Annata 2020: più che fermo, il vino è immobile

I primi giorni di settembre, in alcune zone d’Italia, sono già periodo di vendemmia. Anche perché il vino, in Italia, è una cosa seria. Il succo più nobile della tradizione è un prodotto ambito dentro e fuori i confini, che con i suoi 13 miliardi di fatturato assomma da solo il 10% del settore Food […]

I primi giorni di settembre, in alcune zone d’Italia, sono già periodo di vendemmia. Anche perché il vino, in Italia, è una cosa seria. Il succo più nobile della tradizione è un prodotto ambito dentro e fuori i confini, che con i suoi 13 miliardi di fatturato assomma da solo il 10% del settore Food & Beverage (dati Cerved). Un distretto in espansione, con eccellenti prospettive e alcune foschie. Almeno fino ai mesi della pandemia.

Per un breve periodo, lo strabismo di un mercato alla disperata ricerca di buone notizie ha cercato di rinfrancarsi con le poche percentuali ancora positive durante il lockdown: +9% degli acquisti di vino dalla GDO e un altisonante +102% dagli e-commerce rispetto al 2019 (fonte: Nomisma Wine Monitor). Dati incoraggianti ma di scarsa consistenza, se paragonati al contemporaneo crollo del settore Ho.Re.Ca., l’acquirente più redditizio per la produzione enologica di qualità (-25%, che diventerà -50% entro la fine dell’anno). E l’export, come fotografano i più recenti dati Istat, ha ceduto di schianto a cavallo tra aprile e maggio: 24%, un’ecatombe. Il risultato? C’è molto più vino fermo nelle cantine, 42 milioni di ettolitri secondo Federvini, che con la vendemmia alle porte rischia di fare danno anche alla nuova produzione.

Un periodo complicato, reso ancora più difficile da un anno senza precedenti. Volevamo fotografare il modo in cui aziende vinicole di diversa grandezza stanno affrontando la vendemmia 2020 nelle zone più significative d’Italia. Diversi grandi produttori, tuttavia, si sono trincerati dietro un silenzio che ha sostituito la comunicazione edificante da lockdown: nel corso dell’ultimo mese e mezzo, i ripetuti tentativi di contattare imprese come Marchesi Antinori e Cantine Due Palme non hanno ricevuto risposta. Un’occasione sprecata per raccontare le diverse angolature di un settore che, con oltre un milione di impiegati, gioca un ruolo rilevante nella ripresa italiana.

Perché il punto è proprio questo: se è vero che nessun alimento racconta allo stesso modo il tempo e il territorio che lo hanno prodotto, è il momento giusto per domandarsi quali saranno le caratteristiche dell’annata 2020. Dentro e fuori dalla bottiglia.

 

Merum, non vinum: caratteristiche della Puglia vitivinicola

Sulla Puglia incombe un cielo enorme. Il suo peso è la luce, bianchissima, che non trova l’ostacolo di un rilievo nel raggio di chilometri. Il sole scurisce la pelle dell’uva e quella di chi la cura, con una media di 2.600 ore di esposizione annua distribuite in modo omogeneo su tutto il territorio. Se quasi tutte le lingue e i dialetti indoeuropei definiscono il vino con derivati dal latino vinum, che indicava una miscela di mosto fermentato addizionata di spezie, acqua e miele, il dialetto pugliese è l’unico a chiamarlo mjerǝ o mieru: merum denotava il vino da bere schietto, inadulterato. Una suggestione che ancora oggi descrive bene i prodotti dell’enologia locale.

Un tempo serbatoio di rifornimento enologico del Paese, la regione prestava i suoi mosti a corroborare l’esangue nobiltà dei vini centro-settentrionali: quello pugliese era un vino da taglio, un comprimario da non citare per non guastarsi il blasone. Un limbo da cui l’enologia autoctona, come Münchhausen, è uscita tirandosi dai capelli, se a partire dagli anni Settanta le sperimentazioni di alcuni produttori portarono le prime bottiglie made in Apulia alla ribalta della ristorazione nazionale.

Da allora lo sviluppo viticolo del territorio non si è più arrestato: alla produzione di uve da vino sono state riconvertite terre su terre, con sortite sempre più frequenti nella vinificazione di qualità. Oggi la regione produce da sola circa un quinto del vino in Italia, a sua volta produttrice più prolifica al mondo. Una marea di rossi, bianchi e rosati che esonda nei bicchieri di tutti i continenti, e che quest’anno ha rischiato di ritirarsi a causa del COVID-19. I produttori pugliesi sono rimasti soli di fronte all’impatto del lockdown: è con loro che bisogna parlare per capire la portata della pandemia sul settore, e per certi versi sulle nostre vite.

 

Un’annata memorabile, nel bene e nel male: “Anche gli agricoltori sono eroi dell’era del COVID-19”

Simona Natale è la responsabile commerciale dell’azienda Gianfranco Fino Viticoltore. È la moglie del titolare ed enologo, una laurea in giurisprudenza e una carriera da avvocato messe da parte per dedicarsi alla vigna. L’impresa dei Fino è un caso unico nel settore vinicolo, pugliese e non solo: nata dal nulla, sostenuta da un ideale e una maniacale cura al dettaglio, ha conquistato le vette della scena enologica internazionale a suon di premi, plausi degli esperti e devozione degli appassionati. Un successo trasversale che dal 2004 li ha portati ad affacciarsi ai quattro angoli del mondo, pur mantenendo solide basi nella zona di Manduria. L’abbiamo raggiunta per capire attraverso la loro esperienza gli effetti di un evento di cui finora si è parlato solo in rapporto ad altre professioni.

“La prima settimana dopo il lockdown avevamo ancora una coda di ordini provenienti da un ottimo gennaio e febbraio, e poi all’improvviso il nulla assoluto. Abbiamo scelto di non fare nessuna azione di vendita diretta ai consumatori finali, né delivery né apertura di e-commerce del nostro sito internet, perché ci sembrava scorretto nei riguardi di chi in noi ha sempre creduto e ci ha raccontato per 15 anni: i ristoratori, gli enotecari”.

Coldiretti Puglia ha registrato un crollo fino al 90% degli ordini per aziende come la loro, che lavorano con il settore Ho.Re.Ca. in modo quasi esclusivo. Ma il malessere è generalizzato: sempre Coldiretti segnala gravi difficoltà per circa il 40% delle imprese vinicole regionali, uno scenario in cui non è chiaro se a uscirne con le ossa rotte saranno i grandi o i piccoli produttori. Simona, al riguardo, ha le idee chiare: “Credo che avrà la peggio chi non sarà capace di rimanere fedele a se stesso, chi vorrà cambiare in modo drastico la propria identità. Quelle dei colleghi sono scelte personali, che non voglio contestare o avallare. Le aziende dei bianchi in questo lockdown hanno sofferto di più, perché un grande vino rosso se sta fermo sei mesi acquista e non perde, ma un vino bianco d’annata rischia di non essere più vendibile, quindi capisco le strategie messe in atto in alcuni casi. Noi non abbiamo voluto farlo”.

I provvedimenti del governo, qui, sono ancora un’eco lontana; c’è un senso di attesa che deriva da una ripartenza più lenta di quella auspicata. “Più che col governo per noi sta diventando un problema dialogare con i responsabili nella pubblica amministrazione, che lavorano ancora in smart working, per cui non sono sempre disponibili. Oggi secondo me le azioni di governo devono ripartire dal costo vivo del lavoro, semplificarlo, perché è troppo farraginoso. Chi come noi ha fatto un investimento importante in questo momento spera nelle strategie governative, spera che possano venire incontro a chi ha sempre lavorato in un certo modo, a chi fa impresa in uno dei settori più sani del Paese: quello dell’agricoltura. Si può delocalizzare quasi ogni produzione, ma io non posso espiantare le mie vigne e portarle altrove, quindi il vero Made in Italy siamo anche noi. L’agricoltura è una chiave importante di riqualificazione economica”.

Un settore che, nei mesi scorsi, ha avuto anche problemi pratici, come la carenza di manodopera dovuta al blocco degli spostamenti: gli stagionali stranieri sono rimasti all’estero; con i limiti alla circolazione persino arrivare ai terreni muovendosi dai dintorni è diventato molto più complicato. Una situazione che Simona ha vissuto in prima persona: “Penso a tutti i colleghi che hanno avuto il coraggio di continuare a lavorare, perché durante il lockdown trovare qualcuno che lavorasse in vigna era difficilissimo. Tutti noi siamo andati a piantare, a potare; ci siamo sporcati tutti le mani. Quindi che l’Italia si ricordi anche di chi ha combattuto in vigna, nei campi, nella grande orticoltura italiana: i grandi eroi del COVID-19 sono i medici, ma anche gli agricoltori”.

Se la ripresa umana è ancora timida, tuttavia, quella della natura non si è fatta aspettare. I dati sulla vendemmia 2020 sono molto positivi e mostrano una produzione abbondante e sana, con punte qualitative di assoluto rilievo. Il tempo nel settore vitivinicolo non è solo espressione degli anni fiscali: assume forma fisica e sensoriale, una cronologia di vetro e fermentati che chiama ogni anno col suo nome. Quando chiediamo a Simona se c’è qualcosa di quest’annata senza precedenti che si farà strada fino in bottiglia, esita un attimo. Nel rispondere le si incrina la voce.

“Faccio fatica a raccontarlo. Il dolore, quella sensazione di impossibilità di fare dinanzi a qualcosa che era più grande di noi. Sarà un’annata che si porterà dietro la paura di non farcela, di non riuscire a salvare l’azienda. Sarà memorabile sotto tutti i punti di vista; noi non la dimenticheremo mai. Probabilmente rimarrà nei secoli. Speriamo di poterla chiudere con una sensazione buona: quando ho visto il mio primo grappolo di Negroamaro tutto nero, mi ha dato il coraggio di dire che ce la possiamo fare.”

 

Articolo redatto come elaborato finale del “Corso di scrittura giornalistica per non giornalisti” organizzato a giugno 2020 da SenzaFiltro.

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