Tu vuò fa l’americano, ma si nato in Italy

Il Made in Italy per la ricerca, sviluppo e la produzione di dispositivi elettronici a servizio delle fonti rinnovabili ha un nome ben preciso: Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, nel mezzo di quel Valdarno che fa da sfondo alla Gioconda di Leonardo. In questo territorio sono decenni che esiste uno stabilimento conosciuto in tutto […]

Il Made in Italy per la ricerca, sviluppo e la produzione di dispositivi elettronici a servizio delle fonti rinnovabili ha un nome ben preciso: Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, nel mezzo di quel Valdarno che fa da sfondo alla Gioconda di Leonardo.
In questo territorio sono decenni che esiste uno stabilimento conosciuto in tutto il mondo in grado di brevettare e realizzare oltre 300 prodotti per l’elettronica di potenza, con un numero di dipendenti variabile da 600 a 1100, gestendo e sovraintendendo, in vari periodi, anche siti produttivi in Ungheria, USA, Cina, Slovacchia.

Questo stabilimento, in cinquant’anni, ha cambiato molti proprietari, tutte società straniere, in cui ogni volta la più grande si comprava la più piccola: ex Arco, ex Plessey, ex Magnetek, ex Power One ed oggi ABB. Probabilmente questa catena di acquisizioni si interromperà, perché è inverosimile trovare qualcuno in grado di comprare ABB, cioè il colosso svizzero leader mondiale nelle tecnologie per l’energia e l’automazione che, nel 2015, ha avuto ricavi per oltre 35 miliardi di dollari e le cui società sono presenti in 100 paesi, occupando circa 135.000 dipendenti.

Questo impianto, che tutti vogliono, produce dai motori per le lavatrici ai motori radio per i telefoni Gsm, dai sistemi a cella a combustibile ai generatori di potenza a microturbina ma, soprattutto, produce inverter, cioè quel dispositivo in grado di convertire una corrente continua in ingresso in una corrente alternata in uscita, indispensabile, ad esempio, per far funzionare i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche.

Eppure la gran parte dell’opinione pubblica italiana è convinta che in questo settore la leadership fosse tedesca o cinese. Invece così non è.
Nonostante i capitali finanziari iniziali fossero stranieri, è solo l’incredibile capitale sociale presente in quella valle che ha consentito, nel corso di decenni, di sviluppare, mantenere e poi rilanciare questo know how sui mercati globali e giocare ad armi pari con i maggiori player mondiali. Tanto per citare numeri che ci aiutano a capire la portata del fenomeno, se la Magnetek (terzultimo proprietario del marchio) nel 2006 aveva 560 dipendenti ed un fatturato di 160 milioni di euro, appena sei anni dopo, la Power One (penultimo proprietario) aveva 850 dipendenti (650 a tempo indeterminato e 200 interinali) ed un fatturato di 500 milioni di euro. Con questi numeri dallo stabilimento di Terranuova Bracciolini è uscito il 35% del mercato nazionale ed il 15% del mercato mondiale della produzione di inverter. Non è poco.

Tralasciando gli albori dello stabilimento (anni ’70), andiamo a concentrarci sugli ultimi sviluppi della situazione, che forse rappresentano meglio la peculiarità di questo successo del Made in Italy. Il più grande produttore d’inverter al mondo, di allora, è americano e si chiama Power One. Nel 2008 compra la Magnetek. Nel 2010, la domanda di pannelli fotovoltaici – di cui gli inverter sono una componente fondamentale – cresce a dismisura, trainata dagli incentivi. L’azienda deve espandersi per soddisfare questa domanda, ma non ha spazio. Luciano Raviola, Direttore di Power One Italia, ha un’idea, fortemente sostenuta anche dal tessuto imprenditoriale e istituzionale locale. Propone a venti storici fornitori locali dell’azienda di creare una società che si faccia carico di realizzare il prodotto finito con attrezzature e impianti di Power One, in esclusiva. È così che nasce il Consorzio Terranuova.

Grazie a questa trovata le imprese subfornitrici consolidano il loro rapporto con Power One e integrano la produzione, riuscendo a ridurre i costi, incrementare i servizi e liberare risorse per investire, oltre ad aver approfittato delle dimensioni consortili per strappare condizioni migliori a banche e agenzie interinali. A due anni dalla nascita, il Consorzio Terranuova ha già aperto due stabilimenti produttivi, assumendo 240 nuovi addetti, che si vanno a sommare ai 360 dipendenti che già lavoravano all’interno delle 10 aziende consorziate. Il fatturato 2011 sfiora i 40 milioni di euro. Insomma si crea un distretto tecnologico che tra committente e fornitori diretti sfiora i 1200 dipendenti e con il proposito di arrivare quanto prima al miliardo di euro di ricavi.

Lo stabilimento Power One valdarnese, che ovviamente fa da traino a tutto il distretto, viene tuttavia utilizzato dalla casa madre statunitense come un vero e proprio “bancomat”, per ripianare le perdite che la multinazionale ha accumulato in giro per il mondo. Agli americani viene anche in mente di replicare il modello italiano ed il know how di prodotto e decidono di aprire un impianto a Phoenix con le stesse caratteristiche. Ma lì qualcosa non torna e l’esperimento non funziona.

Quello che in Arizona sembra sia mancato è proprio “il capitale sociale” e il tessuto socio economico valdarnese, dove si era riusciti non solo a fare sistema (vedi il consorzio) ma a stabilire un rapporto unico e forse irripetibile con il territorio. Infatti lo stabilimento terranovese era gestito (non a caso) con una larga autonomia dal management italiano, che si era inventato un modello gestionale molto efficace, che era riuscito a sviluppare una rete di vendita invidiabile, relazioni sindacali eccellenti (alla CGIL si sono spinti a definirlo un esempio di “capitalismo sociale”), gestione del brand non solo ai fini di puro marketing ma anche di responsabilità sociale d’impresa (in Valdarno non c’era manifestazione culturale, sportiva o sociale che non fosse supportata dal logo Power One).

Ma il successo italiano non è bastato alla casa madre americana per restare a galla e quindi nell’aprile 2013 la Power One Inc viene venduta, “piantando baracca e burattini”, al colosso ABB, con un’operazione da un miliardo di dollari. Il passaggio di proprietà viene salutato positivamente sia a livello globale (entusiastiche le dichiarazioni dei due rispettivi CEO) sia a livello locale. Ma proprio da allora in Valdarno le cose cominciano a cambiare e le prospettive diventano meno rosee, sia sul fronte occupazionale che su quello di tenuta del sistema-distretto. Nonostante il mercato delle rinnovabili a livello globale continui a far registrate il segno più, il numero dei dipendenti crolla agli attuali 550 (di cui una quarantina ad ulteriore rischio), il fatturato scende, l’indotto trema.

La nuova proprietà ha mandato segnali di voler tralasciare il mercato degli inverter per il fotovoltaico per concentrarsi sulla produzione di colonnine di ricarica per le auto elettriche (visto che la tecnologia sarebbe simile). Ma soprattutto ha decapitato il management autoctono sostituendolo in gran parte con dirigenti stranieri (sono andati a casa il direttore generale, il direttore vendite, il capo del personale, il capo del business fotovoltaico).
La nuova organizzazione del lavoro prevede che anche le relazioni sindacali passino da una RSU di stabilimento ad una centralizzata a livello nazionale (ABB possiede 10 stabilimenti in Italia), è stata azzerata la rete di vendita, passando da un modello Business to Consumer ad un modello Business to Business, transitando per intermediari. Si è perso completamente il contatto con il territorio e, in una logica prettamente multinazionale, non è escluso che anche le commesse che fino ad oggi erano a km zero adesso possano essere dirottate al miglior offerente, magari cinese o indiano.

Ecco quindi che a marzo scorso anche i lavoratori abbiano perso la pazienza ed abbiano proclamato uno sciopero per chiedere certezze sul futuro ed essere se non proprio consultati almeno informati sul nuovo piano industriale, ma ancora rimangono alla porta (proprio in questi giorni sembra esserci un incontro, comunque pur sempre dopo due mesi di attesa).

Avremmo voluto approfondire meglio questo aspetto chiedendo ad ABB di chiarire le legittime preoccupazioni sul cambio di strategia, ma l’ufficio stampa (guarda caso a Milano) non ci ha degnato di risposta.
Parafrasando Churchill, su Terranuova è calata una cortina di ferro.

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