Social Media Marketing, de Luyk: “Le aziende ingannate dalle piattaforme”

Social Media Marketing non è solo un tema per le aziende, ma anche il titolo di un libro di Alessandro De Luyk. L’intervista sul futuro di una professione.

Nell’ultimo report Global Digital 2018 di Hootsuite e We Are Social, alcuni professionisti del digitale hanno felicemente trovato alcuni dati in controtendenza rispetto a quanto molti vanno predicando in azienda, negli eventi e ai corsi di formazione.

Si nota, infatti, che se da un lato le piattaforme di share più diffuse nella popolazione si confermano quelle di networking puro, come Facebook, dall’altro i contenuti condivisi vengono creati in ben altri luoghi, come ad esempio YouTube.

Proprio Facebook, nei suoi piani di conquista del mondo, sta cercando di mettere a frutto una serie di strumenti che possano permettere agli utenti non solo di condividere, cercare e gestire contenuti, ma anche di produrli direttamente sulla sua piattaforma. Eppure, non è ancora riuscita ad accreditarsi in tal senso.

Le aziende, all’interno di questa dialettica che le vede diventare editori, sono consapevoli del potenziale del loro contenuto? E lo sanno gli specialisti del digital marketing a cui si rivolgono per lo studio e l’implementazione di progetti di comunicazione social? Perché in questo periodo sia le aziende che i professionsti italiani non riescono ad alzare il livello intellettuale, scientifico e operativo del lavoro sulle nuove piattaforme tecnologiche?

Questi e altri aspetti del delicato discorso relativo al cambiamento dei social media in rapporto all’evoluzione digitale delle aziende italiane sono stati oggetto di un confronto che abbiamo voluto aprire con Alessandro de Luyk, consulente in economia digitale, specializzato nello sviluppo di progetti crossmediali ed e-commerce multipiattaforma, oltre che autore di un libro che ci ha incuriosito molto.

Ciò che colpisce del suo Social Media Marketing fra UGC e Algoritmi è che è stato scritto in termini business, fa differenza tra i media e i network ed evita di riempire i vuoti con accenni su come usare le piattaforme, a come coinvolgere le star in tutte le strategie, a quale tono di voce utilizzare per far battere il cuore agli utenti. Come se prendersi confidenza, emozionare e far agire in preda all’emozione sia il pensiero fisso del marketing: niente di più riduttivo potrebbe essere detto del nostro settore.

Come la politica, il marketing ha bisogno di molta più razionalità di quanto non si immagini, e ormai molti lo sanno. Ma molti non sono ancora abbastanza, specie nell’ambito social, dove i numeri sono praticamente ancora indefinibili.

Ecco perchè, sfogliando l‘indice di questo saggio pubblicato appena qualche mese fa, si può subito decidere se andare avanti o meno: non è un libro per perditempo, nè vuole illudere qualcuno di ciò che non serve per fare il social media expert. È una lettura diretta, parla di come si lavora, che tocca direttamente e indirettamente corde delicate, come ad esempio il tema di un mercato a forte rischio deprofessionalizzazione.

Intervista all’autore di Social Media Marketing, Alessandro de Luyk

 

Alessandro, quanto dovrebbe costare secondo te lo studio, lo sviluppo e l’implementazione di un progetto social all’interno di un’azienda o di un’organizzazione?

È impossibile dare una risposta numerica ma si può rispondere con approccio aziendale: da manuale, le aziende dovrebbero rispondere alle necessità di budgeting tenendo in considerazione tre problemi, cioè di dominio, di internazionalizzazione e di gestione commerciale, problemi che determinano la loro necessità di utilizzare o meno i canali di comunicazione social.
La soluzione da manuale, però, è impraticabile perché è difficile valutare il ROI del social media come canale. Il metodo migliore non è di stimare il business plan, il marketing plan e poi arrivare alla quantificazione di un progetto social media; bisogna fare un processo inverso. Cioè guardare ai concorrenti dell’azienda e vedere chi, da benchmark, è il più vicino alla propria realtà.

Ci stai per caso dicendo che l’aspettativa di queste organizzazioni influisce sulla definizione di un “prezzo giusto”, nonostante esse riconoscano al digitale un ruolo chiave per il loro sviluppo futuro?

Le aspettative, in particolare in Italia, influiscono moltissimo. Non credo che esistano aziende italiane che possano fare da apripista nello sviluppo di progetti social da cui, successivamente, altre realtà organizzative possano prendere spunto. E torno al discorso del benchmark: l’azienda dovrebbe prima andare a verificare chi ha già utilizzato i canali social media nel suo settore, e con quali risultati. Da lì sarebbe in grado di comprendere l’impatto che l’implementazione di un progetto social potrebbe avere per la sua realtà. È solo così che si può iniziare ad avere un’idea di budget adeguato, altrimenti l’unico ROI misurabile resterà sempre e solo quello di una singola campagna di comunicazione.

Facciamo finta di non aver capito, allora. Diccelo più esplicitamente: le aziende non trovano professionisti con le competenze adeguate perché lo sviluppo, ma anche la gestione, di un progetto social media marketing costi il giusto?

Per me l’aspettativa italiana è negativa, perché non è basata su un criterio oggettivo di analisi di mercato. Sarebbe più ragionevole che queste imprese non avessero alcuna aspettativa, perché la percezione psicologica di spesa adeguata non è supportata da nessuna ragione economica.

A che cosa addebiti queste carenze?

In Italia molte aziende iniziano a lavorare a progetti digitali perché lo hanno visto fare da altri. C’è più un atteggiamento emotivo, di imitazione, ma non è in linea con un’aspettativa logica di sviluppo dell’immagine aziendale. Inoltre va fatto anche un discorso di risorse umane che influisce su questa aspettativa: le aziende hanno difficoltà a trovare persone competenti a tutti i livelli, dallo sviluppo di strategie fino all’operatività. La professionalità è un fattore che aiuta il sistema di misura del valore di un progetto.
Su LinkedIn, per esempio, noto un costante aggiornamento dei profili che però non rispecchia la realtà. Nascono e muoiono di continuo figure professionali inventate e improvvsate, senza aver mai avuto reali riscontri in azienda. A sua volta, questo limite è legato al sistema accademico.
L’università, che dovrebbe garantire quantomeno una preparazione di base adeguata, è completamente scollegata dal mercato e propone attestati che, senza competenze ed esperienze reali, non rispecchiano le esigenze delle organizzazioni.
Parallelamente noto che gli attestati non possono garantire nulla alle aziende, e che spesso i professionisti più adatti al caso sono quelli che, senza riconoscimento accademico, hanno potuto lavorare sul campo e sviluppare lì le skills necessarie per competere.

In tempi di algoritmi tritabudget, quanto conta lavorare al Customer Decision Journey? E in che termini, a tuo avviso?

Secondo me è tutto lì. Questi sono punti che valgono al di fuori del contesto dell’ecologia digitale in cui si muove il cittadino internazionale, visto che in alcune zone del mondo, come ad esempio il Nord Europa, abbiamo un 80% di utenti che compra online.
Secondo me, dal momento che c’è un continuo passaggio tra canali e piattaforme da parte dell’utente, bisogna capire quali siano i punti del percorso di acquisto che il cliente di un’azienda fa, partendo dalla conoscenza e dalla comprensione delle personas.

Tutti pazzi per il listening: in un capitolo del saggio, passi in rassegna tool e progetti a sostegno del monitoraggio casalingo. Ma non abbiamo paura di affidare l’analisi al social media manager?

È giusto che non venga affidato loro perché non hanno le competenze, per ruolo, per rispondere alle esigenze di analisi statistica, che vanno ben oltre il monitoraggio degli insight dalle piattaforme social.

Nel tuo libro recuperi un concetto che sembrava dimenticato da tutti gli altri autori di discipline digitali: il social publishing in relazione alla produzione di contenuti.

Le aziende hanno una grande responsabilità nella produzione di contenuto multimediale, generando anche fenomeni di contaminazione verso altri canali mainstream. Pensiamo a Gomorra: con la sua capacità di esportazione è un’eccezione, in questo momento.
La mia percezione è che in Italia in questa fase non siamo sfidanti, ma siamo molto cauti, a tutti i livelli.
Dall’alto, non si tenta di produrre i grandi contenuti che eravamo in grado di creare decenni fa, quando l’Italia si sapeva far conoscere grazie al racconto della sua immagine, comunicando se stessa e diffondendo contenuti di design che l’hanno resa famosa. Inoltre, verso il basso, i brand non riescono a cogliere l’opportunità di fare da collante negli spazi in cui si ritrovano le community spontanee, perché è lì che c’è già del contenuto, ed è importante rilevarlo, misurarlo e portarlo alla luce.

Inutile chiederti, a questo punto, se secondo te nel mondo social conti di più la connessione, la condivisione o la produzione di contenuto, perché hai già risposto.

Be’, sì. Quello che vedo è che le aziende si stanno facendo ingannare dalle piattaforme, dallo scopo che hanno e dagli influencer che le abitano, con i loro numerosi follower. Il punto è sempre lo stesso: se non c’è alle spalle un approccio scientifico agli strumenti, alle strategie e al loro potenziale per lo sviluppo del business, e finché i social media verranno visti come un gioco, è difficile che le aspettative aziendali possano diventare positive verso il settore e verso alcune sue figure professionali.

C’è un altro tallone d’Achille che hai toccato con il tuo lavoro di divulgazione sui social media: la consapevolezza, prima ancora dell’utilizzo, delle fonti di informazione nei testi che girano tra le mani degli aspiranti Social Media Marketer. Anche questo è un fattore che penalizza la crescita del settore in termini di diffusione delle competenze reali, o no?

Io vedo una grande impreparazione: l’azienda non sa valutare le professionalità, né ha gli strumenti per farlo. Inoltre, le professionalità non sono in linea con le aspettative.
Un ulteriore aspetto è che c’è una grande difficoltà a capire che i social media non sono una dashboard in cui collezionare fan e follower, ma sono una scelta strategica, innanzitutto di presenza su alcuni canali.
Bisogna capire la distinzione tra necessità strategica e necessità operativa.

A proposito di Social Commerce, non pensi che le piattaforme di networking stiano per fondersi in piattaforme di shopping vere e proprie? Che futuro hanno Facebook e Amazon, secondo te?

Sicuramente il business model di Amazon è chiaro, quindi è facile immagine un futuro di questa piattaforma. Non si può dire lo stesso di Facebook che non ha personalizzato la value proposition, a differenza degli altri social network come ad esempio Twitter, che si sta sempre più specializzando nella comunicazione di stampo giornalistico, diventando un canale privilegiato per l’informazione. Facebook ha un futuro oscuro.
La sua volontà di prendere tutto non lo rende solido e, in termini economici, non avendo una value proposition chiara e definita è già difficile immaginare come evolverà, figuriamoci come possa riuscire a fondersi con altri mercati. Anche questo è uno dei problemi che le aziende, nelle loro valutazioni dei progetti social media, dovrebbero capire per evitare di fare scelte azzardate affidandosi a esperti verticalizzati sulle piattaforme, ma che non hanno alcuna preparazione economica, sociologica e filosofica necessarie a comprendere questo passaggio.
Se il budget destinato ai progetti e alle risorse loro affidate continuerà a basarsi su premesse così deboli, non dovrà sorprenderci se noi italiani ci metteremo ancora molto a tornare a essere protagonisti attivi dell’industria internazionale.

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