui bisogni, su quello che ancora manca, perché è da lì che occorre partire. Ogni volta che scrivo le etichette di un prodotto devo vendere quello che non c’è, ma di cui si ha necessità.</p>



<p><strong>Dove vede l’ostacolo più grande per raggiungere una coerenza nell’ambito del biologico e della tutela di ambiente e salute: nella normativa troppo fragile, nelle leve motivazionali di imprenditori e imprenditrici o nella scarsa valorizzazione generale?</strong></p>



<p>Il problema più grosso è per me l’oscurantismo, che è esistito in ogni epoca, ossia cercare di mantenere lo status quo. Ora l’oscurantismo riguarda, ad esempio, il concentrarsi su alcuni aspetti e non parlare di altri, come gli effetti delle sostanze non biodegradabili che sono deleteri. Si parla poi di intelligenza artificiale, dimenticando pericolosamente che l’uomo non è questo. Se l’artificiale diventa uno dei punti fermi non solo la naturalità viene meno, ma l’umanità stessa salta per aria.</p>



<p><strong>Quindi è la consapevolezza che manca?</strong></p>



<p>Diciamo che in generale viene cercata una soddisfazione nel qui e ora fregandosene del futuro. Il futuro non vota e il domani non interessa a chi ha la pancia piena e sta al caldo. Magari si sa che esiste il problema, ma viene accantonato, e mi stupisce ancora di più che questo avvenga da parte di chi dovrebbe per sua natura proteggere la prole. Le malattie sono già qui e ora in ogni famiglia; non domani. Bisognerebbe far vedere qual è l’incidenza sul sistema immunitario umano da parte della genomica artificiale. Pensiamo poi all’OGM, altro aspetto terrificante: non sappiamo ancora quali saranno gli effetti futuri.</p>



<p><strong>Nel biologico c’è chi tenta di abbassare i paletti e chi li alza per sua scelta: una contraddizione nell’ambito?</strong></p>



<p>Li stiamo alzando anche adesso, i paletti, ed è una questione logica: alzandoli ci guadagniamo di più. Nel momento in cui alziamo i paletti aumentiamo dimensioni di conoscenza che altri non hanno. La differenza fondamentale è tra chi usa il termine naturale come semplice etichetta di marketing e chi, come noi, come vantaggio effettivo sul vivente. Andare in cantina o in vigna cercando di capire le caratteristiche dei lieviti ha ad esempio un vantaggio competitivo pazzesco. Chi fa marketing di apparenza ha vita breve e non regge la competizione in confronto a chi fa le cose in maniera autentica. Poi torniamo alla differenza di prima: c’è chi investe per il futuro e chi solo nel qui e ora, sbagliando.</p>



<p><strong>Anni fa con ABOCA avete ridato dignità al mondo delle sostanze vegetali, affrontandolo con un metodo scientifico rigoroso e includendolo in un contesto integrato alla medicina. Ora invece qual è la situazione?</strong></p>



<p>Per noi paradossalmente risulta più facile perché il naturale risponde a esigenze di salute non ancora coperte. Occorre comprendere che per far sopravvivere il vivente occorre il vero vivente, e non ad esempio la nutraceutica, che è un’aberrazione perché porta all’interno dell’alimentazione i concetti di artificialità, in contrasto con quanto detto prima.</p>



<p><strong>Nutrirsi bene è un diritto di tutti, eppure chi ha scarsa disponibilità economica non può: il problema della fruizione elitaria di determinati prodotti esiste. Dall’altro il lavoro di chi si impegna ogni giorno per realizzarli deve essere giustamente riconosciuto. Questo aut aut resterà irrisolvibile?</strong></p>



<p>Questo è un dilemma, oltre che una deformazione, su cui ci confrontiamo tutti i giorni. La qualità va valorizzata, ma allo stesso tempo le persone vanno difese da cibi che aumentano la possibilità di ammalarsi. Certo, c’è poi chi dice che il biologico costa e lo esclude dalla sua vita, ma magari intanto ha quattro cellulari.</p>



<p><strong>Abbiamo parlato di produzione e di consumatori, ma resta una domanda cardine: possiamo dire che la qualità di un prodotto e la soddisfazione di chi ne fruisce passino necessariamente attraverso la qualità delle condizioni e delle tutele di chi lavora?</strong></p>



<p>Sì, per avere un buon prodotto finale occorre essere messi nella condizione di poter lavorare bene. Mia madre diceva che il lavoro è un dono di Dio, non una schiavitù. Andare al lavoro deve gratificare: da questo dipende anche la qualità del prodotto. Il lavoro va accompagnato da amore e consapevolezza.</p>


Erediteremo malattie, non guadagni. Il naturale di ABOCA e la miopia della politica


<p>L’intesa tra le parti sociali è arrivata. La mediazione tra governo, Confindustria e sindacati ha prodotto l’impegno, per le aziende, di utilizzare gli ammortizzatori sociali prima di procedere con i licenziamenti. Sul tavolo un pacchetto di <strong>tredici settimane di cassa integrazione gratuita</strong>, mentre rimane il blocco per i settori più in crisi, come il tessile e la moda.</p>



<p>Di fatto un’estensione parziale e un concreto cuscinetto, che per ora rimanda ma non elude in via definitiva il rischio tanto paventato di una bomba sociale. Seguendo il ragionamento, nel breve periodo non dovremmo contare nuove fasce in bilico, anche se il tema del <strong>Reddito di Cittadinanza</strong> e delle politiche attive rimane in ogni caso di assoluta attualità. Se non altro nell’analisi del numero di beneficiari del Reddito, già di per sé piuttosto impattante.</p>



<p>Ad aprile 2021 sono infatti più di un milione e mezzo i percettori a sistema, di cui un milione soggetto al patto per il lavoro. Il 31% di questi, pari quindi a 327.555 cittadini, è in carico ai <strong>navigator</strong>, in un processo volto al reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro. Dati senz’altro interessanti ed estrapolati dal report messo a punto a inizio giugno da A.N.NA., l’Associazione Nazionale Navigator, con l’obiettivo di contestualizzare il lavoro sin qui svolto da quella che, a tutti gli effetti, si può definire una nuova e molto discussa professione.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/07/importo-rdc.jpeg"><img width="719" height="363" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/07/importo-rdc.jpeg" alt="" class="wp-image-45372" /></a><figcaption><em>Fonte: report navigator <em>del 17/06/2021</em> realizzato da A.N.NA.</em></figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-a-n-na-ha-scritto-un-report-l-associazione-dei-navigator-fa-il-punto-della-situazione">A.N.NA. ha scritto un report: l’associazione dei navigator fa il punto della situazione</h2>



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<p>Il report, presentato nei giorni scorsi al Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza, è nato con l’ambizione di raccogliere tutti gli elementi statistici su base nazionale, come racconta <strong>Antonio Lenzi</strong>, responsabile comunicazione di A.N.NA.</p>



<p>“Il principale scopo è di sistematizzare tutto quello che riguarda la nostra attività. I dati non sono nuovi, ma fino ad oggi sono stati troppo spezzettati. Con il <strong>report</strong> è invece possibile interpretare con un unico documento il nostro operato e, aspetto non secondario, è strumento utile per elaborare il contesto. Cerchiamo cioè di ricostruire il quadro di riferimento mettendo in luce quello che ha funzionato e denunciando quello che è mancato, soprattutto a livello infrastrutturale.”</p>



<p>Altro obiettivo di questo “libro bianco” è sottolineare i <strong>difetti strutturali del sistema Italia</strong> rispetto alle politiche attive, problemi odierni che se non affrontati ci saranno anche domani, per qualsiasi futura riforma. “Quello che diciamo nel documento è che bisogna ragionare, che bisogna vedere le cose a livello sistemico. Non è con il mero inserimento di 11.000 persone nei centri per l’impiego che si risolverà la questione”.</p>



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<h2 id="h-luca-sabatino-navigator-assumerne-altri-inutile-senza-una-cabina-di-regia">Luca Sabatino, navigator: “Assumerne altri è inutile, senza una cabina di regia”</h2>



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<p>Nel frattempo, però, il <strong>ministro del Lavoro</strong> <strong>Orlando</strong> sarebbe intenzionato a mettere a disposizione <strong>nove miliardi</strong>, tra risorse nazionali ed europee del Recovery, per riqualificare tre milioni di persone entro il 2025. Piano da varare entro l’anno che conta anche un miliardo e mezzo per le infrastrutture dei centri per l’impiego e, appunto, per l’assunzione di 11.600 nuovi operatori.</p>



<p>Inserimenti utili? Chissà. “Una riforma strutturale delle politiche attive del lavoro è necessaria per garantire, anzitutto, un sistema chiaro e organizzato. Perché, detto tra noi, possiamo assumere anche centomila persone, ma senza una <strong>cabina di regia</strong> funzionante, è impossibile analizzare il nostro operato, né quello di chi eventualmente arriverà in futuro”.</p>



<p>A parlare in questo caso è <strong>Luca Sabatino</strong>, coordinatore del report, convinto che il documento redatto possa aiutare a valutare l’attività dei navigator con un occhio professionale diverso. Questione di punti di vista, perché senza inquadramento e un doveroso approfondimento i dati sul Reddito di Cittadinanza rischiano di suffragare la percezione della platea che <strong>grida al fallimento dell’iniziativa</strong>. Platea che nelle ultime settimane popola, spesso senza contradittorio, le prime pagine di molte testate.</p>



<p>“Il numero senza commento può portare a conclusioni affrettate; da qui l’idea di un sunto necessario a evidenziare i <strong>punti di forza del nostro lavoro</strong> e le tante aree di <strong>miglioramento</strong>. Siamo stanchi di sentire sempre le stesse banalità.”</p>



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<h2 id="h-campania-un-navigator-su-cinque-fermo-per-un-anno-in-una-delle-regioni-pi-bisognose">Campania, un navigator su cinque fermo per un anno in una delle Regioni più bisognose</h2>



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<p>E in effetti a Sabatino gli argomenti originali non mancano. Campano, laureato in economia e management con specializzazione in marketing, ha iniziato la sua avventura a Capua, provincia di Caserta. Regione non proprio favorevole per un navigator: quasi trecentomila beneficiari, di fatto un terzo del totale nazionale, e appena quattrocento navigator in attività, diminuito di settanta risorse dalla cifra iniziale. Ciò significa, in media, dai settecento agli ottocento percettori per ogni operatore, contro i centocinquanta previsti a contratto.</p>



<p>“Tutto questo in un contesto politico penalizzante, che ha ritardato l’inizio del nostro mandato e che ancora oggi ci vede distanti dai centri per l’impiego, con i quali collaboriamo solo virtualmente. Abbiamo iniziato da un paio di mesi a prestare servizio in modo fattivo sui beneficiari, come i colleghi delle altre Regioni”.</p>



<p>In buona sostanza, su <strong>2.700 navigator</strong> ancora attivi in Italia, circa <strong>il 20% è rimasto ai box per un anno</strong>, per poi entrare in scena nel cuore della pandemia. E si tratta proprio dei <strong>campani</strong>, cioè di chi detiene il fardello più importante. Visto sotto questa luce, il 25% dei beneficiari che al 31 ottobre 2020 – su scala nazionale – ha stipulato almeno un contratto di lavoro gode di un peso specifico ben diverso.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/07/flusso-navigator.jpeg"><img width="723" height="381" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/07/flusso-navigator.jpeg" alt="" class="wp-image-45373" /></a><figcaption><em>Fonte: report navigator <em>del 17/06/2021</em></em>,<em> realizzato da A.N.NA.</em> </figcaption></figure></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>Davvero quindi i beneficiari <strong>preferiscono il Reddito di Cittadinanza alle proposte di ricollocamento</strong>? “Non ti posso dire che tutti siano onesti, ma posso garantire quello che vedo sul campo: la maggior parte delle persone intende tornare in pista. Non serve un genio per capire che la liquidità garantita dal Reddito non è sufficiente per sfamare una famiglia. E non serve un genio per capire che <strong>le persone ambiscono al riconoscimento sociale, alla dignità del lavoro</strong>”.</p>



<p>Per restare al caso Campania, la <strong>mappatura per le opportunità professionali</strong> funziona? “Non conosco i numeri ufficiali, li detiene ANPAL. Io sono riuscito a mappare appena tre o quattro realtà con effettive ricerche di lavoro attive. Anche in questo caso è importante leggere il dato in maniera completa. Nella nostra Regione abbiamo fino a mille aziende a testa da schedare, e nella maggior parte dei casi non abbiamo strumenti per metterci in contatto. Tante piccole e medie imprese sono ancora sprovviste di sito internet ufficiale, e al telefono non rispondono. La situazione, in generale, non è paragonabile per ovvi motivi a quella dei colleghi di altri territori”.</p>



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<h2 id="h-il-report-non-una-difesa-corporativa-ecco-le-proposte-per-migliorare">“Il report non è una difesa corporativa: ecco le proposte per migliorare”</h2>



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<p>Tornando al report nazionale, invece, quali sono le idee dei navigator sul tavolo?</p>



<p>“Il progetto propone <strong>cinque linee guida</strong> per una riforma strutturale. Valorizzazione del capitale umano oggi esistente, sistema di governance efficace, sistemi informatici integrati, sinergia tra tutti gli attori coinvolti e navigator con un ruolo più ampio, con uno sguardo verso tutti coloro che hanno necessità di essere inseriti nel mondo del lavoro. Un documento che ha il merito di non essere una difesa corporativa del nostro lavoro, ma che offre un panorama esteso di proposte”, conclude Sabatino.</p>



<p>Facile a dirsi. Per il momento forse è meglio limitarsi agli elementi del report che a consuntivo evidenziano la bontà del progetto, se non altro per le condizioni di equità che di rado si trovano nelle aziende, anche le più lungimiranti. Le <strong>donne</strong>, infatti, sono <strong>in maggioranza nel gruppo navigator</strong> e rappresentano il 54% del totale. Il 76% dei selezionati ha meno di quarant’anni e il voto medio di laurea è 107 su 110. I titoli di studio spaziano da giurisprudenza a psicologia, passando per le scienze economiche, politiche, sociali e educative. Non mancano inoltre lauree in sociologia e in scienze delle pubbliche amministrazioni.</p>



<p>Insomma, una squadra che ha tutte le caratteristiche per garantire un <strong>valore aggiunto al sistema Italia</strong>, dove ancora oggi quattro milioni e mezzo di individui vivono in condizioni di povertà. Dove la marginalizzazione sociale e la mancanza di risorse non è un tema secondario. Dove a far da contraltare ci sono percettori di Reddito di Cittadinanza che, nonostante l’età media di trentacinque anni, soffrono a causa di una bassa scolarizzazione (il 72% ha appena la licenza media) e di un <em>digital divide</em> ancora troppo diffuso.</p>



<p>Un Paese dove permane, e questo è un fatto incontrovertibile, un <strong>disperato bisogno di competenze</strong>. Perché gli ammortizzatori sociali aggiuntivi, inutile dirlo, non sono sufficienti per chiudere la partita.</p>



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<p><em>Photo credits: siracusapress.it</em></p>


11.600 nuovi navigator, serviranno? Ecco cosa dice il report di categoria

<p><strong><em>Poliestere</em></strong> di <strong>Luca Bertolotti</strong>, uscito per Fandango, è un libro forte, netto, d’impatto, con una trama originale e profonda che non si dimentica.</p>
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<h2 id="h-la-fabbrica-l-arte-e-lo-sfruttamento-la-caduta-del-protagonista-di-poliestere">La fabbrica, l’arte e lo sfruttamento. La caduta del protagonista di <em>Poliestere</em></h2>
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<p>Per <strong>Livio</strong>, il protagonista, <strong>il lavoro è tutto</strong>: rappresenta la dignità necessaria per stare al mondo, il lasciapassare indispensabile al raggiungimento e alla legittimazione dei traguardi non solo professionali, ma anche della sua vita di uomo. Una mentalità derivata dall’educazione ricevuta dal padre, proprietario di una piccola verniciatura, e dall’essere nato e cresciuto in Brianza, nel distretto del mobile, nel quale il lavoro in quel settore è un destino prestabilito.</p>
<p>In Livio, però, arde il fuoco dell’<strong>arte</strong>: passione, attitudine e desiderio, sacrificati sull’altare della concretezza, rappresentata dalla piccola ditta del genitore. Una volta imparati i rudimenti lavorerà in un’altra ditta, ma tutto cambierà con la crisi del settore. Incontriamo il protagonista quando tutto questo è già accaduto, in un momento di grande sbandamento personale: si trova disoccupato a trentacinque anni, nel pieno di un vuoto esistenziale. Avrebbe diritto alla NASpi, ma non vuole l’aiuto dello Stato, convinto che il suo mestiere – operaio specializzato in verniciatura – lo metterà in condizione di trovare un nuovo datore di lavoro.</p>
<p>Livio conosce lo <strong>sradicamento emotivo e materiale</strong> di sopravvivere senza un impiego: il suo universo va in pezzi e in lui, sempre più alla deriva, si fa strada una sorta di alienazione che avrà come protagonista la sua magnetica attrazione per l’arte.</p>
<p>La svolta, però, arriverà con il volto di <strong>Elia</strong>, amico fraterno dall’infanzia all’adolescenza, perso di vista in età adulta. Diventato amministratore delegato di un’azienda del mobile, offre a occhi chiusi un lavoro a Livio, ma il contesto in cui lo colloca è tutt’altro che roseo.</p>
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<h2 id="h-poliestere-avvelenarsi-per-lavorare-lavorare-per-vivere"><em>Poliestere</em>: avvelenarsi per lavorare, lavorare per vivere</h2>
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<p><em>Poliestere </em>racconta bene, senza edulcorazioni (e qui risiede la sua forza), la cruda dimensione di un <strong>lavoro al limite</strong>: l’accettare, per necessità, di barattare la propria salute e sicurezza con un’occupazione.</p>
<p>La fabbrica di Elia è una piccola realtà che, per sopravvivere alla crisi, si accaparra commesse destinate all’estero, le quali si traducono in <strong>carichi di lavoro massacranti</strong> e senza respiro per i pochi operai. In nessun reparto le <strong>norme antinfortunistiche</strong> vengono rispettate; anzi sono viste – a volte dagli stessi operatori – come un ostacolo che rallenta i tempi serrati della produzione.</p>
<p>Niente della cabina di verniciatura di Livio è a norma: distanze, filtri, sostanze usate, aspirazione. Non si vernicia all’acqua perché non c’è il tempo di far asciugare i mobili per i minuti necessari, ma al contempo in busta paga non c’è l’indennità di nocività, perché vista come un “palliativo”. Insomma: <strong>spruzzare poliestere</strong> in quelle condizioni vuol dire <strong>avvelenarsi</strong> in maniera conscia, lavorando a ritmi sovrumani; il protagonista lo accetta solo perché, nella sua situazione, gli appare come il male minore.</p>
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<h2 id="h-la-fabbrica-e-i-suoi-dannati">La fabbrica e i suoi dannati</h2>
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<p>Bertolotti disegna agli occhi del lettore un particolareggiato, dettagliato e fedele universo-fabbrica: pian piano conosciamo reparti, mansioni, ritmi e soprattutto persone. I <strong>colleghi</strong> di Livio sono un altro punto di forza del romanzo: tratteggiati in maniera agile, ci appaiono vividi nella loro frenesia lavorativa, molto ben caratterizzati in approcci e idee diverse, spesso opposte.</p>
<p>La loro presenza letteraria si concretizza in voci, atteggiamenti, gesti e indoli: sono anime più che corpi, nonostante agiscano il mestiere tramite l’apoteosi della concretezza fisica. In ognuno troviamo la consapevolezza dei rischi corsi e la medesima <strong>delusione</strong> di Livio (a volte rabbiosa, altre rassegnata) davanti alle promesse infrante, remunerative o di miglioramento delle condizioni in fabbrica.</p>
<p>Quando il lavoro è ricatto il repertorio delle bassezze è pietosamente ricco: Elia ingaggia, con una <strong>cooperativa non in regola</strong>, anche gli ultimi fra gli ultimi. Un gruppo di pakistani, infatti, &nbsp;aiuta i suoi operai quando si rischia di non terminare tutto il lavoro in tempo per le consegne. A questo quadro tossico non manca nemmeno la <strong>corruzione</strong>, che viene attuata su controlli e certificazioni.</p>
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<h2 id="h-l-ambiguo-rapporto-tra-i-personaggi-principali-l-amicizia-che-conduce-allo-sfruttamento">L’ambiguo rapporto tra i personaggi principali: l’amicizia che conduce allo sfruttamento</h2>
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<p>Non solo fabbrica: <em>Poliestere</em> possiede un intreccio, un sottotesto che lo percorre e regge, in cui si parla di amicizia, della difficoltà e del <strong>bisogno di affrancarsi dal passato comune</strong>, e di come in nome della solidarietà e dell’appartenenza che tale sentimento produce si possa volontariamente valicare il confine fra giusto e sbagliato.</p>
<p>L’autore crea fra <strong>Livio</strong> ed <strong>Elia</strong> un raffinato gioco di specchi che rimanda <strong>più ombre che luci</strong>. Il loro essere da sempre due opposti non produce la distruzione del rapporto, bensì una sua costante conservazione nonostante tutto. Elia è un personaggio fortemente ambiguo, il cui bruciante contrasto fra gioventù ed età adulta lascia sul filo, intrigando, incuriosendo; se ne cerca una lettura univoca come una soluzione a un enigma.</p>
<p>In lui, infatti, abitano spinte contrarie: l’idealismo più puro e il peggior capitalismo, l’amore amicale e lo sfruttamento ingrato e indifferente proprio verso gli amici.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-poliestere">Perché leggere <em>Poliestere</em></h2>
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<p>È un libro che andrebbe letto per capire da dentro, da una situazione più reale che romanzata, come spesso la <strong>logica del profitto si scontri con il benessere</strong> delle persone e il loro diritto a un lavoro dignitoso. E che, ancor di più, la sicurezza è un diritto, non un premio, e non si può più accettare che certi datori di lavoro la barattino con l’occupazione, attuando un ricatto, né più né meno.</p>
<p><em>Poliestere</em> ha la forza del reale, del <strong>racconto autentico</strong> di una quotidianità spietata su cui, a torto, i riflettori si accendono solo quando accade la tragedia. Luca Bertolotti ha scritto un romanzo riuscito, in cui il lavoro si può definire coprotagonista, legante che tiene insieme tutta la trama, la quale poi risulta sorprendente negli sviluppi d’azione, attenta e ricercata nei suoi rimandi temporali e di senso, fine e acuta nel dipanarsi dei risvolti umani.</p>


Avvelenati dal lavoro. La classe operaia va all&#8217;inferno

Una storia di lavoro che dà dignità e sopravvivenza, al prezzo di un intreccio letale con sfruttamento e mancata sicurezza. Recensiamo &#8220;Poliestere&#8221; di Luca Bertolotti.

Avvelenati dal lavoro. La classe operaia va all&#8217;inferno - Informazione senza filtro

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Dietro il cibo c’è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta: è tempo di spostare l’attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri e capire i meccanismi dietro alla produzione del nostro pane quotidiano.

Numero 104 - Mangiare per credere


<p>Parlare di cibo significa parlare anche di sicurezza, storia, antropologia, turismo, salute.</p>



<p>Per scoprire meglio lo stato dell’arte di questo settore dal punto di vista professionale e degli esercizi commerciali – le <strong>gastronomie</strong> – ci siamo interfacciati con chi conosce approfonditamente le diverse sfaccettature dell’ambito: <strong>Paolo Tegoni</strong> e <strong>Giorgio Maria Zinno</strong>, rispettivamente presidente e segretario dell’<strong>Associazione Gastronomi Professionisti</strong>.</p>



<p>Nata nel 2019 e con sede a Parma, una delle province più riconosciute e ammirate in Italia dal punto di vista gastronomico, la realtà è stata fondata proprio da gastronomi professionisti che si occupano anche di didattica e formazione alta sul tema, collaborando con le università e facendo interventi di sensibilizzazione nelle scuole di vario ordine e grado.</p>



<p>“Il lavoro del gastronomo ha miriadi di applicazioni possibili, e tutte importanti”, chiarisce subito Giorgio Zinno.</p>



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<h2 id="h-i-gastronomi-professionisti-narratori-del-cibo-e-del-territorio">I gastronomi professionisti, narratori del cibo e del territorio</h2>



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<p>La chiarezza prima di tutto: che cosa fa il gastronomo professionista? L’associazione parmense dà una definizione chiara e che vuole rendere giustizia alle diverse sfaccettature della professione, così come esplicitato sul sito istituzionale.</p>



<p><strong>“</strong>Il&nbsp;<strong>gastronomo professionista</strong>&nbsp;studia le dinamiche del cibo dalle sue origini alla produzione e al consumo. È un attento conoscitore dei territori, delle produzioni locali, dei mercati e dei vini. Degusta, distingue e giudica i prodotti, consapevole dei valori nutrizionali, identitari, etici e simbolici che essi rappresentano e racchiudono. Protegge e trasmette le peculiarità delle filiere agroalimentari.”</p>



<p>Chiarito questo punto importante chiediamo: che cosa significa essere gastronomi e gastronome oggi, anche rispetto al territorio?<strong> </strong>“Possiamo definirci dei<strong> comunicatori </strong>che mettono in risalto il <strong>portato culturale</strong> di un territorio dal punto di vista dei prodotti del settore agroalimentare”, sottolinea Paolo Tegoni. “Siamo quindi anche dei <strong>narratori attraverso il cibo</strong>, cartina tornasole straordinaria. Il gastronomo diventa così una figura indispensabile per tenere uno stretto contatto tra il pubblico e quel determinato territorio. Attenzione però, io sono parmense, ma ciò non significa che sia focalizzato solo su questo contesto: possiamo spaziare in ogni luogo, sia dal punto di vista scientifico che umanistico e letterario”.</p>



<p>Dal vostro osservatorio avete percezione che la figura del gastronomo e della gastronoma sia valorizzata a livello di formazione e di controlli, e quindi di tutela, oppure l’improvvisazione è un rischio che s’intrufola spesso in quest’ambito? “L’improvvisazione purtroppo esiste eccome”, chiosa Tegoni. “La nostra associazione è nata apposta per valorizzare la <strong>formazione</strong> con il corso di <strong>scienze gastronomiche</strong>. Si tratta di un lavoro che richiede preparazione”.</p>



<p>“Da un lato siamo fortunati perché i <strong>consumatori</strong> stanno aiutando a eliminare gli improvvisati”, sottolinea Zinno. “In particolar modo la pandemia ha fatto da setaccio a maglie più strette rispetto agli improvvisati, alzando l’asticella della richiesta di qualità e sicurezza. Dall’altro lato c’è tuttora tanta gente che ci prova, a improvvisarsi con la gastronomia. Anche come esercizio commerciale, ossia le gastronomie”.</p>



<p>Un esempio? “Pensiamo alle numerose call che girano adesso su <strong>LinkedIn</strong> in cui si scrive di ricercare gastronomi, ma in realtà, guardando la descrizione, vengono richiesti dei <strong>banconisti</strong>. C’è molta confusione tra i ruoli, con il rischio di dare un’immagine stereotipata del gastronomo, da alcuni ancora identificato con la figura sorridente al bancone che serve i prodotti e magari ti regala un grammo in più di prosciutto. In realtà nella nostra figura c’è ben di più”.</p>



<p>I nostri intervistati segnalano che ad oggi <strong>non esiste un</strong> <strong>albo</strong> e che risulta difficile inquadrare la categoria. “Per noi resta importante essere prima di tutto un’associazione di promozione sociale, raggiungendo le persone e facendo conoscere il vero ruolo dei gastronomi”, ribadiscono.</p>



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<h2 id="h-ristoranti-e-gastronomie-la-concorrenza-che-non-ti-aspetti">Ristoranti e gastronomie, la concorrenza che non ti aspetti</h2>



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<p>Le gastronomie nel tempo hanno saputo sempre più rinnovarsi, intercettando clientela che non solo porta a casa cibo già accuratamente cucinato, ma che si ferma magari in loco ad assaggiarlo o a consumarlo. Con i referenti dell’Associazione Gastronomi Professionisti riflettiamo sul <strong>rapporto tra gastronomie e ristoranti</strong>, e chiediamo: tra loro sono competitor, complici o segmenti diversi di uno stesso grande ambito?</p>



<p>“Probabilmente c’è una sorta di <strong>concorrenza</strong>”, riflette Tegoni. “Dall’altro lato però comprendo bene se una gastronomia punta a fare di più, ad esempio degustazioni, ovviamente nei termini in cui è possibile farlo e rispettando tutte le regole previste. È chiaro che questo incide sulla ristorazione, dove, non va dimenticato, c’è un corollario d’insieme che va al di là della pari qualità di prodotto, che non dipende dal fatto di essere un ristorante o una gastronomia”.</p>



<p>Ragionando sul fronte della <strong>cultura del lavoro </strong>Giorgio Zinno ci segnala un importante cambiamento rispetto alle figure lavorative: “I cuochi, ad esempio, sembrano ora puntare più a offerte di lavoro in grado di assicurare una maggiore<strong> libertà di tempo</strong> per sé piuttosto che a quelle che promettono maggiore remunerazione ma minor tempo libero”. Dati per testimoniare il fenomeno non ne abbiamo, ma ci troviamo sicuramente di fronte a una fase di cambiamento nel settore.</p>



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<h2 id="h-gastronomie-di-quartiere-vs-centri-commerciali-quali-sono-migliori">Gastronomie di quartiere vs centri commerciali: quali sono migliori?</h2>



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<p>Focalizzandoci sul tema delle gastronomie come esercizio commerciale, queste si dividono in due tipologie: il <strong>negozio di quartiere</strong>, magari anche in centro città, oppure la <strong>gastronomia all’interno del supermercato</strong> o del <strong>centro commerciale</strong>.</p>



<p>Ci sono differenze da voi rilevate in merito al servizio o alla qualità del prodotto? “La gastronomia della grande catena fa spesso più gola, perché mediamente consente di accedere a una parte di <strong>artigianalità</strong> anche a chi non ha determinate disponibilità economiche”, spiega Zinno. “Poi molto dipende dal contesto: mi è ad esempio capitato di trovare più selezione di salumi in una gastronomia di una conosciuta catena di supermercati che nella gastronomia di quartiere che magari non ha saputo <strong>rinnovarsi</strong>. Ci sono infatti gastronomie scomparse perché rimaste indietro o che si sono trasformate, raggiungendo così un livello elevatissimo”.</p>



<p>“Chi fa un lavoro di ricerca sugli alimenti, ad esempio sui formaggi, salumi, prodotti ittici o vino, poi raggiunge determinati traguardi e riesce a distinguersi rispetto all’offerta del supermercato. Ci sono però tanti tipi di qualità e <strong>il filtro lo fa il</strong> <strong>consumatore</strong>. C’è chi cerca più l’aspetto della salute, ad esempio un salume con meno grassi, e chi punta più alla tipicità o all’aspetto edonistico del cibo”.</p>



<p>Restando in tema, con <em>SenzaFiltro</em> abbiamo intercettato una segnalazione da parte di lavoratori che prestano servizio nelle gastronomie dei supermercati: in diversi lamentano una criticità, ossia la <strong>scarsità di personale</strong>. Questo determinerebbe maggior impegno e ritmo incalzante per loro. Da parte delle persone con cui vi interfacciate e che svolgono questo lavoro avete mai colto questa problematica? “Già da tempo conosco persone che lavorano in questi ambiti e che lamentano mancanza di personale”, afferma Tegoni. “Questo a detrimento della qualità del servizio, implicando anche turni più gravosi”.</p>



<p>“C’è anche la questione che ora vengono richieste <strong>competenze più elevate</strong> in termini di <strong>sicurezza e HACCP</strong>”, commenta Zinno. “Il fatto che alcune catene magari richiedano persone già formate e non investano loro stesse nella formazione crea magari più difficoltà nel reperimento delle persone adatte, e di conseguenza nella gestione del lavoro”.</p>



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<h2 id="h-gastronomi-cosa-serve-cosa-manca">Gastronomi, cosa serve, cosa manca</h2>



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<p>Abbiamo parlato di diversi aspetti, ma secondo voi che cosa manca tuttora nel settore della <strong>gastronomia</strong> – e che voi caldeggiate affinché venga sviluppato – per tutelare chi lo fa per lavoro, e i consumatori stessi?</p>



<p>“È necessario più che mai sviluppare una <strong>buona formazione</strong> in giovane età, Qui nel parmense avviene già da tempo grazie a una società chiamata<strong> Madegus</strong>, con cui collaboriamo”, specifica Tegoni. “Occorre prendere coscienza del <strong>valore del cibo</strong> fin da giovani e considerarlo un fattore culturale, che deriva dal lavoro dell’uomo in diversi contesti che coinvolgono la storia e la geografia. Dopo di che ci sarebbe da affrontare un percorso universitario, se possibile. Se fossi ministro batterei duro su questo tasto e inserirei nel programma scolastico, fin da bambini, la conoscenza e il valore del cibo, in modo ludico e adatto all’età, ma in maniera capillare e a livello nazionale. Questo formerebbe una società migliore anche sul tema dello <strong>spreco</strong> e della <strong>responsabilità</strong>, arrivando a comprendere meglio la figura del gastronomo oggi”.</p>



<p>“Una formazione come quella di cui parliamo eviterebbe lo <strong>scollamento</strong> tra i <strong>bambini</strong> e l’<strong>educazione al cibo </strong>che tuttora sussiste”, riflette Giorgio Zinno. “Mi è capitato di sentire bambini a scuola che pensavano che il latte si facesse con la farina perché bianca. Questa formazione permetterebbe anche un consumo più <strong>consapevole </strong>e <strong>salutare</strong> oltre che un rispetto maggiore nei confronti dell’<strong>ambiente</strong>, quanto mai essenziale per l’oggi e per il domani”.</p>



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Ditelo ai gastronomi che la cultura non si mangia


<p>“Ci sono le donne”: si dice così nel gergo dell’industria alimentare quando si vuole indicare la fase di cernita, selezione e confezionamento di frutta e verdura nella linea produttiva.</p>



<p>Un processo che, come spiega <strong>Alessandra Ravaioli</strong>, presidente dell’Associazione nazionale Donne dell’Ortofrutta, per tradizione è affidato in larga parte alla compagine femminile impiegata nella filiera agroalimentare.</p>



<p>Qui le<strong> donne</strong>, che rappresentano quasi il 70% della forza lavoro secondo i numeri dell’Associazione, “giocano un ruolo chiave, soprattutto in quanto deputate alle attività di<strong> controllo qualità</strong>, probabilmente in virtù dell’attenzione particolare che hanno per questo aspetto”. Un atteggiamento e un approccio al prodotto che, secondo Ravaioli, rivela la capacità specialmente femminile di empatizzare con il consumatore finale: un vantaggio per chi acquista e per l’industria stessa, che si trova a commercializzare materie prime Made in Italy di alto livello.</p>



<p>Specialmente femminile sì, ma non unicamente, perché proprio gli <strong>stereotipi</strong> rischiano di essere controproducenti, e “la competenza – prosegue Ravaioli – va rivendicata a prescindere dal genere”.</p>



<p>Eppure, guardando ai due estremi della filiera, non è sempre facile ritrovare l’applicazione di questo principio: a monte, <strong>ai tavoli istituzionali, la presenza delle donne si dirada</strong>, col rischio di perdere di vista alcune questioni cruciali per le lavoratrici; mentre a valle la manodopera femminile – così come quella maschile – assume spesso i connotati dello sfruttamento e della discriminazione, aggravati da violenze a sfondo sessuale.</p>



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<h2 id="h-le-braccianti-discriminate-al-sud-come-al-nord">Le braccianti, discriminate al Sud come al Nord</h2>



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<p>Di questi fatti sono testimoni alcuni recenti reportage sulla condizione di schiavitù in cui versano le lavoranti indiane dell’Agro Pontino o le <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/emancipazione-e-sfruttamento-sanno-di-fragole/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">braccianti dedite alla raccolta di fragole</a>, pomodori e frutti rossi di Spagna, Marocco e Sud Italia.</p>



<p>L’indagine (realizzata da CREA insieme al Mipaaf nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale 2014-2020&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp; nell’arco ionico, un territorio a elevato rendimento agricolo tra la Puglia, la Basilicata e la Calabria) rivela la presenza di <strong>22.702 donne impegnate nell’agricoltura, di cui 5.901 straniere </strong>(26%). Di queste, oltre il 76% proviene da Paesi dell’Unione europea (soprattutto Romania e Bulgaria), per un’incidenza pari al 20% sulla manodopera comunitaria nell’area.</p>



<p>E tuttavia, le stime effettuate sulle giornate lavorative in rapporto agli ettari coltivati risultano superiori ai dati ISTAT e INPS sulla disponibilità di manodopera familiare ed extrafamiliare, a conferma del fatto che qui <strong>gran parte del lavoro non viene regolarizzato</strong> o non raggiunge i livelli minimi per l’accesso a misure di welfare basilari.</p>



<p>A mancare in questo pezzo di filiera è la dignità delle lavoratrici, non solo straniere: a cominciare dalla retribuzione e dalle condizioni di vita e lavoro, per finire con i servizi di prima necessità e supporto. Una lacuna, quest’ultima, che accomuna anche alcune delle imprenditrici agricole del nord.</p>



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<h2 id="h-le-imprenditrici-agricole-lavorano-in-campagna-in-casa-e-in-famiglia">Le imprenditrici agricole lavorano in campagna, in casa e in famiglia</h2>



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<p>Secondo i dati ISTAT, solo il <strong>31% circa delle cariche imprenditoriali</strong> del settore primario è <strong>ricoperto da donne</strong>. Alla disparità numerica si aggiunge il dato anagrafico: il segmento agricolo conta su una popolazione piuttosto matura (il 70% dei titolari ha più di 50 anni) con una buona percentuale di aziende familiari (30,7%).</p>



<p>“Tutti fattori che concorrono alla difficoltà delle donne di inserirsi, soprattutto se giovani”, afferma <strong>Luana Tampieri</strong>, presidente regionale Emilia-Romagna dell’Associazione Donne in Campo-CIA. E questo nonostante il grado di istruzione femminile sia generalmente superiore rispetto a quello maschile. O a dispetto del fatto che le donne, più spesso degli uomini, sono promotrici di iniziative volte a garantire l’ecosostenibilità dei processi e incrementare la multifunzionalità aziendale, con l’apertura di agriturismi e fattorie didattiche integrate all’attività principale. Direzioni fortemente incoraggiate dai piani di sviluppo nazionali ed europei. Però, “per quanto riguarda le politiche sociali veramente a sostegno e tutela della donna imprenditrice o lavoratrice”, sottolinea Tampieri, “c’è ancora tanto da fare”.</p>



<p>Tra le principali carenze rilevate dalla presidente rientrano anche la <strong>mancata estensione della Legge 104 per chi ha partita Iva</strong>, o il tema “tabù” della <strong>maternità</strong>, che induce molte donne a “lavorare fino alla fine”, con tutti i rischi che questo comporta. Ma a mancare sono anche i servizi: punti nascita, ospedali e asili nelle zone rurali o doposcuola prolungati che agevolino e incentivino le donne nelle loro attività di produzione e cura della famiglia. Due ruoli complementari, di cui molte si fanno carico anche per via della promiscuità tra luogo di lavoro e abitazione tipica del settore primario.</p>



<p>“Se dici che abiti in campagna, le badanti non vengono perché giustamente preferiscono il centro città e le varie opportunità che offre. Persino certi medici di base si rifiutano di andare nelle aree più difficoltose da raggiungere”, prosegue. Il risultato è che <strong>chi vive lì si trova generalmente isolato</strong> e le donne ricadono in quella “povertà di tempo, in conseguenza dei compiti che si accumulano sulle loro spalle al di fuori del lavoro” ben descritta anche dal rapporto ILO 2018 relativo a donne e lavoro.</p>



<p>“Non si quantificano mai il tempo e l’impegno che poi la donna dedica a questa <strong>assistenza non pagata</strong>”, aggiunge Tampieri. Un calcolo che la FAO, nella sua recente pubblicazione <em>Rural women and girls 25 years after Beijing, </em>valuta tra le due e le dieci volte superiore rispetto a quello maschile su scala globale. <em>&nbsp;&nbsp;</em></p>



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<h2 id="h-il-ruolo-silente-delle-donne-neglette-a-supporto-della-pesca">Il ruolo silente delle donne “neglette” a supporto della pesca</h2>



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<p>Se ci si sposta dall’entroterra al mare la situazione non cambia molto. Soprattutto per quelle che <strong>Adriana Celestini</strong>, già presidente dell’Associazione Penelope-Donne nella Pesca, chiama “<strong>le neglette</strong>”. Non le imprenditrici, le lavoratrici delle cooperative, le impiegate della filiera o delle capitanerie, che possono contare su un inquadramento formale e una retribuzione precisa, ma le mogli, le compagne, le cosiddette “<strong>coadiuvanti</strong>” dell’impresa familiare: posizione che esiste già, a livello giuridico, per le donne dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Non per quelle della <strong>pesca</strong>, che pure svolgono un’attività fondamentale occupandosi di tutti gli aspetti legati alla commercializzazione, alle pratiche burocratiche e all’amministrazione.</p>



<p>Basta guardare alla marineria di Ancona per rendersene conto: qui il mercato ittico notturno costringe le donne a svegliarsi nel cuore della notte per caricare le casse del pescato e provvedere alla vendita, cercando acquirenti migliori qualora i prezzi non fossero congrui con l’impegno e le spese sostenute dagli uomini nella giornata in mare. Il tutto entro un tempo compatibile con gli altri impegni mattutini, domestici e lavorativi.</p>



<p>L’obiettivo di questo riconoscimento, spiega Celestini, “non è tanto la remunerazione ma <strong>l’accesso, attraverso una contribuzione equa, a certi diritti</strong>, come l’assicurazione infortunistica, la malattia e una pensione alla fine del lavoro”.</p>



<p>L’ostacolo principale, invece, è la persistenza di un’iconografia generale sbagliata che ritrae <strong>il mondo della pesca come unicamente maschile </strong>e relega le donne a “figure ornamentali, intente a salutare i mariti col fazzoletto bianco o a scrutare preoccupate le nubi nere all’orizzonte”. Un’immagine che non ha aiutato in primo luogo le donne a raggiungere la piena consapevolezza della loro funzione e a scardinare la convinzione che questa sia solamente una mansione in più nella loro quotidianità.</p>



<p>“<strong>Chi sposa un pescatore, sposa un mestiere</strong>”, dicono le francesi: Celestini è convinta che proprio su questa adesione acritica si debba lavorare per far emergere queste figure dal cono d’ombra in cui si trovano e lasciare che esprimano le loro potenzialità.</p>



<p>Gli obiettivi 5 e 8 dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ci ricordano che parità di genere e inclusione sociale sono fattori di crescita. In Italia, la produzione di agricoltura, silvicoltura e pesca vale 61,6 miliardi di euro. Le donne ci sono, sì, ma come?</p>



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<p><em>Foto di copertina by Unsplash</em></p>


Donne nel settore primario, un terzo che lavora per tre

<p>Nella contemporaneità parlare di cibo vuol dire intraprendere un discorso multiforme, estremamente sfaccettato, con più livelli intrecciati e interconnessi fra loro. Il nostro rapporto con quanto mangiamo, infatti, è mutato in maniera profonda: da semplice alimento funzionale alla sopravvivenza, <strong>il cibo si è fatto vero e proprio elemento comunicativo </strong>i cui messaggi possono avere significati e rimandi dal segno assai variegato.</p>
<p>La chiave di questa trasformazione è stata, senza alcun dubbio, la sua <strong>mediatizzazione</strong>, iniziata dalla televisione e poi esplosa attraverso i media digitali. Un discorso che investe piani diversi, anche a seconda del medium su cui è espresso.</p>
<p>Tutto questo proliferare mediale di argomenti e discussioni, divenuto un vero e proprio fenomeno socioculturale, ha assunto il nome di <strong>gastromania</strong>. Ed è nel quadro di quest’ultima che va iscritto quello, più conosciuto, del <em>food porn</em>. Per rendere l’idea: mentre sto scrivendo, l’omonimo hashtag conta su Instagram più di 264 milioni di post. È palese quindi come i social, attraverso la rottura del confine fra sfera pubblica e privata, siano il cavallo trainante del discorso mediale attorno e attraverso il mangiare.</p>
<p>Se però vogliamo analizzare davvero la presenza del cibo sui media inquadrando la questione nella sua complessità e non restando sulla superficie del primato numerico dei social, dobbiamo parlare di fenomeno transmediale.</p>
<p>Ma che cos’è la <strong>transmedialità</strong>? Lo abbiamo chiesto a <strong>Giovanni Boccia Artieri</strong>, sociologo ed esperto dei nuovi media, professore ordinario di Sociologia dei Processi Culturali all’Università di Urbino “Carlo Bo”.</p>
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<h2 id="h-come-la-presenza-transmediale-ha-allargato-il-pubblico-dei-personaggi-del-food">Come la presenza transmediale ha allargato il pubblico dei personaggi del food</h2>
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<p>“La transmedialità è la capacità di creare una <strong>narrazione unitaria</strong> che, però, attraversa <strong>media diversi</strong>. Chi incontra tale narrazione in un medium la può seguire da altre parti, ma chi dovesse farlo solo attraverso uno, ad esempio la televisione, fruirebbe comunque di un certo tipo di contenuto attinente.”</p>
<p>“Il fatto che un tema sia transmediale significa che più la persona ne è interessata, più è possibile per lei trovare su media diversi approfondimenti che arricchiscono la sua esperienza sulla narrazione di quel dato argomento.Per fare un esempio pratico: la transmedialità non è il trasporre un libro in un film, ma si realizza quando una parte o un personaggio poco particolareggiati di un film trovano la loro esplosione di approfondimento su un altro medium, come una serie web o un fumetto.”</p>
<p>Arriviamo quindi al punto: “La presenza transmediale dei <strong>personaggi che attraversano il mondo food</strong> (o food and wine) oggi è diventata particolarmente significativa. A livello mediale abbiamo vere e proprie personalità inizialmente famose nella letteratura più specializzata, in quanto ristoratori o cuochi, che in seguito assumono un volto per il largo pubblico attraverso i programmi di cucina, per poi successivamente approfondire i propri progetti su Instagram, con video su TikTok o YouTube. Questi personaggi, quindi, si raccontano lasciando degli spazi su media diversi: ciò permette a un pubblico più diversificato e allargato di affezionarsi, avvicinarsi, imparare”.</p>
<p>Vengono in mente tantissimi casi che raccontano proprio quanto illustrato dal professor Boccia Artieri. La sostanza è il <strong>rimando fra un media e l’altro</strong>, il gioco di riflessi che fa da cassa di risonanza, con il tema cibo che prende forma mutevole ma nello stesso tempo coerente, espandendosi a seconda del mezzo di comunicazione che occupa in quel momento.</p>
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<h2 id="h-stefano-losani-i-libri-di-cucina-bestseller-trainati-dalla-tv">Stefano Losani: “I libri di cucina, bestseller trainati dalla TV”</h2>
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<p>Vogliamo dedicare un focus particolare a un medium: <strong>l’editoria</strong>, analizzando quale sia la sua voce nel discorso transmediale sul cibo.</p>
<p>Ne parliamo con <strong>Stefano Losani</strong>, direttore commerciale de La Nave di Teseo, Baldini+Castoldi e Oblomov Edizioni. Negli ultimi anni, Baldini+Castoldi ha pubblicato i libri dei vincitori di Masterchef.</p>
<p>“In Italia il discorso sul cibo è importante e caratterizzato da estrema conoscenza e qualità nell’approccio ai volumi dedicati. L’editore sceglie di pubblicare un libro derivato da un cookie show per tanti fattori: al centro c’è la possibilità di business, perché storicamente <strong>i libri legati alla cucina hanno sempre avuto successo</strong>, intercettando un pubblico ampio. Negli ultimi quindici anni la televisione ha attivato e accelerato il meccanismo di vendita: i fenomeni derivati da questo medium sono sempre più presenti in libreria e più acquistati, perché collegati spesso a un pubblico di non lettori abituali o di persone che leggono poco, ma che, seguendo la trasmissione televisiva, il talent o altro, sono invogliati a comprare il libro per provare a realizzare a casa le ricette che hanno visto.”</p>
<p>Lo stesso fenomeno vale anche per <strong>autori derivati dai social</strong>? “Attualmente, i <strong>food blogger</strong> su Instagram stanno crescendo molto, anche in termini di vendite. I social sicuramente aiutano, ma di solito sono collegati direttamente al fenomeno televisivo; gli <strong>YouTuber</strong> e i soggetti che hanno un grande seguito sono interessanti, ma l’effetto creato dalla tv la fa ancora da padrone”.</p>
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<h2 id="h-l-editoria-sul-cibo-che-rincorre-i-tempi-della-tv">L’editoria sul cibo che rincorre i tempi della TV</h2>
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<p>Il cuore della questione che ci poniamo è se il libro di cucina conservi una voce diversa, attraverso la propria specificità, anche nel contesto transmediale. “Assolutamente sì: l’oggetto libro ha un valore assoluto, da sempre”, ci dice Losani. “<strong>In Italia tutti desiderano pubblicare</strong>: c’è questa voglia di avere il proprio nome stampato sulla copertina. L’oggetto libro dà un valore in più al personaggio: chi arriva a pubblicarlo ha raggiunto una consacrazione e uno status”.</p>
<p>Andando più nello specifico, viene da domandarsi quanta “vita” abbiano questi volumi derivati da trasmissioni dedicate alla cucina: se soffrono l’essere legati a una sorta di stagionalità, oppure beneficiano di un ritorno retroattivo all’uscita della nuova serie.</p>
<p>“In generale, negli anni,<strong> i progetti hanno vita sempre più breve</strong>: ciò è legato alle dinamiche di rotazione all’interno delle librerie. Alcuni fenomeni, vedasi Masterchef, addirittura ne hanno una brevissima: l’editore deve cercare di intercettare il pubblico nell’immediatezza della programmazione o della finale, mentre altri – come Benedetta Parodi o Benedetta Rossi – che ormai hanno un seguito consolidato e ogni anno fanno una nuova trasmissione, quando esce l’ultimo libro riattivano anche le vendite del precedente. Va sottolineato che questo è strettamente legato alla presenza dell’autore-personaggio sui media: l’editore, infatti, decide di <strong>pubblicare nel periodo</strong> in cui l’autore ha la <strong>massima visibilità in televisione</strong>. Le due cose, quindi, sono strettamente collegate.”</p>
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<h2 id="h-editoria-e-cibo-un-connubio-cartaceo-destinato-a-durare">Editoria e cibo, un connubio (cartaceo) destinato a durare</h2>
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<p>A Stefano Losani chiediamo anche il rovescio della medaglia: ossia se, vista la grande pervasività del discorso sul cibo, esista il rischio di <strong>saturazione</strong> di pubblicazioni dedicate.</p>
<p>“Credo di no, proprio per l’ampiezza del tema, che specie in questi ultimi anni è andato a collegarsi a tanti altri aspetti, come ad esempio l’ecologia e la sostenibilità. Penso che molto stia alla bravura dell’editore nel far emergere dai libri la personalità di chi li scrive.”</p>
<p>Ma perché un editore generalista sceglie di parlare di cibo? “L’editore è un’azienda che deve guardare anche all’aspetto economico, e visto che c’è un pubblico che vuole leggere questi libri deve colmare questa richiesta. Esiste, però, anche <strong>l’aspetto culturale</strong>: infatti si decide sempre più di pubblicare testi che spieghino un dato rapporto con il cibo e un certo tipo di alimentazione. Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza e il <strong>voler capire cosa mangiamo</strong>, in modo da farlo ancora meglio. Il discorso sul cibo spazzatura in Italia è superato, l’editore pubblica ciò che parla di alimentazione di una certa qualità. Non a caso, infatti, il fenomeno che vende di più (ossia Benedetta Rossi) va nella direzione della tradizione, del chilometro zero, di una cucina casalinga facile e accessibile a tutti.”</p>
<p>Un ultimo interrogativo riguarda la resa di questi libri in formato digitale, in cui grafiche e fotografie sono parte fondamentale. “Partendo dal presupposto che <strong>in Italia il mercato digitale vale poco</strong>, circa il 6% rispetto al cartaceo, il lettore digitale legge in prevalenza con il device Kindle, che è a inchiostro elettronico, cosa che penalizza le fotografie. Noi editori realizziamo anche il supporto digitale per questi testi, allo scopo di dare completezza al progetto, ma senza presunzione di farne business, perché l’oggetto fisico libro è insuperabile sui volumi di cibo e cucina.”</p>
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<h2 id="h-le-potenzialit-e-il-futuro-del-cibo-transmediale">Le potenzialità e il futuro del cibo transmediale</h2>
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<p>Torniamo dal professor Giovanni Boccia Artieri per chiedergli se ai suoi occhi di studioso esista un fenomeno transmediale legato al cibo che lo abbia particolarmente colpito.</p>
<p>“Una cosa interessante, emersa durante il periodo del lockdown, è il fatto che il cibo sia stato un elemento di traino per mettere in connessione l’isolamento con la possibilità d’acquisto. Faccio riferimento a tutte le app che hanno lavorato sul <strong>delivery non banale</strong>, come Too good to go, che a fine giornata permette di vedere se un bar o un piccolo supermercato della propria zona mettono a disposizione qualcosa che è rimasto, vendendolo a molto poco, oppure attraverso una box a sorpresa tematica. Si tratta di qualcosa che permette di lavorare su più dimensioni: quella del territorio, del delivery, dello spreco e del risparmio. E poi è una forma di transmedialità, perché si passa da un’app che fa delle offerte, che hanno anche un elemento giocoso, per lavorare sul concetto di alimento elaborato e su quello di alimentazione. Magari non scegli tu, ma ti lasci sorprendere: con la box oppure perché, guardando tra le offerte, scegli qualcosa di inconsueto o particolare.”</p>
<p>Terminiamo la nostra riflessione provando a pensare al futuro: se questo meticciamento mediale continuerà o se è impossibile prevederlo, data la liquidità dei nostri tempi.</p>
<p>“È evidente che oggi qualsiasi tipo di narrazione nasce per sua vocazione come transmediale, perché ha a che fare con l’esigenza di raggiungere e toccare emotivamente pubblici diversi. Credo che nel futuro la promozione mediale di stampo tradizionale, quella che passa attraverso la tv con cooking show o gare e reality, si incrocerà sempre di più con le persone che sanno raccontarsi online, fare video o realizzare un piatto, e che poi diventano vere e proprie star. Quindi: il fenomeno della <strong><em>celebrification</em></strong>, unito a quello della <strong>produzione mediale</strong>, condurrà a un lavoro sempre più forte sulla transmedialità.”</p>
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Taking a food picture with an iPhone

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Cucina transmediale, tutti la apprezziamo e non lo sapevamo

La transmedialità è una narrazione che porta a parlare di cibo e dei suoi alfieri su media diversi. Indaghiamo una delle ragioni del successo, comunicativo e non solo, del settore alimentare.

Cucina transmediale, tutti la apprezziamo e non lo sapevamo - Informazione senza filtro

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<p>Nelle ultime settimane sono coincise due notizie che meritano di essere accostate per togliere un po’ del trucco con cui molti influencer evidentemente si incipriano i profili social, oltre che il naso.</p>



<p>La prima è che <strong>HypeAuditor</strong>, piattaforma internazionale di monitoraggio delle campagne di influencer marketing, ha da poco pubblicato il report <em>State of Influencer Marketing 2021</em>, da cui emerge che <strong>più della metà degli influencer di Instagram </strong>– il 55%, ad esser precisi – è coinvolta in una qualche forma di <strong>frode e falsificazione</strong> sui social media nel 2020.</p>



<p>La seconda è che la influencer <strong>Mafalda De Simone</strong> è andata ospite a Mattino Cinque per rivendicare l’<strong>urgenza di un sindacato per la categoria</strong> e continua a rilasciare dichiarazioni sui grandi media. Non si offenderà se il suo nome mi è suonato totalmente anonimo e se sono andata a cercare chi fosse: 183.000 follower e “Top italian beauty influencer by<em> la Repubblica</em>,<em> il Mattino.it</em>,<em> ilmessaggero.it </em>e <em>Il Sole 24 ore</em>”<em>. </em>È così che si autodefinisce dal suo profilo Instagram.</p>



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<h2 id="h-pier-luca-santoro-datamediahub-frodi-soprattutto-dai-mega-influencer">Pier Luca Santoro, DataMediaHub: «Frodi soprattutto dai mega influencer»</h2>



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<p>Per entrare nella questione del <strong>mestiere di influencer</strong>, pur essendo io tra quelli che non lo ritengono tale, ho sentito <strong>Pier Luca Santoro</strong> – consulente di marketing, comunicazione &amp; sales intelligence nonché project manager di DataMediaHub – dato che proprio dal suo osservatorio avevo colto la notizia, che nel dettaglio recitava così:</p>



<p></p>



<p>«I mega influencer e le celebrity di Instagram – quelli con più di un milione di follower – sono stati i maggiori colpevoli, con due terzi [66%] di questi account coinvolti in qualche forma di attività fraudolenta.&nbsp;I nano-influencer, quelli con da 1.000 a 5.000 follower, hanno avuto la percentuale più bassa di frodi, che si verificano nel 42% degli account. Le tattiche più comuni utilizzate includevano&nbsp;l’<strong>acquisto&nbsp;di follower</strong>, <strong>like</strong> e <strong>commenti da</strong> “<strong>click farm</strong>”,&nbsp;l’<strong>acquisto&nbsp;di visualizzazioni di storie </strong>e il <strong>coinvolgimento con i pod</strong> <strong>dei commenti</strong>, dove un gruppo di utenti di Instagram si riunisce e interagisce sistematicamente con i post dell’altro.»</p>



<p>La percentuale degli account mediamente coinvolti in pratiche scorrette o addirittura fraudolente è diminuita di circa otto punti percentuali rispetto all’anno precedente, ma il tasso è ancora troppo rilevante per non destare preoccupazione.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/05/Percentuale-di-Influencer-Coinvolti-in-Frodi.jpeg"><img width="1500" height="877" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/05/Percentuale-di-Influencer-Coinvolti-in-Frodi.jpeg" alt="" class="wp-image-44522" /></a></figure></div>



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<p><strong>Appunto, preoccupazione. Ma forse le aziende nemmeno se ne preoccupano.</strong></p>



<p>Sicuramente la notizia interessa e preoccupa le grandi aziende che hanno strutture di marketing e comunicazione che si appoggiano ad agenzie degne di questo nome. Dato che non è la prima volta che vengono pubblicate notizie simili sui comportamenti poco leciti di influencer, o sedicenti influencer come dico io, ricordo che già in passato marchi come Procter&amp;Gamble, Unilever e altri avevano preso provvedimenti al riguardo. La ricerca parla chiaro: il grosso delle frodi trova casa nella fascia dei cosiddetti mega influencer, che poi sono quelli coinvolti con le grandi aziende, quindi il problema rimane. Alle piccole e medie imprese sul mercato, che provano a sfruttare in modi naïf il canale dell’influencer marketing, forse nemmeno arriva la notizia dei comportamenti fraudolenti.</p>



<p><strong>La parola influencer, di per sé, non indica alcun mestiere. La pensiamo allo stesso modo.</strong></p>



<p>L’influencer non esiste, l’influencer non è un mestiere, così come per i blogger. Per me la parola influencer sta semplicemente a indicare una figura che, nel campo dei media, in quanto autorevole e credibile per ciò che dice e per ciò che magari riesce a prevedere in modo corretto, è in grado di orientare le aziende, il mercato, le persone. Chi prova a fare l’influencer di mestiere e ogni giorno parla di marchi diversi senza il minimo collegamento non può essere credibile, basta guardare le loro pagine social per rendersi conto di come passino da un’azienda all’altra; ma le aziende continuano purtroppo a misurare l’efficacia degli influencer ancora sui volumi dei follower e sulle reach, piuttosto che sul valore.</p>



<p><em>Pier Luca Santoro mi racconta di quando venne invitato da Enel per tre anni consecutivi a Londra come influencer alla convention europea che organizzavano ogni novembre per presentare i risultati economico-finanziari (fino alla Brexit, era quella la Borsa più importante d’Europa). </em><em>«</em><em>Quando tornai e scrissi il mio articolo non mi feci lo scrupolo di dover parlar bene di Enel o cose di questo genere. Il motivo per cui accettavo era che partecipando a quegli incontri venivo in possesso di una serie di informazioni per il mio lavoro, per metterle a frutto e a disposizione del mondo dell’informazione. Se ti senti schiavo di chi ti invita ti riduci a fare il testimonial di chiunque e il vantaggio finisce solo in tasca all’azienda</em><em>»</em><em>.</em></p>



<p><strong>Anche il mondo del newsbrand e delle notizie è vittima di frodi?</strong></p>



<p>Nel mondo dell’informazione sappiamo che le frodi arrivano dalle macchine fabbrica-click, cioè una parte dei click che l’inserzionista paga sono fatti da bot e da sistemi automatizzati. Spesso si paga per impression che di fatto nessuno ha mai visto. Sull’acquisto di commenti e interazioni invece mi sento di dire che mediamente non riscontro questa prassi, almeno che io sappia.</p>



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<h2 id="h-vincenzo-cosenza-influencer-non-esistono-tariffari-il-guadagno-dipende-da-reach-e-contenuti">Vincenzo Cosenza: «Influencer, non esistono tariffari. Il guadagno dipende da reach e contenuti»</h2>



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<p>Con <strong>Vincenzo Cosenza</strong>, social media strategist di lungo corso meglio noto come Vincos, entro invece dietro le quinte delle metriche su cui campano gli influencer.</p>



<p>Parto dalla <strong>rivendicazione del sindacato</strong>, gridata dalla De Simone per ribadire tutte le ingiustizie a cui, a suo dire, la categoria è sottoposta da parte delle aziende che costringono gli influencer a un semplice baratto di prodotto a fronte del loro impegno o ad acquistare i prodotti a metà prezzo per poi magari rivenderli tramite coupon, traendo da lì margini di guadagno.</p>



<p>«Esistono ovviamente aziende di basso profilo che si muovono così in cambio di una recensione, o che addirittura propongono di comprare merce a prezzo ridotto. Io però questo genere di prezzo <strong>nemmeno lo considero influencer marketing</strong>.»</p>



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<p><strong>Quanto pesa il numero di follower, c’è un tetto al di sotto del quale le aziende nemmeno si interessano agli influencer?</strong></p>



<p>È molto relativo perché spesso anche profili con 50.000 follower, se genuini e nati organicamente, hanno grandi potenzialità se ben associati alle aziende giuste. Non bisogna pensare che solo il personaggio con milioni di follower sia in grado di spostare il mercato e i potenziali clienti.</p>



<p><strong>Dove sta, alla fine, il potere contrattuale nel rapporto tra azienda e influencer?</strong></p>



<p>Dipende dalla situazione delle parti, va detto. Di certo la forza non è detto che sia numerica in termini di follower e di pubblico, quello è un dato che va considerato insieme ad altri: semmai all’azienda interessa la qualità dell’interazione – e la vedi dai commenti in coda al messaggio del post – e l’affinità del contenuto col proprio prodotto e la propria identità. Sarei ipocrita però se non dicessi che i numeri pesano, ma pesano nel senso che servono a capire quanto interesse spostano tramite interazioni, visualizzazioni dei contenuti o reazioni generate. Lo strumento più evoluto di metrica, che consente alle aziende di avere un dato trasparente, resta ad oggi la reach, cioè saper misurare il numero effettivo di persone che hanno visto quel contenuto: io e il mio team lo facciamo tramite una piattaforma di proprietà a cui gli influencer attaccano i propri profili social, permettendoci di leggere i dati di performance.</p>



<p><strong>Collaborazioni spot con gli influencer o campagne anche lunghe un anno. Chi lo decide?</strong></p>



<p>La durata del rapporto non ha vincoli; se non serve solo un’attività lampo di poche settimane per particolari lanci o progetti, sempre più spesso le aziende tendono a creare legami di qualità con loro arrivando anche a tre, sei, dodici mesi di contratto, in modo che il pubblico capisca che non si tratta di un rapporto occasionale. Sono le aziende più mature e sofisticate a muoversi così, per evitare che si tratti solo di un lancio pubblicitario.</p>



<p><strong>In quei casi scattano le esclusive? Guardando ai top influencer non sembrerebbe, se si guarda alla leggerezza con cui passano da un prodotto all’altro contemporaneamente.</strong></p>



<p>Spesso sì, per rapporti così stretti le aziende pagano un’esclusiva. Gli influencer più quotati verso l’alto preferiscono avere pochi marchi e per un periodo più lungo: il rischio altrimenti è che ad ogni post promuovi un rapporto diverso risultando poco credibile, e capita.</p>



<p><strong>La concorrenza tra gli influencer è sempre agguerrita: ma il loro livello medio professionale qual è?</strong></p>



<p>C’è una competizione in crescita e lo sforzo che fanno è di distinguersi. Da dentro stiamo assistendo a una trasformazione graduale, quasi una spaccatura tra l’influencer classico, che rilancia semplicemente il marchio coi suoi post, e il cosiddetto creator, che aggiunge qualcosa in più creando un contenuto originale per l’azienda. La massa degli influencer generalisti e senza grande marcatura di professionalità però resterà sempre. La stessa pandemia è stata una buona occasione per far posizionare molti di loro su temi sociali, economici e politici, ma anche lì l’approccio rischia di essere scivoloso se non c’è coerenza tra ciò che si comunica e ciò che si è.</p>



<p><strong>Arriviamo al pagamento: esistono tariffari o parametri condivisi a certi livelli?</strong></p>



<p>Non esistono tariffari per gli influencer, tutto sta alla trattativa tra le parti. Il pagamento si basa su due parametri di fondo: il primo è cosa chiedi all’influencer (un post, un piano editoriale più complesso, una serie di storie, un video di cinque minuti su YouTube, giusto per far capire la differenza di contenuto); il secondo è la loro capacità di intercettare un certo tipo di pubblico, e torniamo alla metrica dei follower e delle interazioni, perché per le aziende è il primo dato più visibile da cui partire. Assodati i due parametri, si comincia a trattare. E non è da sottovalutare anche l’eventuale eco mediatica intorno a quel personaggio nel momento della trattativa.</p>



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<p>Chiudo le interviste con una sensazione che mi si è fatta conferma: continuo a pensare che la parola influencer non sia in grado di reggere il verbo ausiliario <em>essere; </em>semmai può reggere il <em>fare.</em></p>



<p>Me ne convinco anche grazie al dato secondo cui HyperAuditor stima che solo il 55% degli account Instagram sia detenuto da persone reali. Essere o non essere interessava solo Shakespeare, a quanto pare, ma le aziende farebbero bene a farsi la domanda prima di sborsare soldi agli influencer.</p>



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<p><em>Photo credits: blog.markgrowth.com</em></p>

Il diavolo fa gli influencer ma non i coperchi: uno su due ricorre a frodi


<p>Il gruppo francese <strong>Kering</strong> nel 2019 ha pagato al fisco italiano 1,25 miliardi di euro per la commercializzazione dei prodotti Gucci. Una bella cifra senza dubbio, ma l&#8217;accertamento fiscale iniziale era di 1,4 miliardi su una <strong>presunta evasione fiscale di circa 14 miliardi</strong>. Quando queste notizie vengono date dal telegiornale all&#8217;ora di cena ci si ferma con la forchetta a metà strada, sentendo le cifre elevate che vengono pagate (ed evase). Sono frutto di una <strong>mediazione</strong>, che nella quasi totalità dei casi porta alle casse dello Stato una grande quantità di denaro, ma comunque inferiore a quello che i presunti grandi evasori avrebbero sottratto.</p>



<p>Chi invece spesso non riesce a usufruire di queste mediazioni, per una serie di fraintendimenti come le convocazioni che non arrivano, sono i <strong>piccoli contribuenti</strong>, che per chiarire la propria posizione a livello fiscale devono affidarsi alla <strong>giustizia tributaria</strong>. I <strong>tempi</strong> per avere una sentenza oscillano <strong>dai due ai sette anni</strong>, un periodo nel quale il denaro risulta come “congelato” sia per il contribuente che per lo Stato. Parafrasando il John Grisham de <em>Il socio</em>, è come se ci fosse una nave carica di denaro che gira in mare senza approdare mai in nessun porto.</p>



<p>I dati forniti dal Ministero delle finanze inerenti al 2020 dicono che «la giacenza complessiva delle liti pendenti al 31 dicembre 2020 (pari a 345.295 controversie) cresce rispetto al 31 dicembre 2019 del 2,85% (+9.566)». Dietro i numeri si nasconde un tesoretto miliardario che è fermo. La <strong>riforma</strong> <strong>della magistratura</strong> <strong>tributaria </strong>è richiesta da più parti da alcuni anni; diversi disegni di legge sono stati depositati, ma l&#8217;attuale governo a inizio aprile ha deciso di creare una commissione interministeriale di esperti che consegni entro il 30 giugno una fotografia della situazione, ma che decida anche di intervenire. Tra le proposte sul tavolo c&#8217;è anche quella di <strong>professionalizzare la magistratura tributaria</strong>, i cui giudici oggi di fatto svolgono un&#8217;altra professione. Intanto dietro ai numeri ci sono le vicende di molti cittadini, che vivono in un limbo di attesa.</p>



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<h2 id="h-sette-anni-per-guidare-un-automobile-acquistata-regolarmente">Sette anni per guidare un&#8217;automobile acquistata regolarmente</h2>



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<p>La vicenda di un imprenditore del Nord Italia inizia nel 2011, quando riceve un <strong>accertamento fiscale</strong> a seguito di un&#8217;inchiesta della Guardia di Finanza, dalla quale era emersa un&#8217;attività fraudolenta da parte di un concessionario che aveva venduto un&#8217;automobile alla società dell&#8217;imprenditore. Si trattava di un giro di acquisto di auto inesistenti all&#8217;estero, le cosiddette <strong>auto carosello</strong>; ma la vettura in questione c&#8217;era, ed era stata regolarmente pagata.</p>



<p>Le Fiamme Gialle danno così mandato all&#8217;Agenzia delle Entrate di effettuare dei controlli. All&#8217;imprenditore in questione arriva però subito una <strong>cartella</strong>. Decide di effettuare una <strong>mediazione</strong> nei locali uffici dell&#8217;Agenzia, ma la sua richiesta (inviata con raccomandata e ricevuta di ritorno) arriva quattro giorni dopo. Per l&#8217;agenzia fa fede la data di arrivo e non quella di spedizione della lettera. La questione approda così in <strong>commissione tributaria</strong>.</p>



<p>Intanto l&#8217;auto non può essere utilizzata, e il suo valore (52.000 euro) non può nemmeno essere messo a bilancio e detratto dalle tasse. In commissione tributaria il difensore produce foto dell&#8217;auto, certificato d&#8217;acquisto e il PRA nella prima udienza del 2012. Nel 2013 arriva la sentenza che dà ragione al contribuente. L&#8217;Agenzia delle Entrate ricorre e nel 2015 arriva il responso in appello: <strong>l&#8217;auto è stata regolarmente acquistata</strong>. Dopo due anni di lungaggini burocratiche, nel 2017 il mezzo ritorna nel possesso dell&#8217;acquirente, che potrà usarlo e detrarlo dalle tasse. Dopo <strong>sei anni</strong> in cui l&#8217;auto è ferma e il valore, naturalmente, è sceso.</p>



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<h2 id="h-vecchi-o-nuovi-proprietari-chi-paga-per-il-pignoramento-fantasma">Vecchi o nuovi proprietari: chi paga per il pignoramento fantasma?</h2>



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<p>Sempre in Nord Italia c&#8217;è uno studio associato di professionisti che, in attesa di giudizio, sta <strong>pagando quello che doveva</strong> <strong>ricevere</strong> dallo Stato come <strong>contributo per l&#8217;energia pulita</strong>.</p>



<p>Stanno pagando a <strong>rate </strong>una<strong> rottamazione</strong>. Una di queste rate salta e arriva un <strong>pignoramento</strong> di 26.000 euro, che viene notificato al domicilio di uno dei due titolari e non allo studio. L&#8217;agenzia decide di pignorare 26.000 euro, che sono i contributi che arrivano dal GSE (Gestore dei Servizi Energetici) per i pannelli solari installati sopra la sede dello studio. Ma nel frattempo l&#8217;edificio è stato venduto ad altri, che dopo un anno si ritrovano a loro volta pignorato il contributo.</p>



<p>Si rivolgono quindi al GSE, che però dice di aver fatto ciò che l&#8217;agenzia ha detto loro di fare; quindi vanno dai primi proprietari che intanto hanno presentato <strong>ricorso</strong>, ma devono anticipare quei contributi che comunque risultano pignorati, in attesa di una sentenza che arriverà. Le previsioni non sono ottimistiche, anche perché si basano su dati (per nulla confortanti) che lo stesso MEF rende pubblici: nel 2019 la commissione tributaria ha gestito liti per 40 miliardi di euro e nel 45% dei casi le sentenze d&#8217;appello hanno annullato il giudizio del primo grado.</p>



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<h2 id="h-giustizia-tributaria-pochi-giudici-e-mal-pagati-dal-ministero-che-fa-e-disfa-le-cause">Giustizia tributaria, pochi giudici e mal pagati dal ministero che fa e disfa le cause</h2>



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<p>La <strong>magistratura tributaria</strong> è da sempre considerata <strong>anomala</strong>.</p>



<p>Tanto per cominciare perché <strong>i giudici non sono </strong>“<strong>professionisti</strong>”, ma svolgono un&#8217;altra professione. Del resto con una retribuzione di <strong>25 euro a seduta</strong> non potrebbero fare altrimenti; chi presiede molti processi arriva a fatturare 7.000 euro all&#8217;anno.</p>



<p>Vengono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del <strong>Ministero dell&#8217;economia e delle finanze</strong>. Anche in questo caso qualcuno solleva un&#8217;obiezione. <strong>Il 46% dei ricorsi è presentato dall&#8217;Agenzia delle Entrate</strong> (che è parte in causa in buona parte di quelli che vengono promossi dai contribuenti), la quale a sua volta dipende dallo <strong>stesso ministero</strong> <strong>che nomina i giudici</strong>. In alcuni casi, come succede a Brescia, sono addirittura “vicini di casa”, visto che i due uffici si trovano nello stesso edificio.</p>



<p>Negli anni poi anche il <strong>numero di magistrati</strong> si è assottigliato. I giudici tributari oggi sono 2.943 (nel 2013 erano 4.668; nel 2019 erano 2.747). Di questi 1.547 sono giudici ordinari togati e 1.396 sono laici (giudici onorari). I giudici ordinari togati (pari al 52,6%) sono composti da: 1.339 giudici ordinari (civili, penali, pubblici ministeri e Gip, l’86,5%), 101 giudici amministrativi (il 6,5%), 87 giudici contabili (il 5,7%), 20 giudici militari (l’1,3%). Invece, i giudici onorari (non togati), pari al 47,40% del numero complessivo, sono composti da: 336 pensionati (anche della Guardia di Finanza, il 24,01%), 375 avvocati (il 26,90%), 138 commercialisti (il 9,9%), 190 vengono dal pubblico impiego (il 13,6%) e 357 da altre professioni, per esempio periti agrari, agronomi e agrotecnici (il 25,60%).</p>



<p>Nelle <strong>commissioni tributarie</strong> giudicano soltanto <strong>138 commercialisti</strong> (pari al 9,9% dei giudici onorari e al 4,70% di tutti i giudici tributari). Questi ultimi non esercitano la professione. L&#8217;altra lamentela che spesso portano i commercialisti è quella di avere <strong>dall&#8217;altra parte figure che non hanno sufficiente preparazione</strong> in una materia assai complessa come il <strong>diritto tributario</strong>: la maggior parte delle cause è al di sotto dei 30.000 euro e può essere trattata da giudici onorari che spesso non hanno una formazione specifica. Questo è dovuto al fatto che quando gli importi sono molto alti al contribuente conviene quasi sempre cercare la mediazione.</p>



<p>L&#8217;ultimo anno, che secondo i dati del MEF ha visto un crollo delle controversie presentate (dalle 210.399 del 2018 alle 151.317 del 2020), ha visto però ulteriori <strong>rallentamenti</strong> causa COVID-19. Molti tribunali non erano attrezzati per le <strong>udienze da remoto</strong>, cosa che ha provocato il <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/i-processi-online-non-fanno-giustizia-nei-tribunali-e-caos-digitale/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">disappunto e le proteste di molti difensori</a>. Per protesta una commercialista, come requisitoria, ha addirittura mandato un video YouTube in Cassazione, altro punto debole dal momento che rappresenta il vero collo di bottiglia dove i processi si fermano per anni.</p>



<p>Per questi motivi tra i primi obiettivi del governo Draghi c&#8217;è stata l&#8217;elaborazione di una <strong>riforma della magistratura tributaria</strong>. Non è la prima volta che ci si prova, ma finora tutti i tentativi si sono arenati. Del resto, di buone intenzioni è lastricata la strada per l&#8217;inferno.</p>



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<p><em>Photo credits: quora.com</em></p>


Fino a sette anni per una causa: chi ha bendato la giustizia tributaria?

<p><strong>L’emigrazione femminile dall’Est Europa verso l’Italia</strong>: quella delle <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/il-recruiting-delle-badanti-sfida-il-passaparola/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">badanti</a></strong>, donne che abbandonano il loro Paese per accudire i nostri anziani e bambini. Questo il tema che innerva <strong><em>Quando tornerò</em></strong>, l’ultimo libro di <strong>Marco Balzano</strong>, da poco uscito per Einaudi.</p>
<p>Siamo avvezzi a bollare il fenomeno freddamente, in modo asettico e sbrigativo, come il classico esempio di migrazione economica, eppure dietro c’è molto altro: lo <strong>sconvolgimento</strong> di un universo interiore ed esistenziale che impatta non solo sulla <strong>donna che sceglie di partire</strong>, ma altrettanto intensamente su chi lascia, ossia la sua <strong>famiglia</strong>.</p>
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<h2 id="h-un-romanzo-con-tre-protagonisti-quando-torner-di-marco-balzano">Un romanzo con tre protagonisti: <em>Quando tornerò </em>di Marco Balzano</h2>
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<p>Il lavoro che manca in patria, in Romania, e <strong>il lavoro che si rincorre</strong>, <strong>rinunciando a tutto</strong>, spogliandosi della propria identità, del passato, degli studi fatti che non hanno trovato sbocco in un’occupazione conseguente; e poi la <strong>separazione</strong> da mariti, figli, genitori. Per questo è corretto affermare e sottolineare che l’emigrazione femminile dai Paesi dell’Est è un fenomeno sociale che impatta su più generazioni.</p>
<p>C’è tale consapevolezza alla base della significativa scelta narrativa di Balzano, che scrive <strong>un romanzo a tre voci</strong>: quella della mamma emigrante, Daniela, del figlio minore, Manuel, e della maggiore, Angelica. Ognuno racconta la stessa storia, ma dalla propria prospettiva: un angolo di visione diverso e personale che converge su un terreno comune e fondante: una profonda sofferenza senza rimedio.</p>
<p>Manuel e Angelica sono due orfani bianchi, condannati a subire in età diverse (uno nell’adolescenza, l’altra durante gli anni universitari) il <strong>disgregamento della propria famiglia</strong>. Il cambio di “occhi” è vincente nell’economia complessiva del romanzo, perché gli dona esaustività e profondità, superando la visione incompleta, parziale e densa di luoghi comuni che spesso abbiamo di queste situazioni. Balzano poi calibra bene le tre voci, dotando ciascuna di tono e peculiarità differenti, ma amalgamandole alla perfezione nello sviluppo della trama, riuscendo anche a far sì che si parlino fra loro con rimandi temporali e di senso.</p>
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<h2 id="h-da-lavoratrice-a-strumento-con-la-nazionalit-come-etichetta">Da lavoratrice a strumento, con la nazionalità come etichetta</h2>
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<p>Il cuore narrativo del libro sono <strong>le esperienze di Daniela in Italia</strong> come <strong>badante</strong> di anziani e <strong>tata</strong> di due bambini. Fin da subito, il racconto rende in modo impietoso quanto realistico, il quadro del lavoro assistenziale-domestico dipendente: il primo impiego di Daniela è infatti in nero, con tutto il classico e frusto repertorio di <strong>promesse di messa in regola</strong>. Anche i licenziamenti improvvisi sono da mettere in conto.</p>
<p>Da parte delle famiglie per cui lavora, la donna riceve comportamenti figli di <strong>pregiudizio</strong> e <strong>ottuso senso di superiorità</strong>, a cominciare dal darle del tu senza nemmeno conoscerla, per poi impartirle con toni autoritari ordini da eseguire. Daniela si troverà a lavorare nei contesti sociali più diversi, ma questo sguardo di alterità verso di lei sarà una costante, solo talvolta mascherato da una cortesia formale. Il concetto è ben reso dal breve dialogo con una madre dell’alta borghesia:</p>
<p>“Siete così brave voi con i vecchi e i bambini.”</p>
<p>“Voi chi, signora?”</p>
<p>“Beh, voi dell’Est. Più delle filippine, che invece sono brave a pulire, no?”</p>
<p>In sole tre brevi battute c’è l’essenza del vissuto di Daniela nel nostro Paese: è vista solo come <strong>una funzione stabilita dalla nazionalità d’appartenenza</strong>, non come una persona dotata di sensibilità, e viene sempre trattata con distacco. C’è da riflettere, considerando che a lei, e ad altre donne che arrivano da lontano, affidiamo quanto di più fragile e prezioso abbia la società: nonni e figli. Ed è grazie a loro che il lavoro di cura e assistenza pesa meno sulle spalle delle donne dell’Europa occidentale, le quali ora possono avere ambizioni che esulano dall’assolvere i compiti familiari.</p>
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<h2 id="h-il-mal-d-italia-la-malattia-delle-badanti-straniere">Il “mal d’Italia”, la malattia delle badanti straniere</h2>
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<p>Il libro, poi, racconta anche come queste incombenze siano pesanti non solo per il corpo, ma altrettanto per l’<strong>equilibrio mentale</strong>: Daniela vive sulla propria pelle quanto gli effetti della <strong>demenza senile</strong> rendano estremamente difficile instaurare un rapporto con un anziano, sperimentando come ricevere aggressività verbale e fisica possa essere mortificante.</p>
<p>Nella trama, così nella realtà, esistono <strong>centri in Romania che curano il </strong>“<strong>mal d’Italia</strong>”: altro non è che la sindrome da burnout causata da un profondo stress ed esaurimento psicofisico, tipico delle occupazioni assistenziali.</p>
<p>Particolarmente acuta nella sua costruzione è la parte della storia in cui Daniela si occupa di due bambini: Balzano crea un gioco di riflessi fra presente e passato della protagonista, in cui entrano in gioco <strong>sensi di colpa per i figli in Romania</strong> e sentimenti contrastanti verso i due piccoli di cui si prende cura a Milano. È una frazione nodale del libro a livello psicologico, in cui l’autore incrocia molti fili che lo reggono emotivamente, riuscendo a toccare corde profonde.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-quando-torner">Perché leggere <em>Quando tornerò</em></h2>
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<p>Questo romanzo è un atto di giustizia e riconoscimento verso <strong>storie per noi trasparenti</strong>, nei confronti del dolore di persone che entrano nelle nostre case ogni giorno e che dentro si portano un mondo in frantumi. Esuli, estranee a tutto, alla lunga anche a se stesse.</p>
<p><strong>Un libro che entra nell’anima del lettore</strong>, scuotendolo e pungolandolo, attraverso la potente forza cristallina del reale. Il vissuto è restituito con sguardo completo, attento, umano, e l’esperienza della famiglia che resta in Romania è altrettanto importante e cruciale rispetto a quella della madre emigrata. È come se Balzano ci aprisse gli occhi, con la fermezza incontestabile di una scrittura che fa sentire addosso tutte le offese, le mancanze, le recriminazioni, i sacrifici, gli spigoli e i tagli delle vite di Daniela, Manuel e Angelica. Una foto senza orpelli, cruda e resa con il piglio di un fine narratore.</p>
<p>Non ci sono sconti o lame di luce che taglino le tenebre ed è proprio in questo che risiedono l’<strong>onestà di quest’opera</strong> e il suo valore sociale e letterario.</p>


Badanti, il &#8220;mal d&#8217;Italia&#8221; diventa un romanzo

Uno sguardo sull&#8217;altro mondo delle badanti: ciò che lasciano nei Paesi d&#8217;origine, compresi titoli, famiglie e figli. Recensiamo &#8220;Quando tornerò&#8221;, di Marco Balzano.

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Elisa Rubertelli

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