Niccolò Zancan: “L’Italia, una Spoon River di povertà e precariato”

Intervistiamo il giornalista della Stampa e autore dell’”Antologia degli sconfitti”, edito da Einaudi: una cronaca lirica dell’Italia che non arriva alla fine del mese, a cui il lavoro manca o non permette di vivere

26.05.2024
La copertina dell'"Antologia degli sconfitti" di Niccolò Zancan

SenzaFiltro ha incontrato Niccolò Zancan, cronista della Stampa (precedentemente di Repubblica) e autore di Antologia degli sconfitti. Cronaca quasi poetica del presente, uscito da poco per Einaudi. Un libro in cui racconta, in forma ibrida fra prosa e poesia, la vita quotidiana di coloro il cui esistere è un costante arrabattarsi fra la continua preoccupazione e le mille difficoltà per arrivare a fine mese. Una realtà ampia, figlia di un lavoro sempre più impoverito, che la collettività finge di non vedere, occupandosene solo attraverso sporadiche statistiche. Zancan, tramite uno sguardo sensibile e tagliente, restituisce forza e dignità alle persone di cui scrive. Partendo da notizie e fatti di cronaca, dà vita a storie in poche battute, pulsanti tableaux vivant che spiazzano e spezzano il fiato al lettore.

 

 

Esiste un identikit degli sconfitti, o si tratta di una condizione così diffusa da rendere difficile una definizione univoca?

Potrei rispondere: il professore delle medie o delle elementari, i giornalisti precari pagati 15 euro lordi a pezzo, gli aspiranti avvocati che non entrano mai negli studi e sono mandati a fare le fotocopie, i metalmeccanici in cassa integrazione che prendono il 70-80% di uno stipendio già basso, i baristi stagionali pagati metà in busta paga e metà in nero. La sconfitta è l’impossibilità di avere un lavoro che renda soddisfatti e che permetta guardare al futuro con un’idea di crescita, di speranza. Gli sconfitti sono schiacciati in un eterno presente fatto di ansia, in un’esistenza eternamente vissuta sul bordo pericolante delle cose. E non si tratta più degli ultimi, come i poveri o i senza tetto, bensì dei penultimi, dei terzultimi: sono i precari istituzionalizzati, i lavoratori poveri.

 Perché ha deciso di scrivere questo libro, e quanto ha contato la sua esperienza di giornalista?

I motivi sono due, uno politico e uno personale. Il primo è che, come cronista, credo ci sia una distanza molto profonda fra la realtà e la sua rappresentazione da parte dei mass media che ricorrono continuamente a semplificazioni estreme. È come se tutta l’informazione avesse ceduto il passo alla polarizzazione presente sul web. Ciò rende invisibile la stragrande maggioranza dei problemi: è una distorsione del reale. Il libro vuole provare a restituire voce al racconto italiano di questo tempo, fatto di sofferenza e di enorme resistenza invisibile da parte delle persone. Il motivo personale riguarda un aneddoto genovese: una notte sono andato a un live del cantante di un gruppo che mi piaceva molto quando ero ragazzo, scoprendo che ora faceva una musica del tutto diversa. A fine concerto gliene ho chiesto il motivo, e lui mi ha risposto così: “Perché ho capito che tutto ciò che faccio per non somigliare a me stesso è tempo sprecato, ora voglio solo cercare di coincidere con me stesso”. Ecco: Antologia degli sconfitti, soprattutto per la sua forma, è il mio tentativo di coincidere con me stesso.

Perché ha usato un registro a metà fra prosa e poesia?

Non posso non nominare il disco del 1971 di Fabrizio De André, Non al denaro non all’amore né al cielo, attraverso cui ho conosciuto il libro Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, e l’immagine della collina dei morti dove finalmente ognuno può dire come e perché sia andata la propria vita. Io ho pensato di far parlare il coro dei vivi, dei vivi a stento. Credo ci siano attimi, piccoli ma significativi, che hanno la possibilità di raccontare una storia più grande, e l’esempio mi è arrivato proprio da questi due capolavori.

Come mai non si parla di queste realtà, se non schiacciando le storie in numeri da statistica? Che cosa suggerirebbe al sistema mediatico?

A proposito di numeri, ricordiamone due: 6 milioni gli italiani in povertà assoluta, 4 milioni i lavoratori poveri, il 64% degli italiani fatica ad arrivare alla fine del mese (dati Eurostat). Ciò significa che uno su due è nei guai: una cosa incredibile, ma questo numero è così grande, e quindi talmente inconcepibile, che alla fine passa, scorre via. Così come quelli che testimoniano il continuo aumento di vendite di confezioni di psicofarmaci: 38 milioni nell’ultimo anno, con un incremento costante del 2% per ogni anno (+4% durante il COVID-19). Viviamo un tempo fatto di velocità e di continuo estremismo, che richiede un eccesso di violenza comunicativa; così le parole si sono usurate, e tutto risulta svuotato. A questo proposito, penso al viaggio fatto in Turchia per il terremoto del 2023: davanti a una devastazione così grande mi sono accorto di non avere più parole, perché le avevo già usate tutte per cose molto più piccole. Lì ho capito che, in questo continuo rilancio emotivo, le parole non sono più solide, nobili, forti, ma vittime di un utilizzo strumentale. Penso che dovremmo usarne di meno, scegliendo le più esatte. Credo più nel potere delle storie che in quello dei numeri, nonostante riconosca il ruolo di rilievo degli statistici. Per me, una storia ha il potere di spiegare meglio la realtà, più di una cifra, per quanto eclatante.

 Sempre più persone vivono vite al ribasso: crede che questo faccia parte dei pericoli che mettono a rischio la tenuta democratica?

Molte forme di insofferenza e rabbia nascono da questo, anche se negli ultimi tempi si sono più aggregate su questioni di altro genere (come sulla libertà, vedasi i no vax); ma io sono convinto che il tema della giustizia sociale verrà, prima o poi, raccolto in maniera convincente. C’è un problema di distribuzione della ricchezza. Ora si parla dell’abolizione del Jobs Act, di tornare a un lavoro meno precario. Io ci credo, perché non si può vivere di continuo nella precarietà: ce l’avevano raccontata guardando all’America, in cui si cambia lavoro portandosi via gli scatoloni per poi essere subito assunti altrove. Non è così: siamo pieni di gente che ha dovuto fare quegli scatoloni, ma li ha ancora chiusi, ed è salvata da quei nonni che hanno pensioni e case. Quando verrà meno il sostegno di questo welfare invisibile e famigliare, che è decisivo da Nord a Sud, i giovani sfruttatissimi e i cinquantenni che hanno perso il lavoro resteranno soli. Penso a quello che succede nei CAF, dove si dichiara quanto si guadagna per chiedere quello che una volta si chiamava Reddito di Cittadinanza, e ora Assegno di Inclusione. Con le nuove norme, introdotte dal governo Meloni per rendere più inaccessibile questo sostegno, si deve dichiarare anche la situazione economica dei propri genitori, perché si fa parte di quel nucleo famigliare. Ciò lega per sempre persone, magari di 50 anni, a una casa comprata dal proprio padre con un lungo mutuo: è qualcosa di abbastanza vigliacco, ingiusto, meschino e umiliante. Ci sono stati casi poco raccontati di sofferenza e aggressività, perché è molto difficile rispondere a queste domande: un conto è mostrare la propria dichiarazione dei redditi, un altro dover coinvolgere padre e madre.

Fra i lavori sottopagati e svalutati c’è anche quello giornalistico: un’informazione sempre più composta da notizie spendibili con rapidità annienta la cultura dell’approfondimento? Come si può tornare a farne?

Ne parlo nella parte finale del libro, in cui racconto il mio punto di vista di giornalista della carta stampata in una città postindustriale e postfordista come Torino, che sta cambiando, spopolandosi e perdendo gli operai, la fabbrica e i suoi padroni. Anche La Stampa, giornale storico, si trova davanti a un’enorme trasformazione. Io individuo come momento di non ritorno quello in cui si è riconvertito il lavoro dei correttori di bozze, abdicando alla cura delle parole per seguire la rivoluzione tecnologica del web, che richiede velocità. Sono convinto che il giornalismo (così come il vinile, i romanzi e le cose che paiono di un altro secolo) sopravviverà quando ritroverà senso. Quello del vinile è mettere in fila canzoni che non sono casuali, ma volutamente in quell’ordine preciso. Allo stesso modo, torneranno dei giornali pensati, lavorati con cura, dove non ci sono refusi e il cui punto di vista sulle cose farà davvero la differenza. Magari non godranno della massima popolarità, saranno più di nicchia, ma il bene sarà la cura della differenza tramite profondità e lentezza. Si deve capire l’importanza di riprendere in mano le redini non cedendo a pubblicare, ad esempio, dodici notizie in un giorno in prima pagina web su Chiara Ferragni e Fedez. Con tutto il rispetto per entrambi, quello non può essere l’ordine del mondo: se invece ciò accade, si può affermare che siamo tutti in un momento di grande smarrimento.

Come definirebbe il lavoro di oggi?

Un controsenso, una concessone che viene data per cui tu devi ringraziare per ciò che fai, perché altri vorrebbero essere al tuo posto. C’è una distorsione di potere che fa sì che il lavoro non sia più un modo per essere vincente. Premetto che io odio le parole vincente e perdente, ma una volta il lavoro era un modo per realizzarsi ed essere soddisfatti. Era utile alla vita. Adesso, invece, coincide del tutto con la vita stessa e non basta per fare il resto; è del tutto insoddisfacente.

 Fra le tante storie che ha raccolto ce n’è una che pensa sia particolarmente rappresentativa?

Quella di Giuseppe Sorvillo, che da Sparanise (Caserta) viene a Torino a cercare lavoro: lo trova in periferia, impiegato in un supermercato. Lì conosce sua moglie, che fa la cassiera. Hanno due figli, comprano una casa con 42 anni di mutuo. Avendo i medesimi orari di lavoro, lo stipendio di uno dei due se ne va del tutto per pagare la babysitter. Dopo quattro anni Giuseppe decide di fare il manutentore ferroviario, in modo da lavorare di notte e di giorno occuparsi dei “ninni” (lui chiamava così i suoi bambini). Inizia ad agosto; a fine mese si trova su un binario a Brandizzo quando passa un treno a 160 km/h e, per un cosiddetto incidente sul lavoro, muore. La storia di questo lavoratore, che cerca fortuna essendo anche disposto a fare un ulteriore sacrificio – perché il manutentore ferroviario è uno dei lavori più pesanti in assoluto, con mezzi meccanici ottocenteschi – e che si trova su un binario mortale per risparmiare sulla babysitter, è un preciso quadro della situazione italiana.

 

 

 

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