Aristotele chi lo assume?

Negli ultimi mesi sto leggendo la Retorica, di Aristotele, che riesce sempre a entusiasmarmi quasi quanto la psicologia dei comportamenti. Ci sto impiegando un po’ di tempo, perché in realtà lo sto studiando. Rileggo più volte gli stessi passi, uso colori diversi per evidenziarne alcuni concetti, la chiara semplice attualità dei contenuti. Per me, che […]

Negli ultimi mesi sto leggendo la Retorica, di Aristotele, che riesce sempre a entusiasmarmi quasi quanto la psicologia dei comportamenti. Ci sto impiegando un po’ di tempo, perché in realtà lo sto studiando. Rileggo più volte gli stessi passi, uso colori diversi per evidenziarne alcuni concetti, la chiara semplice attualità dei contenuti. Per me, che ho una formazione umanistica non da banchi di scuola ma amatoriale, per vocazione, la filosofia, la sociologia e la psicologia sono sempre incontri esplosivi, di arricchimento umano, di ampliamento di visione, lubrificante dei ragionamenti, ossigenazione del pensiero.

Insomma, sono incontri che aprono la mente, sempre così concentrata nel trovare gli strumenti tecnologici per risolvere i problemi, e che da questi stessi strumenti viene distratta, tanto da non farle riconoscere in noi stessi e nella nostra capacità di astrazione ogni possibile soluzione. Vero è che cogliere le diverse sfumature dell’agire sociale in ambito professionale richiede un lavoro costante di analisi e di sintesi del contesto sociale e umano in cui ciascuno di noi, azienda o persona che sia, è inserito.

Uno strumento tecnologico è più semplice da usare, ma dà anche molte meno risposte, ed è naturale chiedersi perché sia necessario spendere tutte queste energie “alternative” in un’epoca dominata dalla tecnologia e dalle sue applicazioni più spinte. Il management nazionale se lo sta ancora chiedendo, e nonostante esistano esempi concreti fuori dall’Italia le nuove generazioni di manager formati nelle nostre scuole più prestigiose non ne hanno nessuna consapevolezza.

 

Il filosofo in azienda

Non si rendono conto (e forse nessuno lo insegna loro) che gli ambienti innovativi sono proprio quelli in cui c’è stata capacità di inserire, aggiungere, mescolare, amalgamare le competenze umanistiche con quelle prettamente tecniche all’interno della cultura aziendale.

Eppure oltre confine fioccano CEO provenienti da facoltà non scientifiche (Jack Ma, Alibaba, lingua inglese; Susan Wojcicki, YouTube, storia e letteratura; Brian Chesky, Airbnb, belle arti), e nel non lontano 1986 la Stanford University lanciò il programma Symbolic System (Sym Sys) con lo scopo di formare una nuova generazione di leader tecnologici, in grado di combinare grandi competenze tecniche a un approccio umanistico tradizionale (informatica, linguistica, filosofia e psicologia). Marissa Mayer, ex CEO di Yahoo, Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn, e Mike Krieger, co-fondatore di Instagram, sono solo alcuni degli alunni che hanno frequentato questo corso.

Nella Silicon Valley, Christian Voegtlin, professore associato di responsabilità sociale delle imprese presso la Audencia Business School in Francia, in un’intervista rilasciata al quotidiano Forbes, afferma come la figura del filosofo in azienda sia riconosciuta e gli sia pure stato dato un nome e il relativo acronimo: Chief philosophy officers (CPOs). Un ruolo di consulente, life coach e stratega il cui compito è quello di fare domande, apparentemente banali quanto fondamentali – che si auspicherebbe tutti gli imprenditori o amministratori delegati si facessero – del tipo “che cosa significa vivere bene in modo virtuoso?”, “come posso essere un buon capo?”, o “quale dovrebbe essere lo scopo della mia attività?”.

 

La filosofia aziendale in Italia

E le aziende italiane? Percepiscono queste sollecitazioni? Ne sono informate? Sanno che aziende mondiali stanno da tempo chiedendo aiuto a management con competenze umanistiche per stimolare il business, lo sviluppo tecnologico e aziendale? A quanto pare no, a parte qualche illuminato e coraggioso.

“Le persone sono al posto giusto? Stanno facendo la cosa per cui sono portate? Volevo capire le persone che avevo vicino e volevo che loro fossero più vicine a me”. Sono le domande che Giorgia Giacchetto, giovane ma lungimirante titolare della tipica media impresa italiana alla seconda generazione, si è posta quando ha preso le redini dell’azienda di famiglia qualche anno fa, e che hanno spinto la Veneto Vetro, 35 dipendenti nel settore della lavorazione del vetro per l’edilizia e l’interior design, a iniziare la collaborazione con uno psicologo. Collaborazione che ha portato a una prima fase di ascolto in cui si è cercato di comprendere meglio le persone e le loro attitudini e “tutto ciò che non andava in azienda e che nel tempo si era accumulato”.

Come lei stessa afferma, affinché questo nuovo corso cominciasse ad aiutare i processi produttivi e a mostrare risultati concreti è stato necessario che questo cambiamento avvenisse lentamente, “perché ci vuole tempo per abituarsi e cambiare abitudini. Anch’io ho dovuto molto lavorare su me stessa”.

I cambiamenti messi in atto sono oggi in fase di stabilizzazione e il lavoro svolto ha creato un tangibile beneficio non solo a livello organizzativo e gestionale, ma anche nella valutazione delle competenze, e il dialogo più aperto con e tra le persone ha portato a impiegarle nel modo più efficace e a migliorarne le relazioni. E per efficacia si intende sì maggiore efficienza, ma anche una maggiore consapevolezza e serenità rispetto al proprio impiego e le proprie mansioni in azienda.

 

Un umanesimo in ritardo

Non sono processi istantanei, ma nel vortice del mercato in accelerazione è necessario che qualcuno si fermi e pensi, ascolti, osservi con sensibilità umana per poter generare un cambiamento di direzione, un pensiero critico. Perché per quanto le competenze tecniche siano necessarie, non si può più prescindere da quelle umanistiche per le quali le persone non sono elementi astratti di un progetto o bersagli da colpire (vedi l’abusato e famigerato termine “target”), ma persone, vive e in evoluzione. Parti attive e protagoniste nei cambiamenti. Esseri umani, insomma.

La colpa del ritardo italiano dell’umanesimo in azienda è anche da attribuirsi in parte agli umanisti stessi, che hanno bisogno di aprirsi al confronto con la società contemporanea e con le potenzialità delle imprese: troppo spesso si sono volutamente autoesclusi dal mercato del lavoro in azienda ritenendo di non poter contribuire al successo delle imprese, mentre invece, oggi più che mai, c’è bisogno che l’approccio umanistico diventi una strategia attiva per comprendere il presente.

Basti pensare anche alla mole enorme di dati e informazioni oggi disponibili, a ogni livello: senza scomodare i big data, ogni azienda minimamente strutturata ha a disposizione un patrimonio informativo molto ampio, complesso e variegato. Ma i dati, da soli, non dicono nulla; c’è bisogno di uno sforzo interpretativo in grado di attribuire loro un senso compiuto, utile e coerente con la cultura aziendale, e proprio le competenze umanistiche costituiscono quell’elemento differenziale per collocare correttamente tutte le informazioni raccolte in uno scenario che rappresenti il presente e le possibili azioni future.

Detto ciò non vedo grandi differenze con il passato: in Italia l’umanista, tranne rari casi, resta un po’ alieno dal mondo aziendale, nonostante specialmente in passato abbia avuto una grande capacità di adattamento a ruoli anche molto lontani dalla sua formazione. Forse la vera differenza che si inizia a cogliere oggi sta nel riconoscere la cultura umanistica come competenza reale e non come ripiego.

 

Chi assume gli umanisti?

Ma questa sensibilità oggi stenta ancora a far parte delle politiche aziendali nostrane.

Quante sono o sarebbero le aziende disposte ad assumere oggi un umanista con il quale condividere la propria gestione e visione, al quale sottoporre le proprie strategie e far analizzare le previsioni dei loro progetti? Quante riconoscono la cultura classica come necessaria nell’era tecnologica che stiamo vivendo? E poi, nel caso, quante ne terrebbero conto? Purtroppo, ancora troppo poche.

Qualche chance in più la si potrebbe avere con un’integrazione di competenze tecniche, anche se temo che la doppia anima non verrebbe percepita come completa, come valore aggiunto, ma come poco definita, con un’identità non precisa.

Comunque anche in questo caso la differenza starebbe nelle persone. Chi si prenderebbe la responsabilità di assumere una persona per un ruolo non definito, non etichettato, non incasellabile così come siamo abituati a etichettare ogni cosa? Chi avrebbe la lungimiranza, la sensibilità per fare una scelta di questo tipo? L’imprenditore? Potrebbe decidere di “rischiare” tempo e risorse? Il responsabile delle risorse umane? Sarebbe in grado di giustificare la scelta ai suoi superiori? Beh, qui la congiuntura astrale dovrebbe essere davvero super favorevole per potersi verificare.

Dal mio personale punto di vista, una persona con cultura umanistica dovrebbe essere inserita per decreto nel CDA delle maggiori imprese nazionali. Perché mai come oggi è necessario rivoluzionare le strategie aziendali attraverso una maggiore apertura verso il prossimo. Mai come oggi occorre la mediazione di qualcuno che possa davvero ascoltare ed essere ascoltato da chi spesso non considera o dimentica il valore umano, il vero nuovo attore nel mercato globale.

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