Prendere posizione sociale o prendere solo in giro? Il caso Nike

Di recente sono stati resi noti i dati finanziari del terzo trimestre del 2019 di Nike: 7% di crescita globale rispetto al 2018, 11% in più di ricavi, doppia cifra per le scarpe in Asia. Ma il dato incredibile è il 36% di crescita nel commercio digitale. E ancora: al lancio di Air Jordan Concord […]

Di recente sono stati resi noti i dati finanziari del terzo trimestre del 2019 di Nike: 7% di crescita globale rispetto al 2018, 11% in più di ricavi, doppia cifra per le scarpe in Asia. Ma il dato incredibile è il 36% di crescita nel commercio digitale. E ancora: al lancio di Air Jordan Concord la Nike ha toccato le 300 transazioni al secondo. E non importa il lieve calo nel Nord America e in Europa; tutto si compensa con gli altri Paesi e con la previsione della crescita del mercato femminile del 20% nei prossimi due anni.

I motivi della crescita sono da accreditarsi a più fattori ma ce n’è uno che è l’oggetto di questo articolo: il gap non percepito dal consumatore tra ciò che Nike racconta e ciò che Nike è.

 

Nike predica bene: il brand activism e il caso di Colin Kaepernick

Avete mai pensato che siamo complici? Intendo noi consumatori. Sì, la parola è corretta: siamo complici ogni volta che non approfondiamo e restiamo in superficie nelle questioni di economia, politica, cultura e soprattutto comunicazione, advertising, informazione.

Voglio parlare di un esempio planetario: Nike. E no, non parlerò delle condizioni dei loro lavoratori nelle fabbriche. Non se ne sente parlare praticamente più. Qualcuno produce e noi compriamo. Ma tra il prodotto immesso sul mercato e noi che ci portiamo a spasso allegramente la shopping bag con dentro l’ultimo paio di Air Max c’è uno spazio in cui vengono costruiti: posizionamento, identità, valore differenziale del brand. Dentro quello spazio il brand attrae il nostro sguardo, pretende l’impegno a essergli fedele, a dargli credibilità. Insomma, in quello spazio il brand investe milioni di euro, dollari, yen, o quello che vi pare. È uno spazio di cui percepiamo solo una parte, nel quale non sempre ci impegniamo ad approfondire la veridicità della nostra relazione con il brand.

Ecco, questo Nike lo sa. Sa che noi ci impegniamo poco ad approfondire, a verificare: ci vuole impegno per farlo, bisogna superare la barriera dell’emotività carica e prosopopeica a cui i grandi pubblicitari ci hanno abituati; ma è sempre not today, a quanto pare. Nike affronta l’advertising caricandolo da sempre di forte emotività, ma nel 2018 qualcosa ha ridato una spinta sopita al colosso americano: il brand activism.

La campagna Nike con Colin Kaepernick

 

Lo ricordate quel giocatore, Colin Kaepernick, che non si inginocchia davanti all’inno nazionale e viene cacciato dalla NFL? Nike ne fa un testimonial nella campagna Believe in something, lasciando intendere più che chiaramente di essere contro il razzismo, di appoggiare il gesto di Kaepernick andando contro le politiche di Trump.

Peccato che:

  1. la Nike non ha rinunciato ai contratti con la NFL (col cavolo, si tratta di business);
  2. la stagione 2019-2020 della National Football League si è aperta da circa un mese e indovinate? Kaepernick non ha ancora un contratto, non gioca;
  3. i designer della Nike hanno avuto l’idea geniale di progettare una scarpa con la bandiera di Betsy Ross, quella con anello di stelle che rappresenta le colonie prima della rivoluzione che avrebbe portato alla fine dello schiavismo. La Air Max 1 Quick Strike, che doveva uscire il 4 luglio del 2019 è stata ritirata; forse Kaepernick gli ha fatto una telefonata.

Morale della favola: lo hai preso come testimone, sei contro il razzismo, ma ti tieni il tuo cliente più razzista (la NFL) e progetti pure una scarpa coloniale. E se negli Stati Uniti almeno è uscito l’hashtag #boycottnike, da queste parti neanche l’ombra di disappunto o flessione delle vendite.

 

Nike, le donne e i manichini

Non è sufficiente. Anzi, questa è la punta di un iceberg più grosso di quello che affondò il Titanic.

Nike continua la sua “presa di posizione” e promuove una campagna a favore delle donne atlete che si intitola Dream Crazier (qui il video per un ripasso emotivo), nella quale si esaltano le donne e la loro forza per risemantizzare positivamente il termine crazy. Ma in un universo parallelo, not so far, succedono due cose:

  1. insorgono quattro dipendenti di un retail Nike denunciando non solo il doppio standard dello stipendio maschile/femminile, ma le condizioni fortemente discriminanti per le donne che lavorano in Nike, arrivando a parlare di molestie. La causa si allarga grazie ad una sentenza della corte dell’Oregon che impedisce a Nike di ridurre la questione a mero adeguamento salariale e diventa una propria Class Action. (Il caso è Cahill v. Nike Inc., 3: 18-cv-01477, Corte distrettuale degli Stati Uniti, distretto dell’Oregon);
  2. come nella peggiore delle storie da rivoluzione industriale ottocentesca, un’atleta di nome Alisya Montano rilascia una lunga video-testimonianza al New York Times dove dichiara che Nike le ha comunicato la sospensione del suo contratto a causa della maternità (il video è in link, ma se siete tipi nervosetti vi conviene non guardarlo).
L’atleta Alisya Montano

 

Ma l’azienda cresce, l’azienda prospera. Aggiungiamo l’ultimo tassello.

Quest’anno la Nike ha debuttato con un manichinotaglie forti” nel flagship store di Londra. Tutto il dibattito si è concentrato su due posizioni:

  • bravi, perché i corpi sono tutti diversi e meritano la stessa considerazione, e un corpo in carne non è per forza un corpo che non fa sport o non gode di buona salute;
  • maledetti, perché questo manichino fa passare l’idea che l’obesità non sia un problema.

Diamo un numero che ci chiarisca la mente: da quando Nike ha debuttato con il suo nuovo manichino plus-size le ricerche online di “Nike” e “plus-size” sull’e-commerce Love the Sales sono cresciute del 387% nella settimana di lancio; le vendite sono cresciute del 31%. Le taglie forti sono destinate infatti ad aumentare da qui ai prossimi dieci anni, come più volte ha ribadito l’OMS (tranne che in Italia, dove per fortuna dal 2015 siamo stabili, benedetta dieta mediterranea). Come farsi sfuggire un target così in crescita? Manichini che promuovono una coscienza e cambiano un comportamento? No. Geniale mossa di marketing che afferma: vestiti con i nostri prodotti, ora puoi farlo.

 

Ingannati per sempre?

Ma è proprio vero allora che l’utente sta maturando una nuova coscienza? O forse il marketing sta cercando un modo per rendere sempre meno percepibile il gap tra l’identità di impresa (come soggetto economico) e l’identità comunicata dal brand?

Azzardo una previsione: facciamo finta che io abbia trovato un portale sul futuro, e che entrando nel mio pc, come in un film di Chronenberg, adesso io sia in grado di vedere il mercato e i brand nel 2030. Vi dico quello che vedo.

Vedo un mercato polarizzato su due livelli. In un livello chi sei e cosa fai hanno avuto un senso e una corrispondenza dalla nascita dell’impresa. Su questo livello ci vedo Patagonia, senza né se né ma, e tutte le compagnie che non promettono nulla se non di essere come sono da quando sono nate. Su questo livello essere un brand non è una strategia a tavolino, ma una conseguenza di avere uno scopo per essere un’impresa. Uno scopo che riguarda tutti, e non solo il soggetto economico e la sua crescita.

Sull’altro livello vedo la riduzione dei consumi e degli acquisti. Una miriade di brand la cui bolla di finta consistenza si è svuotata. Perché mentre facevano spot meravigliosi le nuove generazioni (e non i millennials, come abbiamo voluto credere) modificavano il loro modo di vedere il mondo. In quel tempo futuro un brand tra questi vale l’altro, quindi posso fare a meno di entrambi.

Ma forse sto sognando. O forse no. Comunque, per adesso, è ancora not today.

 

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