Manifattura tessile: quei posti di lavoro che non attraggono i giovani italiani

Il recupero della grande tradizione sartoriale. Dell’unicità della manifattura artistica che firma il made in Italy nel mondo, in risposta alla crisi e a una digitalizzazione che non può essere la panacea di tutti i mali. È convinta sostenitrice della ricetta Michela Girotto, imprenditrice 46enne, da un quarto di secolo impegnata alla guida della Maglieria Seven […]

Il recupero della grande tradizione sartoriale. Dell’unicità della manifattura artistica che firma il made in Italy nel mondo, in risposta alla crisi e a una digitalizzazione che non può essere la panacea di tutti i mali. È convinta sostenitrice della ricetta Michela Girotto, imprenditrice 46enne, da un quarto di secolo impegnata alla guida della Maglieria Seven di Tribano, paese della Bassa Padovana. È infatti in questo angolo di provincia immersa nelle nebbie padane, che uno degli ultimi baluardi della lavorazione artigianale realizza capi per i più noti e amati stilisti italiani.

Un laboratorio, è il caso di dirlo, in “prima linea”, nel senso gergale degli addetti ai lavori che con questa espressione intendono il livello più prestigioso e ricercato del mercato di ogni brand, prodotto esclusivamente in Italia da professionisti italiani e non genericamente in Europa.

“Tutto è iniziato quando l’azienda in cui avevo lavorato anche dopo il mio apprendistato ha chiuso”, ci racconta Michela. “Eravamo una trentina di ragazze, ma solo sette di noi hanno avuto il coraggio di diventare imprenditrici di se stesse. Abbiamo così fondato una società cooperativa. Una mossa audace, è vero, e non sono mancati i momenti di transizione difficili, come quelli legati alla crisi che ha bastonato il tessile nel 2004. Con determinazione però abbiamo tenuto duro fino a quando è arrivata una commessa grossa da uno dei maggiori stilisti italiani (n.d.r.  deontologia ci impedisce di riportarne il nome). L’abbiamo onorata in tempo grazie a lavoratrici di età compresa tra i 45 e 50 anni, che erano “già” capaci, padrone delle abilità manuali necessarie per lavorare a certi livelli”.

L’avventura è così continuata, con una continua ricapitalizzazione della manodopera qualificata, tra rifiniture, lavorazioni, cuciture, particolari realizzati a mano che gli stilisti sono disposti ad affidare solo ad occhi italiani. Sapiente pazienza, per fare la differenza. Il lavoro fatto e finito bene. L’italianità che sta nel dettaglio, che più è piccolo e più fa la differenza. L’imprenditrice ci spiega che si parla di non più di 300 – 400 capi al massimo, destinati alle più esclusive vetrine mondiali. “Difficile spiegare cosa proviamo quando rivediamo i nostri capi su riviste del calibro di Vogue o li riconosciamo indossati dalle star che sfilano sul red carpet del Festival del cinema di Venezia, con la certezza che quell’abito è uscito anche grazie alle nostre dita”.

Oggi le socie sono rimaste in quattro, complementari tra loro, padrone prima di tutto del tempo, perché libere di distribuire il lavoro nell’arco della settimana in base alle esigenze personali. E quando arriva la commessa grossa a breve scadenza, si corre. Insieme. Per un risultato unico.

Eppure questo patrimonio rischia di morire, estinto dall’assenza di giovani disposti a prendere il testimone e a farsi eredi della bellezza. Numerosissime infatti le postazioni vuote che troviamo nel laboratorio, come si vede dalla foto in cui, di proposito, abbiamo omesso i capi. Lo spionaggio stilistico, ci spiegano, ha un’ottima vista ed è sempre in agguato.

 

laboratorio-deserto

 

 

A mancare non è il lavoro ma informazione e interesse

Sono posti di lavoro inevasi dal potenziale inespresso del Made in Italy, dell’artigianato del tessile.

Michela spiega che le resistenze culturali che incontra ogni volta che propone formazione. Il pregiudizio che il laboratorio artigianale sia alla stregua di un’arida fabbrica e quindi da denigrare. Che il datore di lavoro sia “il padrone speculatore”, quando invece c’è la possibilità di essere parte integrante di un progetto, tutelato anche dall’UE che esige concorrenza leale e correttezza personale.

“Purtroppo” – continua l’imprenditrice – “manca l’informazione su queste opportunità di lavoro. L’informazione e di conseguenza la formazione, poiché nessuno è interessato a crearsi un futuro in questo settore. Dopo la scuola, che è fondamentale perché la cultura generale è cruciale, i ragazzi preferiscono una cartellina in mano, tailleur e tacchi o giacca e cravatta. Anche se questo significa farsi prendere a male parole durante il porta a porta, precariato, umiliazioni, stipendi da fame. Lavorare ad una macchina è faticoso, su questo non c’è dubbio. Ma immaginate la soddisfazione. Spesso sono i genitori stessi e gli insegnanti che hanno per i ragazzi ambizioni strettamente intellettuali. Non possiamo però vivere tutti di pc. Basta guardare a chi oggi si riscommette nell’agricoltura, fatta con cultura, mezzi e tecniche nuove”.

C’è dunque un mondo da scoprire e salvare in quello che potremmo chiamare l’intelletto dell’artigianato. L’intelligenza del tatto, del gusto del bello, del ben fatto. Essenza di un dna solo italiano, perché solo chi è cresciuto nel giardino d’Europa può aver sviluppato un palato fine ed esigente oltre che un occhio attento e severo.

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