Aziende che cercano talenti, senza il talento per gestirli

“Trattenere” i talenti è un concetto sbagliato alla radice, tanto più se le aziende non sono in grado di riconoscerli quando li hanno a disposizione: si può essere un talento a ogni età? Ne parliamo con tre esperti di risorse umane

18.09.2024
Talenti distrutti dall'imperizia delle aziende: un violino fatto a pezzi da un martello

Fare un bel respiro per cercare di non farsi anestetizzare dalla parola più stressata dalle aziende negli ultimi anni: talento. Un modo c’è: cambiare punto di osservazione, soprattutto spostare l’occhio su una fase successiva, sul tempo in cui occorre non tanto intercettarli e portarli dentro, quanto affascinarli per non farli andar via. Trattenere i talenti è l’espressione canonica usata nel mondo delle imprese. A me non convince perché segna un gesto attivo solo da una parte, oltre al fatto che trattenere è un verbo che può avere accezioni negative, contenere, restringere, forzare.

Le imprese sono troppo concentrate su come trattenerli, i talenti, quando ne hanno bisogno o temono di perderli; non sempre sanno coltivare lo scambio nelle fasi precedenti. Non pensano mai che il talento è un concetto di relazione da costruire nel tempo, e che per farlo occorrono ascolto e fiducia, perché non tutti sono coscienti delle loro qualità, e in quei casi serve qualcuno che le metta in evidenza dall’esterno: competenze profonde e sottili, di cui le organizzazioni non sempre dispongono.

C’è da chiedersi che cosa suggerire loro per fare in modo che i talenti vengano ben affiancati, motivati per adeguarsi nelle competenze senza disperdere il vantaggio. Anche la formazione aziendale può essere una buona strada interna, ma sappiamo quanto la formazione non sia sempre pensata e organizzata con cura, spesso vive di inerzie.

Abbiamo coinvolto nel dialogo tre professionisti, ai quali abbiamo posto anche una domanda comune: si può essere talento a ogni età?

Stefania Mancini: “Talenti over 50, la nuova scoperta delle aziende”

Stefania Mancini, amministratrice di Meta Risorse Umane, con base tra Milano e le Marche, riesce a scandagliare il mondo delle imprese prendendo bene le misure sulla loro dimensione e sul loro pensiero.

“Lo smart working, nemmeno a dirlo, ormai è la prima richiesta dei giovani già in fase di colloquio, se partiamo da qui riusciamo a trovare un punto di contatto tra le esigenze delle imprese di non disperdere i talenti e quelle dei talenti stessi di essere compresi.”

È convinta quando rimarca che l’intransigenza sull’avere o meno libertà nel gestirsi i tempi di lavoro sia un atteggiamento di chi sta per entrare in azienda intorno ai venticinque, trent’anni. “L’eccezione al veto sullo smart working la fa chi è più maturo, chi ha il senso di responsabilità che c’era una volta, quando addirittura si anteponeva il lavoro un po’ a tutto, giusto o meno che fosse”.

Questione d’età, il talento?Proprio no. Uno, quando ce l’ha, se lo porta oltre il tempo. Il polso che ho negli ultimi anni col mio lavoro è che, siccome le aziende spesso faticano a dialogare con le generazioni più giovani, stanno lentamente spostando l’attenzione sugli over 50, provando a valorizzare lì, provando a far innamorare adulti a cui devono spiegare meno cose e coi quali hanno già una lunghezza d’onda comune”.

Quasi che gli over 50, dentro le aziende, potrebbero essere una soluzione di dialogo per non farli scappare. “Potrebbe senz’altro, se le aziende lo capissero. La questione è più complessa se vogliamo mettere lo sguardo sulle PMI o su realtà dove la presenza degli imprenditori rispetto ai collaboratori è ancora molto diretta e presente. I figli di imprenditori si muovono dentro un contesto protetto e non hanno avuto bisogno di sviluppare le qualità multiple dei padri. Ecco che il passaggio da padri a figli in azienda è un’alea di rischio per i talenti più giovani”.

Lo è nella misura in cui i figli che ereditano non ereditano anche la capacità dei genitori – gli imprenditori di una volta, completi – di formare e seguire passo passo i meno esperti. “I talenti se ne vanno anche per colpa di uno scollamento interno, di una distanza, per lo più nei contesti da PMI. Prima delle ferie parlavo con un piccolo imprenditore che cercava figure molto operative, tecnici trasfertisti. Sue parole: ‘Loro vanno in trasferta dal lunedì al venerdì, mangiano a spese nostre’. Io gli ho risposto che quello non può essere considerato un benefit, così come smartphone e computer forniti dall’azienda non sono benefit, ma strumenti di lavoro. ‘Ma loro così risparmiamo’, ha ribattuto. Un episodio per me così significativo che è stato oggetto di riunione in ufficio. Le PMI, soprattutto loro, devono avere chiaro che un talento si trattiene in altro modo: rispondendo a bisogni tangibili”.

Gabriele Ghini: “Talento e alto potenziale, la differenza la fa l'età”

Gabriele Ghini nasce come agronomo e lavora i primi dieci anni in multinazionali della chimica, a suon di antiparassitari e fitofarmaci; al recruiting, che era ancora lontano, ci sarebbe arrivato da una strada insolita, di vendita, dentro una società che si occupava di selezione per il middle management. Poi la vita da head hunter, che oggi lo anima in veste di managing director per Transearch Italyt tanto quanto la docenza in personal branding e reputation management al dipartimento internazionale della Cattolica di Milano. È appena uscito il suo libro Perché i nani non diventano CEO e altre 7 tossicità aziendali (Edizioni Este) dove mette subito un paletto, chiaro: la differenza tra talenti e alti potenziali.

“La confusione è totale e all’ordine del giorno dentro e fuori le aziende. I primi sono a qualunque età e di qualsiasi natura, i secondi sono legati alle fasce più giovani, meno mature. Il talento è la persona giusta che può fare la differenza dentro un’azienda e può farlo anche a sessant’anni. Per la mia esperienza, comunque, a quarant’anni il tuo alto potenziale l’hai già esaurito”.

Tra le sette tossicità aziendali c’è anche la mala gestione dei talenti. “Semplifico al massimo, prendendo ad esempio il modo con cui le aziende comunicano i propri messaggi sui collaboratori: Noi facciamo buoni prodotti ma se non avessimo le persone non riusciremmo a fare nulla, oppure Loro sono il nostro vero capitale, e via così; nessuno contesta loro il diritto di tagliare i costi e ridurre il personale, ma non si può non contestare la falsa retorica spesso messa in campo. Il talento si trattiene in un solo modo: sapendolo scegliere bene all’inizio perché è adatto alla mia azienda, e poi, quando entra, trattandolo non dico diversamente rispetto agli altri, ma certo osservandolo in modo particolare. Le persone in azienda non si motivano con la frutta o con la palestra, ma facendole crescere con te”.

Massima attenzione alle esigenze dei talenti, quindi, se non si vuole perderli, ma fino a che punto? “Mantenerli in azienda vuol dire maturare un percorso di ascolto delle necessità che manifestano, dei bisogni che hanno. Lungo la mia carriera di recruiter, che vuol dire aver incontrato e conosciuto moltissime realtà, confesso di non aver trovato spesso simili capacità da parte loro”.

Infine i giovani: come vivono il proprio concetto di talento, come si fanno riconoscere, come resistono. “Ai miei studenti cito spesso Stephen King: ‘Il talento è come il sale, è molto comune. Quello che fa la differenza tra una persona di talento e una di successo è che quella di successo conosce il duro lavoro’”.

Carlo Bisi: “L’autonomia, non la gerarchia, fa crescere i talenti”

Sulla parola talento una certezza ormai ce l’abbiamo: se non ci lavori sopra, emergono più facilmente quelli che ne hanno meno, ma che lavorano di disciplina e spirito di sacrificio. Così come è tempo di smetterla di parlare di ricerca di talenti, acquisizione: è una logica che ha saturato qualsiasi livello di discussione in cui si parla di sviluppo. Adesso bisogna lavorare fortemente su come non perderli.”

Il pensiero è di Carlo Bisi, AD di Carriere Italia nonché coach certificato ICF di lungo corso. Parla dando voce a un’esperienza più che trentennale di conoscenza dei modelli organizzativi del lavoro maturata da punti di vista interni, esterni, laterali.

“Sono anni che fatichiamo per ridurre il concetto di gerarchia, ma lo facciamo da una prospettiva di disciplina e non di concretezza pratica: il discorso del talento diventa centrale perché più l’azienda è gerarchica, più sarà sempre un capo a dirti cosa devi fare e come. Un atteggiamento simile annienta del tutto lo sviluppo dei talenti e, di conseguenza, la capacità di farli restare”.

L’organizzazione dovrebbe aiutarti a capire cosa si aspetta da te, lasciandoti discrezionalità su come farlo. “È sul come fare che si riesce a esprimere una propria personalità, un pensiero, uno stile, una soluzione. Se ti dicono come fare, è sottinteso anche il controllo per valutare se ti sei mosso bene oppure no rispetto a come la vede l’azienda”.

Incide anche il fatto che un talento di solito lavora sul proprio concetto di autonomia, sia nel fare che nell’andarsene. “Se ti lasciano libero sul come, l’azienda può anche valutare che livello di autonomia il talento sente di poter raggiungere. Il concetto di autonomia è utile sia al collaboratore che all’impresa, perché un capo dovrebbe sempre capire in quale area del come è il caso di delegare. Se parliamo di giovani talenti, tutto questo discorso vale ancora di più”.

Eppure le aziende non sempre si chiedono se si può essere talenti a tutte le età. “Se non lo fanno, fanno un grande errore dato che la persona cresce e la somma delle esperienze somma anche le consapevolezze. Una recente indagine sui livelli di produttività colloca ancora l’Italia in una posizione molto arretrata rispetto alla media europea. Perché si lega a questo discorso su come trattenere i talenti? Perché quando non sai qual è lo scopo del tuo lavoro e il contributo che dai alla tua organizzazione, non sai neanche come lavorare e far lavorare gli altri. Infine: in azienda non si deve aver paura che una persona faccia le cose in una maniera diversa dagli altri o da come vorremmo; l’importante è che me lo spieghi e che faccia nascere un confronto. La somma tra confronto e feedback è alla base di tutto. In aziende sane, si arriva anche a dire alla persona – qualsiasi età abbia – che quell’azienda non è il posto giusto”.

 

 

 

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Photo credits: hannahwasileski.com

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