Tutte le connessioni Trieste – Tokyo, dal trasferimento tecnologico all’Open Innovation

Il suo curriculum lo descrive male. Laureato in giurisprudenza all’Università di Parma, nel 2003 ha conseguito un Master of Laws in diritto della proprietà intellettuale, ma gli studi legali non erano proprio il luogo in cui si sentisse al proprio posto. Così, valigia in mano, nel 2008 Luca parte per Seattle e va a lavorare […]

Il suo curriculum lo descrive male. Laureato in giurisprudenza all’Università di Parma, nel 2003 ha conseguito un Master of Laws in diritto della proprietà intellettuale, ma gli studi legali non erano proprio il luogo in cui si sentisse al proprio posto. Così, valigia in mano, nel 2008 Luca parte per Seattle e va a lavorare come Visiting Lecturer presso l’Università di Washington, dove resta per due anni. Sarà stata quella la spinta a non lasciare più la dimensione del viaggio, chissà, ad ogni modo è da quel momento che Luca inizia a “collezionare titoli”: Fellow dello Stanford-Vienna Transatlantic Technology Forum, Invited Researcher presso Waseda University (Tokyo), alumnus di Singularity University (GSP’10), poi di ritorno (momentaneamente) in Italia, co-founder di Impact HUB Trieste e Innoventually. Nella sostanza, lavora come CEO, mentore e consulente per diverse aziende, università e centri di ricerca in tutto il mondo.

La verità è che è la mente di Luca ad essere connessa con qualsiasi angolo del mondo, prima ancora delle tecnologie innovative che lo portano continuamente lontano dal suo Paese natìo, ed è questo che fa di lui una “bella capoccia” che vale la pena conoscere.

Che lavoro fa davvero Escoffier?

Credo che la mia definizione più appropriata sia “innovation enthusiast” …anche se questo si riferisce più all’approccio che adotto in merito alle cose che faccio quotidianamente che al mio mestiere. Lavoro a 360 gradi nel campo dell’innovazione (trasferimento tecnologico, sviluppo prodotti e partnership internazionali, crowdsourcing, startup, ecc.) e dormo poco. Lavoro quasi ogni giorno su tre fusi, Tokyo, West Coast negli USA e Italia, il che rende le cose veramente complicate a volte, ma mi dà  anche molte soddisfazioni. Sapere che con gli strumenti che abbiamo ora a disposizione posso interagire ogni giorno con amici e colleghi in tutto il pianeta a costo zero è fantastico. Ricordo ancora quando arrivavano bollette da 100.000 lire negli anni ottanta perché facevo telefonate interurbane con la fidanzatina! Questo è il risultato delle exponential technologies.

È d’obbligo iniziare a parlare di connessioni e collaborazioni, allora ti chiedo perché hai deciso di dedicarti, tra gli altri, proprio al progetto di Impact Hub a Trieste.

“Per due motivi molto semplici. Primo, perché credo profondamente nella contaminazione che luoghi come gli Impact HUB nel mondo possono favorire fra i soggetti che li “popolano”, infatti, ora passerò eccezionalmente più di un mese a Trieste e non vedo l’ora di conoscere tutti i nuovi membri e passare un po’ di tempo con quelli che già conosco e non vedo da mesi. Il secondo motivo è legato ai legami con il mio territorio, con i miei soci,  ovviamente, erano e sono le persone ideali per gestire questa impresa con professionalità e la creatività necessaria per differenziarlo da un mero spazio di co-working. Mi spiace davvero non essere molto presente su Trieste, ma ovviamente seguo tutto quello che accade da remoto o almeno ci provo!”

So che, con Innoventually, ti occupi di collegare le esigenze interne alle aziende con le idee provenienti dall’esterno. Di cosa si tratta nello specifico?

Innoventually è una startup innovativa che ho costituito nel 2014 con diversi amici e che si occupa di open innovation e altri servizi accessori nel campo della gestione e monetizzazione della proprietà intellettuale.
L’Open Innovation è un modello di business che si fonda sul riconoscimento che molte idee e soluzioni innovative valide vengono “realizzate” all’esterno delle aziende, e che queste possono nondimeno trarne vantaggio potenziando la propria capacità di: i) identificare innovazioni tecnologiche (e non solo) al di fuori dell’organizzazione
ii) acquisire tali soluzioni innovative
iii) internalizzare le stesse nei propri processi produttivi.
La forma di open innovation che a nostro avviso potrebbe prendere piede in Italia è quella cosiddetta “challenge-driven”, che dai primi anni duemila è stata portata avanti principalmente da alcune aziende nordamericane e che hanno come loro primario campo d’azione la ricerca di soluzioni, normalmente tecnologiche, a problemi che vengono definiti dalle imprese loro clienti. Le imprese possono essere aziende impegnate nei settori più svariati (ma lo strumento può essere utilizzato anche da enti pubblici): dall’agricoltura alle biotecnologie, dall’informatica all’ingegneria, alla fisica e al design.Le soluzioni innovative selezionate dalle imprese sono poi “premiate” attraverso il conferimento di award in denaro. Vi invito a dare una scorsa al sito quando avrete tempo perché ci sono veramente tante informazioni che possono essere utili per aziende di tutte le dimensioni”.

Parli di challenge-driven per l’Italia: che cosa pensi serva al nostro sistema per competere con gli altri Paesi?

“Dipende di che competitività si parla. Se parliamo di competitività per le start-up – che è la sola in cui mi posso sentire di dire qualcosa con cognizione di causa – allora potremmo scrivere un libro a parte.
Scherzi a parte, ho vissuto negli Stati Uniti in due delle sue città più high-tech: San Francisco e Seattle. Due caratteri diversi ma entrambi molto affascinanti ed efficienti. Quello che rende unici gli States in tema di start-up generation e development è costituito da tre elementi fondamentali: teste provenienti da tutto il mondo (tutte riunite in pochi luoghi che fungono da epicentro e collettore), capitali (veri, per poter crescere globalmente) e meritocrazia (vera, per saper crescere globalmente). Se e quando riusciremo ad avere uno o più di questi elementi, potremo essere in grado di competere ad armi pari, until then…”

L’educazione alla connessione: quanto ha influito la tua esperienza alla Singularity University per il lavoro che svolgi oggi?

“Molto, nel senso che ha contribuito a persuadermi al cento per cento in merito al tipo di percorso che avrei dovuto fare in futuro e a rafforzare il mio comunque già incrollabile ottimismo, chi mi conosce lo sa, ma questo non so se è sempre un bene. Nel senso, io sono uno che non si arrende mai perché vede tutto e tutti con un occhio, sì critico, ma comunque sempre possibilista. Per me ci sono sempre soluzioni ai problemi, alcune più difficili di altre, ma ci sono, basta essere pazienti e rimboccarsi le maniche. Ecco, l’esperienza alla Singularity University è stata l’ultimo anello che ha chiuso questa catena della fiducia nelle mie capacità e in quelle altrui”.

Cosa succederà tra dieci anni?

“Bella domanda. Altra cosa che ho scoperto della mia vita è che è prevedibilmente imprevedibile, il che rende il tutto sempre ricco di stimoli, diciamo che non mi annoio mai …non ne ho veramente idea, forse questa è una wake-up call per farmi capire che devo mettermi al lavoro per costruirmi il mio futuro del 2025”.

 

 

 

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