La diversity aziendale è ancora ferma al donna-madre

Ieri sono stato ospite di Marella Caramazza di Istud e Cristina Bombelli di Wise Growth per una tavola rotonda in occasione della presentazione di una survey condotta dalla stessa Wise Growth sullo “stato dell’arte e i trend futuri della Diversity & Inclusion in Italia”. È incredibile che, dopo così tanto tempo a parlarne e discuterne, […]

Ieri sono stato ospite di Marella Caramazza di Istud e Cristina Bombelli di Wise Growth per una tavola rotonda in occasione della presentazione di una survey condotta dalla stessa Wise Growth sullo “stato dell’arte e i trend futuri della Diversity & Inclusion in Italia”.
È incredibile che, dopo così tanto tempo a parlarne e discuterne, così tante iniziative, così tanti soldi investiti, la situazione rispetto alla diversità di genere sia quella che ci e’ stata presentata.
Il 67% delle aziende dichiara di considerare medio/bassa l’efficacia delle azioni intraprese sul tema della inclusione e della diversità, nonostante si sia provato negli anni ad inserire il tema all’interno di obiettivi per i manager secondo la regola: ” What get measured get done”.  Non sono di principio contrario a questa regola anzi, ma bisogna riconoscere che alle regole si ricorre quando la leadership fallisce e forse una riflessione più ampia sulle cause di questo modesto risultato sia da fare più sui modelli di leadership e manageriali che sulle specifiche iniziative.

Il dato in sè lascia l’amaro in bocca ma ci sono alcuni aspetti che mi hanno lasciato ancora più basito.

Smart-working: il torto più grande  per le donne.

La prima pratica dichiarata per ben il 76% delle aziende è lo “smart-working”.
Vale la pena dire che molte aziende confondono lo “swartworking” con il lavoro a distanza; lavorare a distanza non e’ uguale a renderlo flessibile cambiando il paradigma di output vs ore di lavoro e di fiducia vs controllo.
Considerare poi lo smartworking all’interno dei programmi di inclusione di genere è a dir poco allarmante, c’è voluta prima una guerra mondiale e la relativa carenza di uomini per portare le donne al lavoro (per poi richiuderle subito dopo in casa), è stata necessaria poi una rivoluzione culturale negli anni ’70 e un percorso lungo, lunghissimo (e i dati ci raccontano che è ancora ben lontano dall’esser completato) per inserire le donne a pieno titolo nel mondo del lavoro e ora si pensa che un’opzione corretta sia usare la tecnologia per riportare le donne in casa a far coniugare lavoro e famiglia e spostare la responsabilità del welfare dallo stato alle donne.

Diversity e maternità. Ancora la stessa storia.

Mi stupisce che molto spesso, quando le aziende trattano il tema di genere, traducano in modo imprescindibile e automatico il binomio donna=madre. Ci sono donne che scelgono liberamente di non esser madri e donne che non hanno potuto esserlo, non capisco perché non debba esistere una dimensione donna che prescinde dal ruolo di madre.
La discriminazione nella discriminazione.

La CSR porterebbe business, a farla bene.

Per il 53% delle aziende che hanno risposto alla survey, Inclusion & Diversity è considerata parte dei programmi di Corporate Social Responsibility. Questo è il dato che più dovrebbe farci riflettere su come le aziende considerino la diversità di genere non per quello che dovrebbe essere, ovvero un tema di business e di vantaggio competitivo, ma un tema di solidarietà. Ricordo che nel lontano 1998, nell’azienda in cui lavoravo, quando venne lanciato il primo programma di Gender Diversity, il messaggio per i manager era chiaro ed inequivocabile: “It’s not just the right things to do, it’s good for the business. Just do it“.
Certo, sono stati fatti passi in avanti  (e ci mancherebbe altro) ma il sospetto che ci troviamo di fronte ad una pericolosa regressione è forte, sospetto alimentato anche dal fatto che nelle sfide per i prossimi 5 anni le aziende indicano:
– al primo posto, valorizzare i giovani / ingaggiare i Senior / scambio inter-generazionale;
– al secondo posto, smart-working e genitorialità;
– solo al terzo posto, il gender gap.
Penso che le aziende debbano riflettere e interrogarsi a fondo sulle reali cause dell’inefficacia delle azioni intraprese in questi anni e non correre il rischio di archiviare un tema che può suonare antico ma che rimane purtroppo di straordinaria attualità, resistendo alla tentazione di re-indirizzare iniziative, impegno e denaro esclusivamente su questioni più attuali come la questione generazionale per cavalcare una nuova narrativa più spendibile sui giornali nel fare brand e comunicazione.
Come appare dagli obiettivi esterni dichiarati dalle aziende che al secondo posto dopo: “attrarre e trattenere un forza lavoro al plurale”, il 69% indica: “migliorare l’immagine pubblica”.
Fare cose con l’obiettivo di comunicare anziché farle per guidare il cambiamento costa meno ed e’ più facile.
Altro dato che la ricerca ci regala: il 60% delle aziende dichiara di non avere un budget dedicato per le iniziative dedicate alla diversità e all’inclusione.
Corriamo tutti un grande rischio, non voltiamoci dall’altra parte. Non siamo poi così diversi.
La ricerca sarà disponibile tra una settimana chiedendo il report al seguente indirizzo:   info@wise-growth.it

 

Photo by Edward Cisneros on Unsplash

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