Whistleblowing: siamo lavoratori, clienti o cittadini?

Il 16 aprile scorso, il Parlamento Europeo ha approvato la nuova Direttiva sulla tutela dei whistleblower, letteralmente “chi soffia (blower) nel fischietto (whistle)”, cioè chi segnala casi di corruzione di interesse generale. Saranno introdotti importanti miglioramenti, soprattutto per i dipendenti del settore privato, oggi meno tutelati rispetto a quelli del settore pubblico. L’Europa, per la […]

Il 16 aprile scorso, il Parlamento Europeo ha approvato la nuova Direttiva sulla tutela dei whistleblower, letteralmente “chi soffia (blower) nel fischietto (whistle)”, cioè chi segnala casi di corruzione di interesse generale. Saranno introdotti importanti miglioramenti, soprattutto per i dipendenti del settore privato, oggi meno tutelati rispetto a quelli del settore pubblico. L’Europa, per la quale siamo chiamati al voto, non è quindi quella che i detrattori sostengono si occupi solo della lunghezza delle zucchine.

I whistleblower anonimi godranno di maggiori garanzie che mancavano nella legge italiana. Infatti le imprese avranno l’obbligo di prendere in esame le loro segnalazioni, e se in un secondo momento dovesse emergere la loro identità saranno comunque tutelati. Il nostro Paese ha due anni di tempo per rendere la norma esecutiva.

 

Whistleblowing, l’importanza dell’anonimato

Sappiamo bene che chi segnala un caso di corruzione, frode o altri comportamenti scorretti rischia la rappresaglia sul posto di lavoro se la sua identità viene resa nota. Dunque l’anonimato è assolutamente essenziale; per questo la protezione deve essere garantita inserendola anche nei contratti di lavoro, legalmente esecutivi.

In questo contesto, l’affidabilità delle aziende è fondamentale: nei casi di denuncia, diventa prioritaria la sicurezza dei dati e la corretta gestione delle informazioni sensibili. Oltre alla garanzia dell’anonimato del denunciante, è necessario che i processi di investigazione messi in atto dalle aziende vengano svolti in modo trasparente, evitando operazioni di occultamento o ritorsione.

È chiaro che se le persone che lavorano nell’organizzazione si rendono conto che la loro segnalazione è caduta nel nulla, il messaggio che arriva è inequivocabile: l’azienda non si cura di ciò che è sbagliato e non si preoccupa del whistleblowing.

 

La necessità di una nuova cultura da parte dell’azienda e dei manager

La lotta alla corruzione non è generalmente considerata una priorità nella gestione del business. L’interesse del pubblico si focalizza soprattutto sui casi riguardanti i decisori politici e le amministrazioni dello Stato (i recenti casi di corruzione emersi in Italia lo dimostrano), mentre minore attenzione è riservata ai casi che riguardano in maniera esclusiva i soggetti privati.

D’altra parte, le organizzazioni italiane che si occupano di trasparenza, legalità e open data (tra queste ricordiamo, oltre a Transparency International Italia, OpenPolis, Riparte il Futuro e Libera), tranne qualche eccezione, difficilmente si impegnano a monitorare i comportamenti delle aziende del settore privato in relazione a possibili condotte corruttive.

 

Il caso della Banca Barclays

Un caso eclatante è quello che ha riguardato la Banca Barclays, che ha subito una pesante sanzione perché il suo amministratore delegato, Jes Staley, ha tentato di smascherare un informatore che nel 2016 aveva inviato due lettere, sollevando dubbi sull’idoneità e le reali qualifiche di una persona assunta dallo stesso Staley; dubbi rivelatisi poi veritieri.

La prima lettera avrebbe dovuto essere considerata come una vera e propria denuncia di un informatore, e inviata agli uffici competenti della Banca per verificarne la veridicità. Invece Staley la rese pubblica, condividendola con i dirigenti dell’azienda e cercando oltretutto di scoprire chi l’avesse scritta, perché considerava il contenuto “falso e malevolo”.

A. J. Brown, che fa parte del consiglio di amministrazione di Transparency International ed è professore di politiche pubbliche alla Griffith University in Australia, ha affermato: “In passato, nessuno avrebbe messo in dubbio il diritto di un amministratore delegato di dare la caccia all’identità di un informatore interno, se lo avesse voluto. Ora, per fortuna, è riconosciuto come contrario al buon governo societario. Questa è una svolta fondamentale per il mondo degli affari”.

 

Perché denunciare? Tanto non serve a nulla!

L’esperienza del whistleblowing, dopo pochi anni dal suo ingresso nella pratica aziendale italiana, non ha ancora ottenuto la necessaria attenzione. Diverse aziende, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, hanno adottato delle politiche di segnalazione, ad esempio, appoggiandosi agli organismi di vigilanza; ma sono poche.

La diffusione della corruzione, in Italia, non è solo una questione di qualità delle leggi o della loro concreta applicazione. C’è un problema più profondo e radicato, di non facile risoluzione: l’atteggiamento degli italiani verso il fenomeno, e più in generale nei confronti della legalità e della responsabilità. Tutti si indignano davanti agli scandali che quotidianamente leggiamo sui giornali, ma sono pochi quelli che poi si mettono in gioco in prima persona per cambiare davvero le cose, perché tanto “non serve a nulla”.

Ma non si tratta solo di questo. Permane ancora la mentalità che sia sbagliato e moralmente scorretto segnalare delle irregolarità all’interno della azienda in cui si lavora: si teme di essere etichettati come spie o delatori, sebbene si sappia che i comportamenti scorretti danneggiano i clienti, l’ambiente, la salute della popolazione, la libera concorrenza. Il collaboratore soffre, per così dire, di una sorta di schizofrenia per cui, quando veste i panni del lavoratore, automaticamente sembra smettere quelli del cliente e del cittadino.

 

Chi fa la soffiata non è un traditore, ma un dipendente responsabile

Bisogna invece ricordarsi che prima di tutto si è cittadini e che occorre agire secondo coscienza, segnalando senza timore comportamenti aziendali non sufficientemente improntati ai principi di integrità e correttezza, sicuri che così facendo si opera nell’interesse dell’intera comunità.

E poi c’è la scuola. Per cambiare questa mentalità è necessario spiegare agli studenti quali sono le reali conseguenze della corruzione sulla vita di tutti, evidenziando allo stesso tempo i vantaggi di una società equa, trasparente e responsabile. È giusto, quindi, reintrodurre nei programmi scolastici l’insegnamento di educazione civica per conoscere le istituzioni e il loro funzionamento, ma l’intento deve soprattutto essere quello di sviluppare il senso di responsabilità del cittadino nei confronti di chi gestisce il potere, politico o economico che sia.

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