Il decreto assenteisti e la svolta del Tapiro

Una decina d’anni fa, appena sbarcato a Roma, mi capitò di visitare un appartamento proposto in affitto. Sapevo che il tizio che me l’avrebbe mostrato non era un vero agente immobiliare ma un poliziotto, oltretutto di scorta a un noto politico. Al termine della visita, quando dissi che non era quello che cercavo, lui senza […]

Una decina d’anni fa, appena sbarcato a Roma, mi capitò di visitare un appartamento proposto in affitto. Sapevo che il tizio che me l’avrebbe mostrato non era un vero agente immobiliare ma un poliziotto, oltretutto di scorta a un noto politico. Al termine della visita, quando dissi che non era quello che cercavo, lui senza fare una piega mi porse un bigliettino da visita con un numero di telefono e il disegno di una Vespa: “Dottò, mi ha detto che è da poco a Roma: presto capirà che qua nun se vive senza lo scooter. Ne avesse bisogno, vendo anche quelli”. Sembrava una scena del film “Così parlò Bellavista”. Con gli anni ho scoperto invece che è la realtà quotidiana della Capitale che, con i suoi ministeri, ospita un vero esercito di dipendenti pubblici.

Intendiamoci: il doppio lavoro è sempre esistito ma nel Pubblico è più diffuso sia per la rigidità degli orari di molti impieghi (che spesso consentono di avere l’intero pomeriggio libero) sia per la mancanza di veri controlli e deterrenti che ha sempre consentito a chi lo volesse non solo di assentarsi ma anche di fare altro in orario di lavoro, spesso in maniera sfacciata e arrogante sotto lo sguardo assente dei sindacati. Perché tutto questo è stato tollerato? Una delle teorie più convincenti riguarda i cosiddetti patti “non scritti” che hanno garantito l’ordine sociale nella prima Repubblica e in parte della seconda.

A commercianti e imprenditori di fatto veniva consentita una quota “fisiologica” di evasione fiscale e di fuga dei capitali; ai lavoratori del privato – ma solo alle aziende mediograndi – veniva assicurato l’art. 18 e la cassa integrazione in caso di mala parata; agli statali si garantiva il posto fisso in cambio di un basso stipendio, generosi permessi e maglie larghe che consentivano di arrotondare con altri lavori. Premesso che gli unici fregati erano e rimangono le partite IVA, dopo la crisi del 2011 il soufflè del debito pubblico ha cambiato la musica: il Fisco è più rigido, l’art. 18 non c’è più e nemmeno i soldi per la cassa integrazione. Rimaneva solo da saldare il conto coi dipendenti pubblici. E qui arriviamo alla riforma della Pubblica Amministrazione e in particolare agli ultimi decreti Madia.

La parte più nuova e dirompente riguarda la possibilità di licenziare i dirigenti che tollerano gli assenteisti e, per questi ultimi, la possibilità di esser multati per danno d’immagine. Il ministro l’ha accennato e forse i giornalisti (problema culturale?) non l’hanno sottolineato a sufficienza: questa misura finalmente va a sanare una diversità, quella tra chi lavora davvero e spesso si trova a farlo anche per gli assenteisti. Circostanza odiosa, intollerabile che demotiva i volenterosi.

Ora, la comunicazione del decreto sugli assenteisti è stata un po’ pasticciata da parte del Governo (il tema era ghiotto, si prestava alla grancassa) ed è dovuta intervenire la stessa Madia a più riprese su giornali e in TV per precisare che non sono previste le manette per i dirigenti che non licenziano. Gli addetti ai lavori però concordano: si è toccato il cuore del problema. Ci dice Michel Martone, giuslavorista ed ex viceministro al Lavoro del governo Monti: “Il decreto da una parte affronta un problema atavico: quello del capo che non denuncia o licenzia il fannullone. Intendiamoci: è un modo per affrontare la questione, ma non la soluzione finale di una problematica che trova terreno fertile in una cultura lassista dove i dirigenti non si prendono le loro responsabilità.

Dall’altro – e mi riferisco alla questione del danno mediatico – lo scopo è evidente: ridurre l’assenteismo mettendo paura ai lavoratori, calcando la mano sul profilo disciplinare e introducendo una somma economica da pagare per risarcire il danno di immagine causato all’Amministrazione”.

Sulla multa (minimo 6 mesi di stipendio) come ci hanno confermato altri esperti di diritto, aleggia una nuvola di incertezza poiché non è disponibile il testo dei decreti. C’è il forte rischio che alla fine possa nascere un mostro giuridico che si mangerà, nei tribunali, le buone intenzioni del legislatore. In particolare gli avvocati aspettano di conoscere le modalità esatte con le quali l’Amministrazione chiederà all’assenteista licenziato di pagare la multa per danno d’immagine che a quanto si capisce verrebbe ricondotta nel cosiddetto “danno erariale”. Ad esempio: il multato potrà fare ricorso, e a chi? In caso negativo: è costituzionale? Senza contare che va quantificato il danno d’immagine.

L’unica cosa certa è che verrà ancorato al ritorno negativo della notizia e qua si entra nel terreno minato della discrezionalità del giudice. Non ci sono infatti tabelle come per gli infortuni per capire se fa più danni un Tapiro consegnato da Striscia la Notizia o un servizio delle Iene; un pezzo su Dagospia o un articolo del New York Times. Quest’ultimo poi difficilmente scriverà del vigile in mutande di Sanremo, più probabile che si occupi della misteriosa malattia di massa dei vigili di Roma la notte di San Silvestro. Insomma, si creeranno delle classi di dipendenti pubblici diversamente mediatici a seconda che lavorino agli Uffizi o nello sperduto museo della Barbagia? Se cosi fosse – direbbe Checco Zalone – allora ci vorrebbe come minimo un’indennità contrattuale.

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