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Non mi fa paura Starace, ma gli studenti che lo hanno applaudito
Non mi fa paura Starace, mi fanno paura gli studenti della Luiss che l’hanno applaudito. Mi indispone che una business school faccia una scelta di immagine usando un manager con un rumoroso biglietto da visita, anziché selezionare i contenuti, esposti magari da un piccolo imprenditore sconosciuto. Mi fanno paura quei 100 rappresentanti del futuro imprenditoriale del nostro Paese, giovani virus inoculati […]
Non mi fa paura Starace, mi fanno paura gli studenti della Luiss che l’hanno applaudito. Mi indispone che una business school faccia una scelta di immagine usando un manager con un rumoroso biglietto da visita, anziché selezionare i contenuti, esposti magari da un piccolo imprenditore sconosciuto.
Mi fanno paura quei 100 rappresentanti del futuro imprenditoriale del nostro Paese, giovani virus inoculati dalle scuole di management pronti a infestare le aziende dopo aver investito migliaia di euro in un Master che dovrebbe raccogliere il meglio delle tesi innovative del business più moderno.
In quella lezione aveva fatto scalpore questa dichiarazione:
“Per cambiare un’organizzazione ci vuole un gruppo sufficiente di persone convinte di questo cambiamento, non è necessario sia la maggioranza, basta un manipolo di cambiatori. Poi vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole cambiare e bisogna distruggere fisicamente questi centri di potere. Per farlo, ci vogliono i cambiatori che vanno infilati lì dentro, dando ad essi una visibilità sproporzionata rispetto al loro status aziendale, creando quindi malessere all’interno dell’organizzazione dei gangli che si vuole distruggere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e la cosa va fatta nella maniera più plateale e manifesta possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione. Questa cosa va fatta in fretta, con decisione e senza nessuna requie, e dopo pochi mesi l’organizzazione capisce perchè alla gente non piace soffrire. Quando capiscono che la strada è un’altra, tutto sommato si convincono miracolosamente e vanno tutti lì. È facile”.
Si, è facile. E’ facile quantomeno beccarsi una bella denuncia per mobbing, perché di questo si tratta.
Se la lectio magistralis di Starace voleva avere come tema “il cambiamento”, direi che la missione è fallita sul nascere. Sono bastate 24 ore per redigere una letterina di scuse ai propri dipendenti (che da “gangli da distruggere” improvvisamente sono diventati “colleghi”) dai toni fidanzerecci. (“Lo sapete che quello non è il mio gergo”. Quasi fosse stato Pannofino a doppiarlo con la voce di George Clooney). Come i vicini di casa intervistati dopo un omicidio: “è sempre stata una persona mite e un bravo lavoratore”.
Se voleva essere un messaggio di meritocrazia, in cui solo coloro che sono in grado di cambiare e adeguarsi alle trasformazioni dell’azienda possono crescere e migliorare, allora è proprio sbagliato il metodo.
Il cambiamento non si esegue in contumacia. Al cambiamento si partecipa insieme. L’azienda deve essere in grado di comunicarlo, di dare obbiettivi chiari per tutti, di indicare un punto di arrivo ed accompagnartici con strumenti e con la formazione adeguata. E’ l’azienda che sente la necessità di cambiare, non i suoi dipendenti a cui fino ad oggi è stato detto di andare in una direzione. Se quella direzione è cambiata, bisogna informare tutti e spiegargli come, dove, quando. E se proprio non vi dispiace, anche perché. Visto che poi bisogna spiegarlo a clienti e a stakeholders.
Intanto, a proposito di meritocrazia, Starace è al centro di una polemica legata al finanziamento da 150mila euro ricevuto da una start up di cui l’amministratore delegato di Enel è socio, grazie al bando lanciato da un incubatore promosso dalla stessa Enel. A quanto pare la meritocrazia vale per alcuni. Per altri basta sedersi nei banchi giusti.
L’AD e i suoi yesman
I manipoli di cambiatori nella solitudine della loro stanzetta con le punte degli iceberg appese alle pareti, motivati con super stipendi senza un perché, si chiamano “yesman“. La traduzione italiana è meno generosa. Hanno come unico scopo nella vita quello di nascondere la propria inadeguatezza strutturale sottolineando con un vigoroso cenno della testa dall’alto verso il basso e ritorno qualsiasi ordine del giorno, affinché il loro Capo non si senta altrettanto inadeguato – o peggio – messo in discussione su scelte strategiche che nella stragrande maggioranza dei casi si riveleranno delle colossali Waterloo. (Trenitalia, Italo, Enel, Selex, Finmeccanica, RAI, Marcegaglia sono solo alcuni degli esempi di aziende i cui AD hanno annunciato grandi trasformazioni, costretti poi a fare fragorosi passi indietro quando non addirittura finiti sotto inchiesta per eccessiva “leggerezza strategica”). Non sono i manipoli a cambiare le aziende.
La vera differenza non la fanno i due talenti neo assunti, la fanno i 100 mediocri che sono la memoria storica dell’azienda. Sono quelli, su cui bisogna lavorare per fare vero cambiamento.
Il merito vada a chi dice no
Non ho mai capito perché i polemici non vengano premiati. Perché non esiste un premio aziendale per coloro che “la pensano diversamente”. Perché al tavolo delle decisioni ci siano sempre dieci persone che la pensano tutte nello stesso modo e nessuno che si alzi in piedi per dire: “Direttore, guardi che questa decisione è una minchiata pazzesca!” Quel dipendente lì andrebbe celebrato con un bel premio produzione, non fosse altro perché costringe gli altri nove a pensare a tutti i buchi della strategia appena enunciata.
(Perché un’altra cosa che non ha mai capito nessuno è come mai le strategie le faccia chi rimane chiuso negli acquari di vetro anziché coloro che battono la strada, incontrano i clienti, attuano le linee di prezzo e vendono).
Sono i polemici quelli che credono davvero nell’azienda, non gli ottimisti. Gli ottimisti sperano che tutto vada bene, i polemici pensano ad un modo diverso di fare e interpretare le cose e dunque a trovare strade diverse. Perché il polemico è anche rognoso. Vuole avere ragione e farà di tutto per dimostrarlo e per salire di livello. Io lo so(no).
La cultura virtuosa della “Raccomandazione”
Il punto vero è che in Italia manca la cultura della Raccomandazione. Non parlo di quella con cui si vincono i concorsi per 5 posti su un milione allo sportello del Comune, ma parlo della Raccomandazione virtuosa. Quanti di voi hanno segnalato un collega, un amico, un conoscente, un fornitore. “Prendersi cura” non fa parte della nostra cultura. Siamo quelli che quando hanno bisogno bussano a tutte le porte ma raccolgono elemosina, perché per primi non hanno alimentato una rete di segnalazioni. In alcuni Paesi europei e tendenzialmente in America, addirittura si eroga un bonus al dipendente che suggerisce alla propria azienda un candidato. I social network d’oltreoceano ce lo insegnano: nelle funzioni di Linkedin è previsto “segnalare” le capacità di un professionista. (Poi, anche qui è subentrata tutta la nostra italianità e quindi per un certo periodo giravano email del genere “tu segnala me che io segnalo te…”)
E’ evidente che il primo che comincia innesca un circolo virtuoso dove tutti diventano responsabili della professionalità degli altri. Un circolo dove si attestano le capacità reciproche e dove il minimo comun denominatore non è “conoscersi”, ma “aver lavorato bene”. Un processo nel quale ci si mette la faccia in due: io che confermo le tue competenze e capacità (e quindi mi assumo la responsabilità di ciò che affermo), tu che sei il segnalato e che hai il dovere di farmi fare bella figura.
Se la cultura virtuosa della raccomandazione diventasse un processo universalmente riconosciuto, ognuno di noi potrebbe contare su un numero infinito di opportunità professionali (quelli bravi, naturalmente), dove la reputazione rappresenterebbe il vero fattore di selezione delle persone. Gli incapaci, gli incompetenti, i fannulloni non verrebbero segnalati per sistema e si troverebbero naturalmente ai margini. Nessuno parlerebbe più di meriti e demeriti, perché solo per essere in quel posto in quel momento te lo sei meritato.
Il merito non sarebbe una qualità, ma una fase del processo.
E allora nelle business school sarebbero i Raccomandati a parlare di meritocrazia e non dei Temporary Manager per tutte le stagioni.
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