L’abito non fa lo store manager

Le catene di abbigliamento per giovani hanno aperto la crisi (e la corsa allo sfruttamento) del ruolo di store manager, bistrattato dai superiori e in conflitto con i colleghi. Ne parliamo con Alessandro Martignetti di FISASCAT CISL e Chiara Ferrari di FILCAMS CGIL.

Lo store manager sembra destinato a diventare sempre più un titolo onorifico generico, e sempre meno il giusto riconoscimento di una precisa professionalità all’interno dei negozi. Quello che sindacati e lavoratori lamentano è che non basta certo un titolo a compensare il lavoro.

In effetti non è facile riassumere quali siano compiti e responsabilità di uno store manager nei negozi di abbigliamento. Si spazia dalla supervisione e gestione di vendite e personale di un negozio (orientandole agli obiettivi commerciali) sino all’organizzazione del magazzino o del marketing. Il tutto passando per il rapporto con i fornitori o la pianificazione di orari e ferie.

In aggiunta a queste mansioni principali, tuttavia, i compiti che gli spettano sono spesso ben più ampi, perché deve far fronte in prima persona alle normali problematiche della vita di un negozio. E così, ad esempio, di fronte alla mancanza di personale o nei periodi di maggiore afflusso quali le festività, lo store manager diventa anche un addetto alle vendite (tornando a fare quello che in molti casi è stato il suo primo lavoro). Una pluralità di impegni e responsabilità a cui tuttavia non sempre spetta il giusto inquadramento contrattuale e la giusta retribuzione.

Alessandro Martignetti, FISASCAT CISL: “Store manager al lavoro anche più di 12 ore al giorno”

“Dal punto di vista contrattuale queste figure sono generalmente inquadrate al secondo livello del CCNL del Commercio, con una retribuzione mensile lorda di poco più di 2.000 euro, per un totale di 1.500 euro netti. Anche nel caso di alcune grandi catene dell’abbigliamento, che fanno riferimento ai contratti della grande distribuzione, non c’è una grande differenza sul piano retributivo”, spiega Alessandro Martignetti, segretario FISASCAT CISL Emilia Centrale.

Al di là delle previsioni contrattuali nazionali, tuttavia, possono essere stabilite delle variazioni all’interno delle contrattazioni individuali, rispetto sia alle mansioni che fanno riferimento a questa figura che alla flessibilità oraria.

“Spesso si chiede a questi lavoratori una forte flessibilità, con un numero di ore che va ben oltre le previsioni contrattuali di un full time. Negli anni abbiamo seguito diverse situazioni di store manager che facevano più di 12 ore al giorno: da prima dell’apertura del negozio sino a dopo la chiusura”, racconta Martignetti. Con lo straordinario subentra infatti una delle variabili principali sul totale dello stipendio: “È difficile dare una cifra, anche perché in genere le aziende prospettano uno straordinario forfettizzato, soprattutto quando le ore sono molte”.

Un’altra via percorsa, soprattutto dalle catene più grandi, è quella di prevedere un recupero ore, oppure di riconoscere gratifiche, premi o ferie, mentre per le aziende meno strutturate la strada sembra ancora quella del normale riconoscimento dello straordinario prevista dal contratto nazionale.

Gli store manager spinti dalle aziende al conflitto con i colleghi

Oltre agli orari, tra le difficoltà principali che questa figura lavorativa incontra, rientrano anche mansioni non previste dal contratto: “Questi soggetti spesso vengono usati come jolly”, continua Martignetti, “o in mansioni addirittura al di sotto del loro livello di inquadramento, venendo utilizzati secondo il bisogno. Un altro problema che riscontriamo come sindacato rispetto a questa figura è anche la conflittualità con i colleghi: avere rapporti al di fuori delle righe è quasi un automatismo per quelli che operano all’interno delle grandi catene. Queste persone sono continuamente messe sotto pressione, soprattutto perché dalla direzione arrivano degli input in termini di produttività che a volte destabilizzano questi lavoratori, che a loro volta si trovano a chiedere oltre le possibilità dei loro sottoposti”.

Il sindacato evidenzia di raccogliere con frequenza lamentele da parte dei livelli più bassi verso queste figure, soprattutto rispetto a temi quali la gestione delle ferie o l’organizzazione del lavoro.

“È una delle problematiche che ci evidenziano gli stessi store manager: ricevono delle direttive da parte dell’azienda rispetto a come gestire il personale ai fini dei rendimenti del negozio, e ci chiedono quanto le debbano rispettare. Noi spieghiamo loro che comunque hanno delle regole contrattuali a cui devono attenersi, e non possono non concedere ferie o permessi a piacimento dell’azienda, in un’ottica di miglioramento della produttività. Loro magari a volte non lo sanno.”

Chiara Ferrari, FILCAMS CGIL: “Le catene di abbigliamento giovani responsabili della crisi degli store manager”

Secondo Chiara Ferrari, della segreteria regionale FILCAMS CGIL Emilia-Romagna, si è creata una stortura nel sistema per cui, nonostante lo store manager dovrebbe essere inquadrato come un primo livello (2.200 euro circa lordi al mese),ciò che accade è che invece questa figura venga assunta come un secondo livello, con una differenza base di 200 euro mensili nella retribuzione, a cui si aggiungono anche altre complessità.

“Sono soprattutto le catene di abbigliamento giovani (rivolte a un pubblico di giovani e giovanissimi) che con le loro scelte contrattuali hanno viziato questa situazione, creando una vera e propria crisi della figura dello store manager e del suo rapporto con la direzione aziendale. I grandi marchi hanno fatto sì che questa figura esistesse solo sulla carta, facendole perdere la sua identità. Non danno responsabilità imprenditoriale, non offrono allo store manager la possibilità di decidere nulla di quel negozio (l’esposizione della merce, gli sconti, le integrazioni di premi o stipendi), se non la gestione delle ore del personale, spingendoli a lavorare e a far lavorare oltre l’orario, ai fini della produttività del negozio.”

Le catene motivano la scelta di non dare l’inquadramento di primo livello soprattutto perché i loro negozi non sono articolati con più livelli di responsabilità. A causa dell’assenza nel negozio della figura di responsabili di reparto o di settore, che andrebbero inquadrati al secondo livello, non è giustificata la necessità di coordinamento da parte di uno store manager al livello superiore.

“Sono poche le catene che hanno una suddivisione in reparti. Tra queste ad esempio Zara, che prevede di conseguenza differenze salariali in base ai diversi fatturati dei reparti”, precisa Ferrari.  “Secondo le spiegazioni date da queste aziende, quando ci rivolgiamo loro per chiedere il giusto inquadramento contrattuale, lo store manager viene definito tale più per riconoscergli la credibilità negli ambienti di lavoro. Per le aziende, mancando i capireparto, e dato che le direttive organizzative principali vengono mandate dalla casa madre e le responsabilità sono assunte da altri, la responsabilità dello store manager è intermedia”.

I veri store manager sopravvivono nei marchi storici: le differenze

La situazione, per Ferrari, caratterizza determinate grandi catene di abbigliamento, mentre nei marchi storicamente presenti in Italia è più facile trovare il giusto inquadramento contrattuale del lavoratore. Una differenza dovuta anche all’età e all’esperienza dei lavoratori: “Nelle aziende storicamente presenti in Italia (e che si rivolgono a un pubblico più adulto, N.d.R.), c’è un’età media degli store manager di circa cinquant’anni, mentre nelle grandi catene per i giovani l’età media degli store manager è fra i trenta e i quaranta”.

Nel primo caso si tratta per Ferrari di persone più ancorate alla nascita di questa figura professionale, che rappresenta la responsabilità e la direzione aziendale nel punto vendita. Si tratta di store manager che hanno acquisito il loro ruolo in anni in cui il settore era in espansione, e i lavoratori erano più consapevoli dei loro diritti. “Le figure con maggiore esperienza, che lavorano in catene che storicamente applicano correttamente il CCNL, conoscono i loro diritti in orario di lavoro, hanno spesso superminimi o comunque contrattazioni di secondo livello che gestiscono la flessibilità oraria”.

Nel secondo caso invece questo non avviene. “Si gioca molto sul senso di appartenenza, di collegamento all’azienda. Si tratta di persone che sono entrate in azienda spesso come primo lavoro e lì sono cresciute; non conoscono altro. Oltre a uno stipendio basso di per sé, non c’è più un confine chiaro tra tempo privato e tempo di lavoro. Spesso queste persone usano il loro cellulare personale, e gestiscono WhatsApp e chat di negozio sempre su numeri personali. Si stanno perdendo le dinamiche corrette, e in generale in questo ambiente c’è stato un appiattimento delle competenze, a cui è corrisposto un appiattimento delle retribuzioni”.

Se da un lato quindi calano le responsabilità dirette in capo a questi soggetti, non sembrano però calare in proporzione lo stress, l’impegno orario e le possibili conflittualità legate alla gestione del personale. Il tutto all’interno di un inquadramento contrattuale che, in base alle osservazioni del sindacato e dei lavoratori, non sembra essere la giusta contropartita per lo sforzo richiesto.

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