Spoiler – “Gli altri siamo noi” nel prossimo Senza Filtro

Jeffrey Lebowsky, detto Drugo, vive a Los Angeles, dove trascorre tranquille giornate a base di bowling, erba e White Russian. Finché un giorno due tirapiedi irrompono a casa sua, reclamando il pagamento di un debito. Di un grosso debito. Drugo viene aggredito, gli scagnozzi gli ficcano la testa nel water e urinano sul suo unico […]

Jeffrey Lebowsky, detto Drugo, vive a Los Angeles, dove trascorre tranquille giornate a base di bowling, erba e White Russian. Finché un giorno due tirapiedi irrompono a casa sua, reclamando il pagamento di un debito. Di un grosso debito. Drugo viene aggredito, gli scagnozzi gli ficcano la testa nel water e urinano sul suo unico tappeto. Capiranno troppo tardi che si tratta di un caso di omonimia. Perché il dado è ormai tratto e, soprattutto, il tappeto è irrimediabilmente rovinato. E Drugo — «Nessuna avidità» — è disposto proprio a tutto pur di riaverlo (The Big Lebowsky, Joel Coen, 1998).

Cambiamo set.

Viola e Dasy non sono solo sorelle. Sono gemelle siamesi, unite al bacino e legate irrimediabilmente l’una all’altra. C’è chi le crede sante, perché quel difetto fisico è un segno divino che produce miracoli e c’è chi vede in loro “le nuove Anna Tatangelo”, per le comparsate neomelò sul Litorale Domizio a base di canzoni trash, composte da un padre che si improvvisa manager e autoreIn un contesto di degrado, economico e culturale, quel “difetto” fornisce sostentamento all’intera famiglia, che esibisce le due ragazze a processioni e matrimoni, in cui la la gente le tocca e si fa i selfie con loro, perché  questo “porta fortuna”. Viola e Dasy crescono con la certezza che la loro condizione non possa migliorare e che saranno costrette per sempre ad essere unite l’una all’altra. Indivisibili, appunto. Come il loro nome d’arte, stampato a caratteri fluo sulla fiancata del Fiat Ducato che le trasporta da un evento all’altro. Finché, per puro caso, un medico propone di sottoporle a intervento chirurgico, perché la separazione fisica è possibile. Il loro sogno è la normalità, ma la famiglia si oppone — «I soldi servono in casa» – così come il parroco opportunista, che vede in loro “le fondamenta della Chiesa Nuova”. E, sulle note di Enzo Avitabile, Viola e Dasy intraprendono un viaggio alla ricerca della propria identità, che paradossalmente è anche ricerca dell’altro (Indivisibili, E. De Angelis, 2016).

Cambiamo set di nuovo.

Cleopatra è una trapezista affascinante e crudele, che lavora in un circo in cui le principali attrazioni sono microcefali e sorelle siamesi, ermafroditi, acrobate a due teste e vecchi-scheletro: “mostri”, come vengono definiti dal pubblico pagante, o più semplicemente freak, che si esibiscono, stringono amicizie e si innamorano sotto le strisce biancorosse del tendone. Hans e Frieda sono due nani, fidanzati e felici, ma il loro amore va in crisi quando Cleopatra scopre che Hans ha ereditato un’ingente somma di denaro e, in combutta con il gigante Ercole, decide di sedurre il nano, sposarlo e poi avvelenarlo, per intascarne il ricco patrimonio. Ma qualcosa non andrà come previsto. Durante il banchetto nuziale, al momento dell’accettazione nel gruppo dei freak — «We accept her, one of us» — Cleopatra si trova davanti tutta la “mostruosità” della sua nuova vita, manda al diavolo i freak e scopre, così, le sue reali intenzioni. Scatenando la reazione violenta di quegli esseri strani (Freaks, T. Browning, 1932).

Ma cos’hanno in comune Lebowsky e Drugo, Viola e Dasy, Cleopatra e i freak?

Scambi di persona, metamorfosi, travestimenti, imitazioni: il mondo del cinema è ricco di storie in cui il rapporto fra identità e alterità è l’elemento cardine. Perché, se pur parafrasando Rilke riteniamo che il solo viaggio sia quello interiore, ci poniamo — con altrettanta determinazione — continue domande sul riconoscimento della realtà che ci circonda e di tutto ciò che concerne l’esistenza di altri io. Nel 1931, il filosofo Edmund Husserl scrisse che l’uomo definisce l’altrui esperienza attraverso una sorta di empatia — Einfühlung —, per la quale l’altro si costituisce per «appresentazione», come un «altro se stesso». E ancora oggi il cinema fa proprio questo punto di vista e confeziona storie che, a più livelli, contengono tracce di convenzioni e riconoscimento, ribellione e novità.

Come nel caso del giornalista, annoiato e di successo, che inscena la sua morte e prende l’identità di un defunto trafficante di armi (The Passenger, M. Antonioni, 1975); come l’attore disoccupato che, per ottenere un ruolo importante, si propone come attrice (Tootsie, Sydney Pollack, 1982) e come il copywriter che si ritrova all’improvviso nei panni — e nei pensieri — di una bionda pubblicitaria, di cui carpisce idee e progetti (What Women Want, Nancy Meyers, 2000). C’è il chirurgo plastico, inventore di una pelle sostitutiva e più resistente di quella umana, che sequestra il giovane Vicente per tramutarlo in Vera (La piel que habito, P. Almodóvar, 2011) e ci sono i due finanzieri di Philadelphia che, per scommessa, sostituiscono un bianco manager d’assalto con un nero senz’arte né parte, per dimostrare o confutare la tendenza genetica al successo (Trading Places, J. Landis, 1983).

E cosa accade, invece, quando è il cinema a mettersi nei panni dell’altro? Il rapporto fra attore e personaggio è da sempre un tema dibattuto, che ha dato origine a numerose interpretazioni. C’è chi ritiene che il personaggio debba essere rappresentato, attraverso un sistema codificato di tecniche, gesti ed espressioni; e c’è chi invece, dall’altra parte, pensa che il personaggio debba essere rivissuto, attraverso un rapporto di identificazione tra l’attore e il personaggio stesso. Il metodo Stanislavskij e l’Actors Studio di Lee Strasberg, tanto per fare due esempi celebri. Bertold Brecht parlava, invece, di strainamento: negava l’identificazione fra attore e personaggio e invitava il primo a mantenersi a debita distanza dal secondo. Recitando il suo ruolo come se, appunto, stesse recitando. Lo straniamento brechtiano sarà poi ripreso da autori come Manoel de Oliveira (Francisca, 1983) e dall’italiano Elio Petri (Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970). Ma soprattutto, dalle prime opere di Jean-Luc Godard.

In Il bandito delle ore 11 (Pierrot le fou, J.L. Godard, 1965) il regista disgrega deliberatamente l’unità stilistica del testo, che viene letteralmente invaso da materiali diversi. E con un effetto volutamente poco realistico. Scene di teatro, pantomime, riproduzioni di quadri: tutto mira a rendere il film un artefatto costruito, che si serve di elementi esterni, pur senza rinunciare alla sua dimensione di racconto. Ma c’è un espediente che, più degli altri, mira a dare al film un effetto di straniamento: la tecnica antinarrativa del camera-look, lo sguardo in direzione della macchina da presa e, di conseguenza, dello spettatore. E, mentre Pierrot e Marianne fuggono in auto verso la Provenza, non si limitano a guardare in camera: si rivolgono direttamente allo spettatore, che chiamano in causa e anche per nome. Oltrepassando i limiti della finzione cinematografica e infrangendo, così, uno dei tabù più codificati del cinema classico.

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