Sceglieremo una marca come scegliamo un amico

Lo vidi al volo per la prima volta nel 2005 alla stazione di Ancona. Il treno arrivava da Milano e si sarebbe fermato per i pochi minuti d’ordinanza ripartendo poi verso sud. Lui sarebbe poi sceso a Civitanova Marche, giusto il tempo di un cambio treno per Tolentino dove in quegli anni era il Direttore […]

Lo vidi al volo per la prima volta nel 2005 alla stazione di Ancona. Il treno arrivava da Milano e si sarebbe fermato per i pochi minuti d’ordinanza ripartendo poi verso sud. Lui sarebbe poi sceso a Civitanova Marche, giusto il tempo di un cambio treno per Tolentino dove in quegli anni era il Direttore artistico della Biennale dell’Umorismo nell’Arte. La mia prima intervista a Lorenzo Marini partì da quell’incontro, e anche l’amicizia. Mi segnarono il suo abito bianco incrociato sui binari per una consegna veloce e il candore che negli anni gli ho solo visto crescere.

Lavorare da creativo, fare la muta ai prodotti e riuscire a scavare in una purezza anche propria è virtù di pochi. Dopo trent’anni a bordo delle principali marche come creativo e pubblicitario con la sua nota agenzia tra Milano, New York e Los Angeles, ormai da qualche anno si è generato una seconda pelle intorno a una pittura figlia dei primi studi di architettura all’Università di Venezia e di una ispirazione dedicata a Emilio Vedova. La bellezza a bilanciare i consumi.

“Sapendo che ci saremmo sentiti per immaginare che pubblicità costruiremo nei prossimi decenni, d’istinto sono andato a cercare se esistano ancora sfere di vetro, che noi notoriamente associamo ai fachiri o ai popoli indiani. Invece ho scoperto che le uniche fabbriche ancora in produzione sono americane, curioso.

Noi quelle sfere non ce le abbiamo, del resto è molto più divertente lavorare di immaginazione che poi è anche il mio mestiere. Siamo all’inizio di un ventennio e possiamo solo provare a immaginare quello che saremo tra dieci anni amplificando il presente e decifrandolo senza paure.

Tre cose. La prima è che la pubblicità degli anni Trenta sarà più sincera.

Nel primo decennio, Internet era stato persino proposto per il Nobel a conferma di quanto tutti fossero convinti che avrebbe reso il mondo un posto migliore: ci sono bastati appena dieci anni per accorgerci che era ed è un posto pieno di bugie, di fake news, persino di porcherie. L’ingenuità degli anni Dieci ha fatto maturare la consapevolezza degli anni Venti. Ci fa dire che la coerenza è tutto, che la gente parla e che tu quel prodotto che stai cercando di vendere non devi venderlo una volta e via – per cui ti basterebbe anche la bugia – ma devi venderlo per anni.

Le bugie pagano solo nel breve”.

Chi non ha ancora capito la lunghezza di gamba delle bugie?

La politica, in assoluto. La bugia e la politica sono tutta tattica, niente strategia. Il web ci obbligherà sempre più ad essere sinceri e, col tempo, ad affinare e perfezionare questa sincerità.

Dovrà valere anche per i consumatori.

Sì, perché saranno l’altra parte del discorso. Adesso, per esempio, il packaging di uno yogurt ai frutti di bosco ti mostra uno yogurt pieno di frutti di bosco, ma lo sappiamo tutti che in un vasetto ci saranno al massimo due lamponi e due mirtilli. Sarà sempre più evidente per i consumatori la differenza tra una pubblicità di brand e una pubblicità di informazione – o, meglio, brand content – e loro saranno la cerniera responsabile dell’intero meccanismo.

Torniamo alla seconda delle tre grandi trasformazioni che prevedi.

Nel 2030 la pubblicità avrà due gambe, come noi che camminiamo su due sostegni. La prima gamba sarà la televisione che è sempre meno efficace in termini di call to action perché metà delle persone che guardano la tv è contemporaneamente collegata, nella maggior parte dei casi, ad un altro device: sarà così ancora per diversi anni, le persone saranno ancora in bilico su più strumenti senza concentrarsi su nessuno. Come quando una volta parlavi con la nonna mentre faceva l’uncinetto: stava più attento a te o all’uncinetto? Dipendeva dal punto dell’uncinetto e da ciò che tu le dicevi. La televisione crea una consapevolezza di brand, è un passaporto del brand, una sorta di orientamento psicologico capace di ripulirti dalle resistenze verso una marca che non consoci o che pensi di conoscere già. Il momento dell’approfondimento si sposterà però tutto sul digitale, che costituirà l’altra metà sostanziale dell’informazione. È lì che si concentrerà la nostra ricerca, e il grande lavoro dei tecnici e dei creativi sarà portarci direttamente alla loro marca. Nella maggior parte dei casi noi andiamo a cercare nel web soltanto l’oggetto e non la marca, spesso non sappiamo ancora che tipo di modello o di colore desideriamo, abbiamo in testa l’idea ma il consumo non è ancora pronto. Digitiamo “cucina”, “rossetto”, “camera da letto”, quasi mai la marca.

La televisione dovrà puntare a sedurci più di quanto abbia cercato di fare finora. Corretto?

Proprio così. Dovrà sforzarsi di lavorare sulla sua parte più intima, istintiva, spettacolare. Il messaggio tecnico e informativo si staccherà sempre più dal canale video: quello lo andremo a cercare online, nei siti. Insomma, altrove.

Avremo ancora bisogno di annunci e manifesti?

Ti rispondo ricordando che Apple, il prodotto più moderno del millennio, sceglie di comunicare con lo strumento pubblicitario più antico che è appunto il manifesto. Accade perché hanno capito che ci deve essere una comunicazione ancora una volta su due livelli: uno reale e uno digitale. È lo stesso meccanismo che sta emergendo in politica: conquista consenso chi lavora su due piani, quello reale delle piazze o dei gazebo e quello digitale. Pensiamo oggi al M5S e alla Lega, o pensiamo in passato a quando la Festa dell’Unità veniva considerata importante tanto quanto il salotto. La politica è iniziata a saltare in aria quando ha iniziato a rinunciare alla comunicazione di piazza e al momento fisico; il manifesto è allo stesso modo un momento di contatto e torneremo ad averne bisogno.

La duplicità ci appartiene come il doppio binario di cui stiamo parlando, siamo anche noi mezzi razionali e mezzi istintivi, siamo anche noi un corpo fatto di due metà.

C’è chi sta andando fuori binario?

Tutti quelli che non capiscono niente di comunicazione e vorrebbero relegare la pubblicità all’informazione, ma nessuno vuole solo informazione perché il 95% della leva all’acquisto è emotiva e non razionale. Il prodotto più venduto non è quello che ha la somma algebrica dei pregi e dei difetti ma quello che parla il tuo linguaggio, e sceglieremo sempre più una marca come scegliamo un amico.

La marca entrerà sempre di più nelle nostre vite, con una presenza fondamentale nella nostra quotidianità che detterà interessi, passioni, emozioni. Il ruolo degli influencer dimostra già questa evoluzione.

Credo che andremo sempre di più verso una dimensione di vicinanza, di fiducia, di empatia, dove la marca non parlerà più con tono autoreferenziale, ma si instaureranno invece rapporti più intimi, veri e sinceri. Per questo gli influencer lasceranno prima il posto ai micro influencer e poi al singolo utente, che diventerà esso stesso centro dell’attenzione mediatica.

Questa comunicazione emotiva, che è il rompighiaccio, verrà subito seguita e bilanciata da un insieme di comunicazioni digitali – dal brand content ai social media – con una profilazione più affine al singolo. Useremo i fuochi d’artificio per piacere a tutti.  La parola che meglio caratterizzerà il futuro è “personalizzazione”. La pubblicità non parlerà più alle masse, ma ai singoli individui. Un cambio di paradigma che vedrà come alleato il progresso tecnologico che, tramite l’utilizzo di software, sensori, connessioni wifi e strumenti avanguardistici, permetterà di affinare le ricerche basate sulle abitudini dei potenziali consumatori, aprendo la strada all’impero dell’on-demand.

Di conseguenza l’epoca dei servizi su richiesta spianerà alla pubblicità un terreno che ad oggi è ancora poco esplorato e regolamentato: quello delle app. Più che la comunicazione in rete, infatti, a fare da padrona nei prossimi anni sarà la comunicazione distribuita attraverso i dispositivi mobili. I computer verranno utilizzati sempre più a scopi unicamente lavorativi, mentre sarà agli smartphone e ai tablet che gli utenti dedicheranno la maggior parte del proprio tempo libero.

Il mezzo più dispersivo resterà il manifesto perché ogni prodotto sa bene di poter puntare solo a una fetta di consumatori, gli altri non saranno mai interessati; eppure, resterà la forte valenza dell’esposizione del messaggio perché niente come un’affissione è capace di presenziare alle nostre giornate e ai nostri tragitti. Esattamente il contrario delle mailing list.

Chi, al contrario, ci detta già la rotta dei prossimi decenni?

Il Super Bowl. Mai come quest’anno, nella sua storia, sono andati a ruba gli spazi pubblicitari non appena li hanno resi disponibili. Trenta secondi di passaggio costano milioni di euro. Negli ultimi dieci anni il loro prezzo è schizzato alle stelle perché non esiste negli Stati Uniti un evento capace di catturare contemporaneamente circa 150 milioni di americani, nemmeno se tutti quei soldi venissero divisi e spalmati sui canali social. È la capacità di catalizzare attenzione e sentimento dentro il Super Bowl a renderlo così attraente. Vale per la Notte degli Oscar o per il nostro Festival di Sanremo o per la finale dei campionati del mondo di calcio, il Super Bowl è solo la testimonianza più alta.

Guarderemo ancora ai modelli americani, nel 2030?

Diciamo che loro servono nella misura in cui li vediamo come un popolo molto concreto e molto più pratico di noi. Se persino loro scelgono il contatto e il sentimento, allora funziona.

E poi loro sanno misurare. Lavorando anche negli Stati Uniti mi capita di fare confronti utili per il mio mestiere. Quando un cliente americano compra un manifesto gigante affisso su un palazzo vuole sapere esattamente quante persone lo vedranno, che giro di pubblico muoverà. A noi italiani questo non interessa in modo così dettagliato, noi siamo il Paese dell’abbastanza, del circa, del più o meno.

Chissà se la pubblicità avrà sempre l’urgenza di rispondere ai bisogni.

Riesco a rispondere solo facendo un paragone con il mare che si muove molto in superficie, grazie ai venti che generano le onde. In profondità vivono invece le correnti marine, e i bisogni sono lì sotto come la nostra idea di felicità. Le onde, come la comunicazione, raccontano solo modi differenti di espressione ma il cuore è in profondità. L’iPhone ha spostato il personal computer, gli auricolari hanno spostato il juke box, Candy Crash ha spostato persino il pallone, ma il bisogno di giocare resta. L’uomo non rinuncerà mai a giocare.

Ancora troppo presto per ipotizzare se il mestiere del creativo resisterà alla tecnologia umanizzata?

Forse sì. Per tutto questo decennio vivremo ancora la supremazia dei big-data e dei media, tutto il potere delle agenzie creative degli anni Settanta-Novanta si è ribaltato nella Borsa, nelle multinazionali che hanno invaso e comprato tutto, nelle logiche finanziarie. Quando David Ogilvy o Leo Burnett si incontravano, parlavano delle campagne; oggi si parla solo di soldi ed è la prova ulteriore che le grandi società di consulenza da Ernst&Young ad Accenture vanno a prendersi l’ultimo miglio che è l’agenzia pubblicitaria. Noi creativi abbiamo perso potere perché quel potere è andato a finire nella finanza, e i clienti si trovano molto meglio a parlare di soldi che non di creatività, perché in quest’ultimo caso serve molto più coraggio. Siccome stiamo vivendo lo stupore della tecnologia, crediamo che le macchine sappiano dirci come vivere e siccome i centri media, i centri d’acquisto, sono stati i primi a dirci che la pubblicità stava morendo e che non serviva più la creatività ma bastava la frequenza, io allora rispondo “Per chi suona la campana?”. Tra poco succederà a loro ciò che è già successo alle agenzie di viaggio, nel 2030 quasi certamente i clienti salteranno le centrali d’acquisto – che diventeranno probabili consulenti – e compreranno direttamente i loro spazi. Ci sarà più onestà, meno furfanteria.

Le oscillazioni del mercato hanno toccato fortemente la pubblicità.

Si chiamano agenzie di pubblicità perché alla fine dell’Ottocento vendevano spazi e, già che c’erano, si misero a vendere pure idee, che era il mestiere di noi creativi. Una sorta di pendolo: cento anni fa erano tutto spazi, cinquanta anni fa tutto idee, oggi è tutto big data. Inevitabilmente nel prossimo ventennio, una volta che tutti avranno comprato un sistema per avere i propri spazi sui media, torneremo a vendere idee. Senza idee però la tecnologia è orfana: torneremo a recuperare il cuore del nostro lavoro. Ancora per un po’ saremo attratti dal come perché abbiamo perso di vista il cosa.

Cosa avranno da dirci i creativi tra dieci anni, una volta ripresa la forza?

Ci racconteranno l’anima, compresa quella della Terra.

I prodotti non necessari dovranno dire altro e parlare con più sincerità per conquistarci. I creativi però non sono ancora pronti, intorno vedo tanta “cortomiranza” – parola che non esiste ma che rende bene – e tanta bramosia di avere in fretta l’attenzione finalizzata solo ad una vendita troppo rapida. Ci sono sussulti, certo, ma ancora disorganizzati. C’è nell’aria un cambiamento, ma ha bisogno di maturare. Fortunatamente capiremo che il computer è più stupido dell’uomo, ha solo più memoria. E quando ci riproduce un Rembrandt solo perché sta elaborando i quadri che gli abbiamo dato da mangiare in memoria dobbiamo renderci conto che è un oggetto inutile, vuoto, senza alcun valore per gli storici dell’arte. È semplicemente finto, e nessuno vorrà più finzioni.

Lasciami con una provocazione.

Facile. Metti che tra qualche decennio sarà possibile mandare una mail a Dio come già oggi è possibile inviarla al Papa, impensabile fino a pochi anni fa. Cosa diciamo o chiediamo a Dio se non abbiamo studiato per scrivere, se non abbiamo un pensiero da offrirgli? Bisogna colmare il gap tra la cultura tecnologica evolutissima e la cultura umanistica ancora così arretrata.

 

 

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