Le cose si pagano prima

Questa mattina, prima di entrare in ufficio, mi sono seduto a fumare una sigaretta davanti ad un negozio che non avevo mai visto. Non sto parlando di un problema di attenzione, semplicemente tre giorni fa non c’era. Un mese fa in quello stesso luogo c’era un negozio completamente diverso. L’anno scorso uno diverso ancora. Poi ho alzato […]

Questa mattina, prima di entrare in ufficio, mi sono seduto a fumare una sigaretta davanti ad un negozio che non avevo mai visto. Non sto parlando di un problema di attenzione, semplicemente tre giorni fa non c’era.

Un mese fa in quello stesso luogo c’era un negozio completamente diverso. L’anno scorso uno diverso ancora.

Poi ho alzato lo sguardo e ho visto che c’era ancora la vecchia insegna, quella di un negozio di articoli sportivi, il negozio dove da piccolo mi fermavo a guardare le vetrine e a sognare la maglia numero otto di Bulgarelli quando il Bologna faceva tremare il mondo. Quel negozio di articoli sportivi per me era totalmente identificato con quel palazzo al punto da non riuscire a concepire un prima, e a trovarmi in difficoltà di fronte al dopo.

E c’è stato un tempo in cui il Bologna faceva tremare il mondo.

Tranquilli non voglio ammorbarvi con i rimpianti del bel tempo andato ma piuttosto parlare del disagio che produce il cambiamento, lo stabilissimo tormentone di ogni organizzazione.

La prima riflessione che vorrei condividere riguarda la percezione e la prospettiva del tempo.

La percezione, perché in realtà quel negozio è scomparso quando io ero adolescente. Quindi in fondo ho memoria di lui solo per qualche anno, però erano anni lunghi ed erano gli anni in cui davi il nome alle cose.

Così ho messo a fuoco che un anno di oggi dura molto meno di un anno di quando ero bambino. Non è solo che le cose cambiano più in fretta ma è che qualcuno mi ha accelerato l’orologio senza avvisarmi.

Poi mi viene in mente quello che dice Philip Zimbardo sul tempo: il fatto che noi abbiamo cinque prospettive temporali.

Le cinque prospettive temporali

Intanto oscilliamo tra passato negativo e passato positivo, il primo che ci giustifica “perchè con tutte le cose brutte che ci sono capitate” e il secondo che da un lato ci sostiene ma dall’altro ci avvolge in una cortina di rimpianto.

Poi ci sono i due presenti, quello fatalistico che è il regno dell’impotenza, “tanto è già tutto scritto e noi non possiamo farci nulla, siamo soltanto in balia degli eventi”; oppure possiamo adottare la prospettiva del presente edonistico che almeno ci permette di goderci la vita magari esagerando un po’. E infine l’orientamento verso il futuro.

Quello che ci permette di posticipare il soddisfacimento di un piacere, come i bambini giudiziosi dei Marshmallow di Mischel, moderna favola della cicala e della formica, che ci rende consapevoli del fatto che le cose si pagano prima.

Però proprio l’esperimento di Mischel, già crudele, ci fa pienamente valutare quanto accade nelle realtà organizzative odierne nelle quali ognuno deve fronteggiare il cambiamento.

I bambini avevano ben chiaro che se avessero resistito un tempo più o meno definito avrebbero avuto due Marshmallow in cambio di uno.

Lo sforzo che veniva richiesto aveva almeno due caratteristiche che lo rendevano accettabile: la prima è che aveva un termine e la seconda è che avrebbe portato ad una ricompensa certa.

Si sopportano parecchie cose quando sono a termine. La vita ha sempre richiesto sforzi straordinari in momenti specifici.

Però poi era finita e ci si poteva godere la ricompensa o almeno si sarebbe tornati al ritmo precedente. Oggi invece lo sforzo che viene richiesto in modo straordinario è destinato a diventare lo standard del futuro, quello da cui si partirà per chiedere un ulteriore sforzo straordinario.

Inoltre c’era la certezza delle toffolette raddoppiate. Oggi nessuno può garantire il raddoppio delle toffolette ma il cambiamento e lo sforzo ad esso correlato vengono richiesti lo stesso.

Come ci si adegua

E in qualche misura le persone cercano di adeguarsi: naturalmente a seconda dei loro tratti strutturali e delle strategie apprese lo fanno in modi diversi.

Una prima strada è l’opposizione strenua. In realtà è qualcosa che possono permettersi solo coloro che vedono la fine del lavoro in un orizzonte relativamente prossimo. Il problema si pone per l’organizzazione quando i membri con questa impostazione sono un numero tale da fare massa critica e quindi possono davvero ostacolare processi di cambiamento in modo significativo. Comunque sono soggetti bellicosi che si sono ritagliati una identità di coriacei e hanno in questa motivo di orgoglio e talvolta di inconfessabile ammirazione da parte degli altri membri dell’organizzazione.

Il secondo modo è la mimetizzazione semestrale. Questa è possibile nelle organizzazioni particolarmente dinamiche.

Sei mesi è il tempo medio in cui un’organizzazione implementa un cambiamento, per cui alcune persone imparano che se riesci a mimetizzarti o comunque resistere passivamente per sei mesi, è fatta: entro sei mesi un nuovo cambiamento prenderà il posto del precedente. Questi soggetti si ritagliano quindi una zona al di là del tempo, come quella cosa che si vedeva nei fumetti per cui nell’occhio del ciclone non c’era vento, alcuni sono di una abilità diabolica nel confondersi con lo sfondo tanto che verrebbe da chiedersi se tale talento non potrebbe essere sfruttato diversamente.

Un terzo modo con cui affrontare il cambiamento è quello di aderirvi entusiasticamente anzi farsene promotore. Il sistema ha l’indubbio vantaggio di evitare rimuginii e rimpianti, inoltre chi appartiene a questa categoria spesso si mette in buona luce e diventa un alleato di chi il cambiamento lo ha proposto. Proprio qui a volte si cela il limite della strategia: qualora il cambiamento non produca gli esiti sperati, può accadere che a farne le spese siano proprio i paladini, ma chi aderisce a questa modalità sarà comunque pronto ad affiancarsi con rinnovate energie al nuovo cambiamento.

E infine l’adesione riluttante e rassegnata della maggioranza delle persone. Quelli che ogni giorno con il cambiamento ci fanno i conti, magari cercando di tarare le aspettative in modo da viaggiare leggeri e non soffrire troppo rispetto al piccolo sforzo in più, alla perdita di un piccolo privilegio o al nuovo modulo da compilare.

Insomma brave persone che ci provano, lamentandosi il giusto, cercando di trovare quello che Zimbardo chiama l’equilibrio temporale: appoggiandosi al passato, godendosi quello che offre il presente ma senza perdere di vista il futuro. Eroismo quotidiano che sarebbe più sopportabile se non fosse accompagnato dall’onta di essere chiamati resilienti, e potesse contare almeno sulla speranza, almeno quella dei ricorsi.

Insomma, che un giorno si possa ancora far tremare il mondo.

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