Editoriale 71 – Solisti Veneti

Lo avessi scritto solo due settimane fa, il sapore dell’editoriale sarebbe stato un altro. La natura nel frattempo ha preso a schiaffi il Veneto, lo ha messo in ginocchio a chiedere scusa per tutti, sull’Altopiano di Asiago ha umiliato più di trecentomila alberi accatastandoli come cerini che, visti adesso, sembrerebbero persino incapaci di prender fuoco […]

Lo avessi scritto solo due settimane fa, il sapore dell’editoriale sarebbe stato un altro.

La natura nel frattempo ha preso a schiaffi il Veneto, lo ha messo in ginocchio a chiedere scusa per tutti, sull’Altopiano di Asiago ha umiliato più di trecentomila alberi accatastandoli come cerini che, visti adesso, sembrerebbero persino incapaci di prender fuoco per quanta vergogna e vento hanno dovuto ingoiare. Ma il Veneto prende colpi da tempo, sono secoli che mette in fila province e città di provincia al servizio di altri, sta lì di lato a un’Italia che se ne è servita come motore di impresa fregandosene di ascoltare che rumore facesse e se avesse bisogni diversi dal fare.

Certo, se vuoi trainare gli altri devi anche sforzarti di rischiarare la voce e di strutturare strategie sennò da lontano non arriveranno a sentirti – da lontano è dove le decisioni si prendono per tutti – o troveranno sempre una scusa per dire che non ci sono riusciti. Che la posizione del motore di un veicolo conti tanto quanto potenza e cilindrata lo si intuisce senza troppe storie: anteriore o posteriore ha un senso ben preciso, distribuisce i pesi in funzione dei modelli e dello scopo su strada ma se il motore è laterale la cosa si fa complessa da gestire; così il Veneto nel suo divenire, tuttora.

Se stai di lato, ti sentono meno.

Se fai di tutto per non comunicare, ti sentono meno.

Se ispiri modelli ma li vivi da solo, ti sentono meno.

Se hai tutti quegli strati di rancore – tutti sotto, tutti profondi, tutti veri – ti sentono meno.

E allora tocca grattarti con più forza per capire chi sei davvero ma non è che a tutti piaccia farsi le unghie in questo modo. Questa non è terra che si fa grattare facilmente, ci vuole precisione nel tatto e cura nel gesto.

Poche le voci di un Veneto per tutti, un Veneto bandiera che non fosse solo schiena curva, fabbriche anche sabato e domenica e voglia di riscatto a suon di schei, un Veneto con meno paure del passato.

Strati e strati di pelle buttati sopra nei secoli per attutire i colpi che la storia chiedeva di incassare in silenzio; e silenzio, mediamente, è stato. Il guaio è che il silenzio fa danni se ogni tanto non ci vai a parlare, se ogni tanto non ci scambi un sentimento. O forse questo Veneto non lo abbiamo mai ascoltato perché non si è dato da fare più di tanto per raccontare come fosse davvero e per cosa gli battesse il cuore? Magari temevano che là fuori non sarebbe piaciuto, chiederselo sarebbe stato lecito.

Peccato che i solisti non spostino equilibri nemmeno quando sono in tanti e nemmeno quando i risultati li assicurano.

Sotto il Veneto c’è un pieno che non trova spazio e che ogni tanto sbotta; il Veneto è un tappo a cui il tempo ha imposto di tenere, costi quel che costi, anche se le guarnizioni di oggi non sono più quelle di prima e la tenuta non garantisce come un tempo il risultato. Qui c’è da capire ancora molto e da restituirlo in interessi, prima ancora delle banche.

Il Veneto è un bordo.

Chi sta sui bordi può solo due vie: scavalcare o difendersi. Le imprese hanno sempre scelto la prima subendo il fascino di quel nord Europa da cui si sono sempre sentiti troppo a sud e allora l’hanno cavalcato di export e di mercato; le persone hanno giocoforza scelto la seconda, trincerando confini e relazioni, sbarrando la strada al diverso fosse anche solo un vicino, radendo al suolo un noi collettivo e vedendo ogni mattina allo specchio soltanto un io. Dirlo fa male ma aiuta a capire. Tra i verbi fidare e diffidare, i veneti non ci hanno messo solo gli immigrati e i giochi di razza pura ma un passato in cui essi stessi sono stati intinti e che ancora li macchia da dentro.

“Lavoro tanto, arrivo dove voglio”: quante volte mi hanno ripetuto questa frase durante l’ultimo mese tra la gente. In tanti me l’hanno riesumata da un periodo che ancora scotta anche se non brucia più; resta il callo da guardarsi ogni giorno perché i calli sul corpo a questo servono.

Lavorare, solo lavorare, è stata l’unica fede dei padri che un po’ alla volta hanno scollato le famiglie, poi le vite, poi il sistema; un lavorare che costava meno fatica del capire. Tanti i figli e altrettante le generazioni che di quella fede ereditata ora pagano lo scotto e che per questo si sono fatti meno credenti, forse meno praticanti, meno professanti. I figli sfasciano ma sanno anche avanzare fin dove i padri non avrebbero mai osato e al Veneto viene voglia di augurarlo.

In Veneto, ben nascosto, deve per forza esserci un buco in cui gli imprenditori vanno a buttarci le paure e la vergogna che non sanno reggere quando la crisi spoglia tutto. Forse è lo stesso buco da cui ogni tanto Venezia si allaga, come fosse il pianto di una terra intera che stremata cerca sfogo. La vergogna è un sentimento tanto nobile (quando necessario), quanto frainteso (quando ignorato) e i soldi possono sparire da un momento all’altro anche se li hai trattati sempre come uno di famiglia e anche se ti eri fidato di un sistema. La vergogna ti dice chi sei e fin dove puoi arrivare, da lì in poi è meglio fermarsi a testa alta.

Il Veneto è dato per scontato montandoci sopra i pregiudizi, meno la storia, ancor meno il presente in transizione.

Sanno rigenerarsi, invece, qui e sanno farlo bene.

Sanno anticipare il futuro, qui, sanno annusarlo bene.

In Veneto non ci inciampi per sbaglio, lo vai proprio a cercare e, una volta arrivato, cogli subito che sono mancate le carezze e che le donne hanno taciuto un ruolo. Non sono venute a galla qui le donne, non sono una presenza, il Veneto è più maschio che femmina e non c’è regione che non abbia un sesso dominante.

Più gratti, più scopri che non tutto è come sembra e che anche il peggio può servire; quel peggio va preso e ragionato, messo in mezzo alla piazza e non trincerato dietro una veneziana socchiusa perché nessuno lo veda, va maturato come lievito madre cui serve cura. Troppo facile fingere di essere diversi dal passato innalzando fasulli incubatori di idee che prestano il fianco a innovazioni di facciata e a interessi privati, senza nemmeno fare il gesto di chiedere scusa quando poi il castello cade – inevitabile che cada – e travolge anche i figli di quei padri e con loro tutte le favole digitali con cui il mercato li aveva rabboniti.

A chi credere, allora? Forse a un istinto più che a un senso del dovere, meglio ancora a un desiderio che la seconda adolescenza, già iniziata, non vada in cerca di verginità ma di una maturità fatta di rughe.

Del resto suonano ancora i Solisti Veneti, nonostante tutto.

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