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Fake management
Sfoggiano l’uso della tecnologia più smart, guidano una smart, scelgono un look smart. Gli uomini eliminano la cravatta dal guardaroba cosicché due iniziali possano intravedersi su una camicia bianca e su misura. Quando sono donne – un fenomeno raro visibile nei dipartimenti comunicazione e risorse umane – preferiscono uno stile etnico non troppo appariscente. Condividono […]
Sfoggiano l’uso della tecnologia più smart, guidano una smart, scelgono un look smart.
Gli uomini eliminano la cravatta dal guardaroba cosicché due iniziali possano intravedersi su una camicia bianca e su misura. Quando sono donne – un fenomeno raro visibile nei dipartimenti comunicazione e risorse umane – preferiscono uno stile etnico non troppo appariscente. Condividono con regolarità un articolo di una rivista americana smart sui social. Il loro viaggio più recente? Nella Silicon Valley. Su ogni questione, sanno cosa ha fatto Google, cosa ha fatto Facebook, cosa ha fatto Apple. Ma non l’hanno letto sui giornali. Lo hanno scoperto visitando la Silicon Valley ad agosto con i bambini.
Come riconoscere i fake manager?
La loro maniacale attenzione verso lo smart management si accompagna ad uno stile gestionale proprio del manager anni Cinquanta, ingentilito da una visione sulla realtà aziendale degna di un MBA. Nelle riunioni citano le loro case-histories, ovvero quello che l’azienda dove lavoravano prima sapeva fare in modo eccellente e qui invece “non riusciamo purtroppo a implementare“. Nelle prime settimane d’ingaggio presso la nuova azienda, i loro attuali collaboratori si chiedono infatti per quali ragioni questi manager abbiano abbandonato l’azienda precedente, l’Eden che tanto vanno celebrando.
I fake manager, fenomeno nazionale e globale, durante i meeting e nella quotidianità non amano parlare di aspetti rilevanti. Anziché discutere di aspettative, obiettivi misurabili, priorità, si focalizzano sulle grande visioni oppure sui minimi errori intravisti in un report o nella delivery di un servizio. Per loro il management è “lo sguardo di dio sul mondo” (o, se preferite, la vista dall’alto di una business class di un A380) e, in chiave speculare opposta, il controllo delle dimensioni di un font su una slide: come se in mezzo tra la visione per il prossimo millennio e il controllo di un dettaglio insignificante non vi fosse null’altro.
Per i fake manager la ricerca del progetto smart o dell’azione smart ad effetto, di cui andare fieri, si traduce nella generazione a sorpresa di idee “fuori di testa” che mandano in confusione i team, cioè la gente che sta lavorando sui processi organizzativi. Spesso queste idee non sono connesse alla strategia aziendale. Le persone non capiscono che senso possano avere. Infatti in molti casi non hanno senso rispetto al business della specifica azienda e ai bisogni della clientela. L’azienda, che non li paga per delirare sul prossimo secolo né per controllare i font ma per gestire un dipartimento, finisce per disperare.
La strategia personale del fake manager
I fake manager semplicemente non sono in grado di tradurre la strategia aziendale in una serie di obiettivi ed operazioni che riguardano la loro funzione. In questo soprattutto la loro inutilità è massima. Essi sono connessi con tutto ciò che fa tendenza nel mondo manageriale, ma sono del tutto sconnessi dai bisogni reali dell’azienda per la quale lavorano. Alcuni collaboratori non rilevano traccia di questi manager sui loro schermi per mesi. Poi improvvisamente il manager compare, li chiama con il nome sbagliato e in preda ad un’emergenza chiede loro un intervento taumaturgico su una questione irrisolvibile: “conosco il tuo potenziale, sono sicuro che tu puoi farcela”.
Presi da questioni più smart, i fake manager scaricano i lavori ordinari sui co-worker (preferiscono chiamarli così) senza provvedere ad una verifica periodica dello stato dell’arte. La solitudine dei collaboratori è interrotta solo da improvvisi interventi di controllo quando il CEO ha bisogno di un report urgente per lunedì mattina alle 8.30. A quel punto i fake manager cominciano a riscrivere il report in ogni dettaglio, perché sia sexy al punto giusto.
Costruire action plan e workplan? Il fake manager riempie le lavagne alle sue spalle di schizzi, come gli è stato insegnato nel corso di un MBA. Ma quando, nello sviluppo di un piano di azione, le questioni si fanno serie, scompare. Sporcarsi le mani, e la camicia bianca, è poco smart. Evita così di affrontare in modo analitico e strutturato la questione sino a quando il problema diventa una tragedia aziendale.
I fake manager non promuovono la condivisione tra colleghi perché tanto lo sharing è una questione digital. Quando un loro collaboratore va in pensione, spesso non si pongono la questione del passaggio di consegne. Solo un anno dopo si scoprirà che la persona uscita era l’unica detentrice di conoscenza su un controllo tecnico fondamentale per la qualità del prodotto. Del resto il pensionamento di un collega troppo analogico è una questione piuttosto triste, perché occuparsene?
Le valutazioni dei collaboratori
I collaboratori di questi manager, in preda a visionari incapaci di tradurre i deliri in un piano ma spesso capaci di inserirsi in un compito per controllare l’inutile, possono assumere comportamenti regressivi e infantili. Se il manager è così smart – pensano – vediamo come se la cava. La valutazione delle performance di questi collaboratori, per i fake manager è una pagellina di “fine anno” che compilano in ritardo solo perché le risorse umane hanno minacciato il licenziamento. Favoritismi, pregiudizi e mancanza di cura trasformano il processo di valutazione delle persone in una vera e propria roulette russa. Non avendo fissato obiettivi, aspettative e modelli di verifica, i nostri sorprendono i loro collaboratori con percezioni che non sono fondate su elementi oggettivi e concreti.
Il feedback
Del resto per il fake manager il feedback è un concetto astratto. Se chiedono un feedback ad altri, rischiano di ottenere un riscontro che va a minare la percezione ideale che i nostri hanno di se stessi. La rimozione dell’errore, nella scelta della camicia, dell’auto e del tablet, si traduce in una rimozione dell’errore in toto. Se l’errore c’è è di altri, soprattutto dei collaboratori, ai quali tuttavia non viene data l’opportunità di migliorare in itinere. Spesso, si sa, sono premiati i collaboratori che hanno fatto un fake work per il fake manager. Il fatto getta nello sconforto tutti coloro che hanno lavorato realmente sui processi tenendo in vita il dipartimento.
Fake coaching per fake manager
Disperati dalla scarsa performance manageriale del fake manager, che una smart parcheggiata nel garage aziendale non riesce più a mascherare, quelli delle risorse umane mettono alle costole del nostro un coach. All’allenatore aziendale viene assegnato l’obiettivo della trasformazione chimica di un anaffettivo autocentrato in un soggetto capace di vedere e capire le persone che ha davanti. Un tentativo disperato.
Un real manager è in grado di mettere a sistema i progetti della sua funzione con la strategia dell’organizzazione, quella attuale o quella emergente. I real manager evitano di chiedere lavori burocratici inutili e di mobilitare le persone intorno a progetti smart poco centrati sul bisogno organizzativo. Il loro obiettivo è fare in modo che le persone usino al meglio il loro tempo per generare valore reale. Per questo sanno motivare le loro squadre. Con e senza cravatta.
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