COP30, risposte giuste alla domanda sbagliata?

La transizione climatica è un problema a cui gli Stati stanno cercando soluzioni senza cambiare il paradigma energetico, con poche eccezioni: che cosa aspettarsi dal summit globale per il clima di Belém, che si terrà dal 10 al 25 novembre 2025? Che cosa sono disposti a fare i diversi Paesi, e a cosa dovrebbero puntare?

11.11.2025
Un'immagine dei capi di Stato presenti alla COP30 2025 a Belèm.

Nel 1898 la città di New York convocò una conferenza mondiale sull’urbanistica alla quale parteciparono sindaci e opinion leader di tutte le principali città del mondo. I pianificatori urbani e gli ingegneri affrontarono il problema del trasporto urbano e dei rifiuti equini.

I partecipanti ammisero la propria impotenza di fronte a quella che nel 1894, a Londra, era stata definita “la grande crisi del letame”. I resoconti dell’epoca (riportati da The Times e The Economist) descrivono come, dopo giorni di dibattiti, la conferenza si chiuse in anticipo perché nessuno riusciva a proporre una soluzione efficace, a parte limitare per legge il numero di abitanti di una città. La metropoli cresceva, i cavalli si moltiplicavano, le strade sparivano sotto tonnellate di sterco equino.

La soluzione, quando arrivò, non fu una pala migliore o un sistema più efficiente di raccolta. Fu un cambio di paradigma radicale: dall’energia animale al motore a combustione interna. Una soluzione quasi inattesa, che esulava dal radar degli esperti.

In questi giorni, a Belém, dal 10 al 21 novembre 2025, si sta svolgendo la 30° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Conference of the Parties, o COP30), che ci mette davanti allo stesso bivio storico e concettuale, con una domanda che vale miliardi di investimenti e decenni di pianificazione strategica: possiamo continuare a ottimizzare l’esistente attraverso obiettivi più ambiziosi, qualche flusso aggiuntivo di finanza climatica e litri di biocarburante, oppure è arrivato il momento di cambiare mezzo, ossia uscire strutturalmente dalla dipendenza dai combustibili fossili e ridisegnare alla radice i nostri modelli di produzione, mobilità e consumo? Una domanda che ci pone ancora una volta di fronte ai cicli di innovazione, che si ripetono inesorabili nella loro dinamica tra come si innova e cosa si innova.

COP30: i governi non rispettano le intese e spostano il problema

Dall’analisi dei fatti recenti emerge una tensione irrisolta tra ambizione ed esecuzione che dovrebbe far suonare più di un campanello d’allarme nelle sale dei Chief Executive Officer e Chief Financial Officer. L’Unione europea ha trovato, dopo oltre ventiquattro ore di negoziati notturni conclusi il 5 novembre, un compromesso su tagli delle emissioni tra il 66,25 e il 72,5% entro il 2035 rispetto ai livelli del 1990, il che rappresenta una buona notizia sul piano della comunicazione politica, ma non costituisce ancora un vero cambio di paradigma o di mezzo di trasporto. È, per usare la metafora di partenza, un’ottimizzazione del sistema basato sui cavalli.

Sempre il solito errore nell’approccio dell’innovazione: trovare nuove risposte alle stesse domande, ovvero abbracciare l’ottimizzazione e l’efficientamento, invece di porsi nuove domande con nuove risposte.

A ridosso dell’apertura di COP30, solo un terzo dei 162 Paesi che hanno confermato la presenza alla conferenza – su 175 firmatari dell’Accordo di Parigi – aveva aggiornato i propri Contributi Determinati a Livello Nazionale (Nationally Determined Contributions, o NDC), rivelando un deficit strutturale non solo di volontà politica, ma di accountability sistemica. La scadenza originaria era febbraio 2025, poi prorogata a settembre, eppure il 95% dei governi non ha rispettato nemmeno la deadline estesa. L’apertura dei lavori è avvenuta tra grandi attese e assenze pesanti, che confermano quanto la diplomazia climatica resti fragile e vulnerabile alle oscillazioni geopolitiche: gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump non hanno inviato alcuna delegazione ufficiale dopo il ritiro dall’Accordo di Parigi, mentre Cina e Argentina hanno disertato il summit dei leader.

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC) ha messo a terra un’agenda ambiziosa, e il Brasile sta puntando su un pacchetto di finanza per l’adattamento che dovrebbe scalare tra dieci e dodici volte rispetto ai flussi attuali attraverso la cosiddetta Roadmap da Baku a Belém, che prevede di raggiungere almeno 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 – il che sarebbe un passo avanti. Ma senza un “fossil phase-out” esplicito e calendarizzato rischiamo di trovarci a gestire un letame 2.0: spostiamo il mucchio da un quartiere all’altro della città o assumiamo più persone per liberare le strade, ma non risolviamo il problema alla fonte.

La speranza è che l’innovazione, ancora una volta, ci possa presentare una soluzione efficace.

Staticità a Ovest, transizione duale a Est

La lettura manageriale che emerge da questa situazione è cristallina: proprio come accadde a New York nel 1898, il rischio maggiore è restare prigionieri delle categorie concettuali esistenti. Potremmo anche dire che, quando c’è un problema globale o pervasivo, l’umanità organizza un convegno per discuterne senza poi mettersi tutti d’accordo.

Se COP30 produrrà soltanto aggiustamenti incrementali quali più finanza climatica, qualche biocarburante aggiuntivo e propositi di contributi nazionali appena ritoccati al margine, non avremo cambiato il mezzo di trasporto, avremo solo ridipinto la carrozza. Il contesto geopolitico offre alcuni segnali incoraggianti, ma anche elementi di forte preoccupazione. Il network America is All In (coalizione espansa che riunisce diversi stakeholder del settore privato e pubblico, e organizzazioni non profit a livello subnazionale) sta provando a colmare il vuoto lasciato dal disimpegno federale statunitense. La coalizione rappresenta il 60% dell’economia statunitense e il 55% della popolazione. Gli Stati membri della U.S. Climate Alliance, coalizione bipartisan di 24 governatori, hanno ridotto le emissioni nette di gas serra del 24% rispetto ai livelli del 2005, dimostrando che l’azione climatica procede anche in assenza di leadership federale.

L’Unione europea continua ad alzare l’asticella seppur attraverso compromessi inevitabili che hanno intaccato l’integrità ambientale dell’obiettivo: per raggiungere la riduzione formale del 90% entro il 2040, gli europei potranno acquistare fino al 5% delle loro emissioni da crediti di carbonio internazionali, con la possibilità di un ulteriore 5% in una futura revisione della legge sul clima, riducendo di fatto all’85% i tagli effettivi richiesti alle industrie europee.

La presidenza brasiliana gioca in casa, e strategicamente persegue la carta della finanza climatica legata alla protezione delle foreste attraverso il Tropical Forest Forever Facility (TFFF): un fondo di investimento blended da 125 miliardi di dollari che mira a finalizzare investimenti da finanziatori sovrani entro COP30 per iniziare i pagamenti a ricompensa della conservazione forestale nei Paesi tropicali a partire dal 2026.

Cina e India rappresentano il paradosso più emblematico della transizione climatica: economie in piena accelerazione industriale e per dimensioni e per traiettoria demografica non possono replicare il percorso di decarbonizzazione europeo degli altri “blocchi economici”. La Cina, pur restando il maggiore emettitore mondiale, sta guidando la più rapida trasformazione energetica della storia: nel 2024 ha installato oltre 350 gigawatt di nuova capacità rinnovabile, più di tutto il resto del mondo combinato, e produce ormai oltre l’80% dei pannelli fotovoltaici globali, ma continua a costruire centrali a carbone per garantire sicurezza energetica interna. L’India segue una traiettoria simile: il premier Narendra Modi ha rilanciato il piano Panchamrit per quintuplicare la capacità rinnovabile entro il 2030, ma la dipendenza dal carbone resta sopra il 70% del mix elettrico.

Entrambe le nazioni incarnano una nuova forma di “transizione duale”: espandono le energie pulite senza dismettere le fonti fossili, costruendo una crescita verde senza rinuncia, e dando vita a un modello unico su scala globale.

Che cosa manca alla transizione climatica: agire sul clima compromette il lavoro?

Il momentum politico esiste, ma va convertito con urgenza in decisioni irreversibili che cambino le regole del gioco per tutti gli attori.

Una transizione non può essere attuata solo con regole, governance e finanza. Occorre un cambio di paradigma e una evoluzione dell’impegno delle persone e delle competenze necessarie. La transizione climatica rappresenta al contempo la più grande sfida occupazionale e la più grande opportunità di creazione di posti di lavoro del nostro tempo. L’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili stima che il settore delle rinnovabili abbia aggiunto 582 gigawatt di capacità nel 2024, ma per raggiungere l’obiettivo 2030 serviranno ulteriori 1.122 gigawatt all’anno, il che significa investimenti annuali di almeno 1.400 miliardi di dollari tra il 2025 e il 2030, più del doppio dei 624 miliardi investiti nel 2024.

Questi investimenti si traducono in milioni di posti di lavoro altamente qualificati nella costruzione di bioraffinerie, impianti di produzione di idrogeno da elettrolisi, installazione di pannelli solari e turbine eoliche, gestione di reti elettriche intelligenti e sviluppo di sistemi di storage energetico. La transizione comporta sfide strutturali per milioni di lavoratori nei settori dei combustibili fossili, nell’automotive tradizionale e nelle industrie ad alta intensità carbonica. La riqualificazione professionale diventa quindi non un optional, ma una necessità strategica.

I programmi di riconversione devono concentrarsi su competenze trasversali nell’ambito del digitale, della gestione energetica, dell’economia circolare, dell’analisi dei dati ambientali e delle tecnologie di decarbonizzazione. Le università e i centri di formazione professionale devono riprogettare i curriculum per preparare la prossima generazione di ingegneri energetici, architetti sostenibili, esperti di materiali circolari e gestori di catene di approvvigionamento carbon-neutral.

Il settore privato deve investire in modo massiccio sulla forza lavoro esistente, creando percorsi di carriera chiari dalle competenze legacy alle competenze future. I sindacati devono evolvere in negoziatori attivi della transizione, garantendo che i lavoratori non vengano lasciati indietro, ma accompagnati verso nuove opportunità con dignità economica preservata. Per i leader d’impresa e gli investitori internazionali il messaggio è chiaro: il futuro non sarà disegnato solo da chi riduce le emissioni, ma da chi riorganizza le catene di valore globali attorno a nuovi paradigmi industriali, energetici e tecnologici con strategie di medio-lungo periodo.

Le implicazioni operative a breve sono immediate e non delegabili. Sul piano strategico occorre fissare target interni di phase-out dei combustibili fossili che coprano l’intera catena del valore attraverso tutti gli scope di emissione (scope 1 per emissioni dirette, scope 2 per energia acquistata, scope 3 per catena di fornitura), investendo in infrastrutture low-carbon che cambino strutturalmente il mezzo di creazione del valore, e non si limitino a ottimizzare processi esistenti: elettrificazione profonda dei processi produttivi, efficienza radicale attraverso tecnologie industriali di ultima generazione, materiali circolari e riprogettazione dei prodotti secondo principi di design for disassembly (progettare pensando non solo a come un oggetto nasce, ma a come potrà rinascere).

La riallocazione del capitale deve seguire logiche di valore attuale netto aggiustato per il carbonio (carbon-adjusted Net Present Value, NPV), dove ogni progetto di investimento viene valutato non solo sui flussi di cassa attualizzati, ma anche sull’intensità carbonica e sui rischi legati alla regolamentazione climatica futura. I portafogli di ricerca e sviluppo devono essere orientati ad abbandonare le tecnologie fossili, piuttosto che a compensarle o mascherarle attraverso soluzioni di cattura e stoccaggio che continuano a perpetuare la dipendenza dalla materia prima. Lungo tutta la catena di approvvigionamento servono contratti carbon-aligned con i fornitori, clausole di riduzione progressiva delle emissioni nei contratti pluriennali e audit rigorosi del ciclo di vita su qualsiasi alternativa tecnologica, biocarburanti compresi, senza eccezioni o deroghe di comodo.

I sistemi di reporting e gli incentivi manageriali devono essere legati a metriche concrete di de-fossilizzazione misurate in grammi di CO2 equivalente per euro di valore effettivamente creato, non a riduzioni percentuali relative che possono essere facilmente manipolate attraverso scelte opportunistiche. Sul piano dell’advocacy istituzionale, le imprese lungimiranti devono sostenere attivamente regole chiare e vincolanti sul phase-out e sulla finanza climatica, comprendendo che il vantaggio competitivo sostenibile nasce esattamente quando la regola del gioco cambia per tutti, e non esistono più scorciatoie o esenzioni possibili.

Se non cambia il paradigma, non cambia l’energia

La morale di questa storia, in perfetto stile 1898, è tanto semplice quanto scomoda da accettare: la conferenza di New York non trovò mai la pala giusta perché il problema non era nella pala, ma nel fatto che serviva un veicolo completamente diverso.

A Belém, COP30 sarà considerata un successo storico solo se i governi, le imprese e il sistema finanziario globale accetteranno la stessa verità scomoda: non serve ottimizzare lo sterco dei combustibili fossili attraverso tecnologie meno dannose o compensazioni dubbie; serve uscire dai combustibili fossili ridisegnando l’intero sistema di produzione, distribuzione e consumo dell’energia. Tutto il resto, per quanto politicamente presentabile o mediaticamente vendibile, rimane gestione sofisticata del problema e non sua soluzione definitiva.

Dalle storie di innovazione del passato che possiamo analizzare per fare archeologia del futuro possiamo definire tre lezioni per i leader d’impresa:

  1. i problemi sistemici non si risolvono con l’efficienza ma con il cambio di logica;
  2. le transizioni si vincono investendo prima che la regola cambi;
  3. il capitale umano deve evolvere insieme alla tecnologia, non contro di essa.

Le domande che ogni amministratore delegato, ogni direttore finanziario e ogni responsabile delle risorse umane dovrebbe porsi guardando ai prossimi cicli di investimento e ai piani di trasformazione della forza lavoro sono semplici: stiamo comprando pale migliori per spostare meglio il letame, o stiamo investendo nel motore che renderà obsoleto il problema? Stiamo riqualificando i nostri cocchieri per pulire meglio le strade, o li stiamo formando per guidare automobili?

La storia dell’innovazione ci insegna che i primi ad abbracciare il cambio di paradigma non solo sopravvivono alla transizione, ma la dominano, costruendo il vantaggio competitivo del secolo successivo. Gli ultimi restano con magazzini pieni di frustini, finimenti e pale sempre più perfezionate per un mondo che non esiste più.

 

 

 

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Photo credits: reteclima.it

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