I giovani e le big four: lo sfruttamento all’ombra del privilegio

Da una parte salari sicuri, benefit e possibilità di carriera; dall’altra un turnover forsennato, incentivi al sacrificio e competizione spietata: il mondo delle società di consulenza si basa sull’assunzione e sul rapido ricambio delle giovani leve. Abbiamo raccolto le testimonianze di chi lavora in Deloitte, PwC, KPMG ed EY

Le big four, le multinazionali della consulenza, con i loro loghi

Questo articolo fa parte del reportage Gioventù Sfruttata, che verrà pubblicato nel corso delle prossime settimane su SenzaFiltro: realizzato da giovani giornaliste e giornalisti, fa il punto sullo sfruttamento dei professionisti che si affacciano in diversi settori del mondo del lavoro, dagli Ordini professionali alla gig economy, passando per i social media.

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di Aurora Petrini

 

 

Le big four della revisione contabile sono un terreno di possibilità sempre più appetibile per i giovani laureati. Si tratta di quattro multinazionali che si spartiscono il mercato mondiale e coprono tutti i continenti. Parliamo di EY (una volta conosciuta come Ernst & Young), Deloitte, KPMG e PricewaterhouseCoopers (PwC).

Il core business di queste reti di imprese – perché a livello legale non sono società, ma appunto reti di imprese con lo stesso marchio e strategia – è la revisione legale dei conti, ma si occupano anche di consulenza strategica, legale e fiscale attraverso associazioni professionali affiliate. Un ventaglio di servizi utili soprattutto alle grandi aziende, che vi ricorrono spesso per coprire ciò che non riescono a gestire internamente, e di solito sono prestazioni che hanno un costo elevato, con cifre a sei zeri. Per darvi un’idea, il fatturato di Deloitte – la più grande tra le quattro – nel 2023 ha superato i 60 miliardi di euro.

I loro servizi non vengono venduti solo a multinazionali e società di varie dimensioni, ma ormai anche ai governi. Non è passato molto tempo – parliamo dell’anno scorso – dallo scandalo che ha travolto PwC Australia, i cui partner hanno utilizzato informazioni governative riguardanti il fisco per favorire alcuni clienti. I dati erano stati ottenuti da un progetto di legge a cui stava collaborando un team di partner dell’azienda per il Tesoro, principale ente di consulenza per il governo australiano. Le indagini sono ancora aperte, ma per ora PwC è stata interdetta dal vendere servizi al governo e nove partner sono stati sospesi.

Care big four, siete sostenibili?

Le offerte di queste multinazionali nel mercato del lavoro sono quasi costanti e soddisfano la necessità di moltissimi giovani laureati in cerca di un’occupazione stabile e remunerativa, con la prospettiva di fare carriera in tempi brevi. I profili più richiesti sono quelli di ingegneri, laureati in economia e finanza, giurisprudenza e informatica.

Lo stipendio di un entry level – quindi uno stagista – si aggira intorno agli 800 euro al mese, ma gli scatti di carriera sembrano arrivare presto: a volte anche un indeterminato può essere proposto dopo un anno o due, elemento per nulla scontato per una generazione già rassegnata all’idea della precarietà lavorativa. In un Paese dove la percentuale dei NEET (coloro che non studiano, non lavorano e non cercano un’occupazione) è ancora tra le più alte d’Europa – parliamo di più del 16% nel 2023, secondo dati ISTAT – si tratta di un vero miraggio.

"L’azienda mette sempre a rischio il benessere dei dipendenti per raggiungere i suoi obiettivi; ci sono parecchie pressioni dettate dalle scadenze e dalle necessità del cliente. (...) Ti sembra di non staccare mai."
Marco (nome di fantasia), dipendente di EY

Quello che emerge da un’osservazione più attenta è che queste grandi multinazionali, che fanno frequenti riferimenti a concetti quali la sostenibilità ambientale, occupandosi spesso di transizioni ecologiche e supportando le aziende verso un’“economia green”, si dimenticano di preoccuparsi della cosiddettahuman sustainability”. L’espressione si riferisce all’attenzione che le organizzazioni dovrebbero porre sul personale, garantendone l’inclusione, il benessere e l’engagement, e dunque il coinvolgimento.

Di solito esistono progetti interni per occuparsi della human sustainability, volti a migliorare e mantenere il benessere dei dipendenti, ma sembra che siano più parole che fatti, visto che il problema persiste a causa della competizione che spinge molti a sforare i limiti del contratto, in una spasmodica scalata delle gerarchie.

La retorica dell’azienda-famiglia e le sue crepe

La cultura aziendale delle big four punta a creare l’idea di una sorta di famiglia, a innestare un senso comunitario. Gli obiettivi da raggiungere vengono settati e ricordati a ogni occasione possibile, e la comunità-azienda li deve raggiungere nel miglior modo possibile, rispettando scadenze stringenti e richieste del cliente. Se l’obiettivo viene raggiunto l’azienda prospera, ma chi ci ha speso tempo ed energie, trascurando talvolta il proprio benessere psicofisico, sono i dipendenti, e non sono loro a guadagnare la fetta di compenso più grande. Nulla di nuovo, trattandosi delle dinamiche di multinazionali all’interno di un sistema capitalista, ma se non altro è curioso capire perché i giovani ne sono così attratti.

La giornata lavorativa media si è allungata nel corso degli anni e ormai supera di gran lunga gli orari stabiliti da contratto. Per coloro che lavorano a progetti, come nel caso della consulenza, vige il tacito accordo per cui superare l’orario d’ufficio è ormai consuetudine, con straordinari che non sempre vengono pagati. Le lotte operaie del Novecento per porre un freno a giornate lavorative infinite sembrano essere state gettate al vento, in virtù della promessa di una mobilità sociale che probabilmente non arriverà.

Con lo smart working la situazione rischia di aggravarsi, e il momento di staccare davvero sembra non arrivare mai, con mail che arrivano anche nel fine settimana, videochiamate a qualsiasi ora del giorno e pause pranzo “di lavoro”.

"Tra i miei colleghi c’è chi torna a casa e continua a lavorare anche fino all’una, le due: è un po’ questa la cultura che viene promossa in modo implicito. Chi lo fa sembra farne un vanto."
Francesca (nome di fantasia), dipendente di Deloitte

C’è, e ci sarà ancora per molto tempo, chi consacra tutto questo in nome delle opportunità di crescita, che darebbero a chi si sottopone a questi meccanismi uno status di privilegio relativo. Tuttavia, da un rapporto di BCG Brighthouse, dal titolo Employees and companies: bringing back the spark in employees engagement, è emerso che la mancanza di benessere sul posto di lavoro, di un buon equilibrio vita-lavoro, e di rapporti di qualità con colleghi e superiori, sono le principali tre motivazioni che spingono le persone alle dimissioni; i questionari sono stati condotti in cinque Paesi, tra cui l’Italia. Non è un caso se il turn over nelle big four è così accentuato, come vedremo in seguito.

Se gli obiettivi vengono prima del benessere: la parola ai dipendenti

Una certezza è che il problema risiede in una cultura del lavoro malsana, che esorta i neolaureati – e non solo – ad accettare un pacchetto di inconvenienti che sembrano ormai parte integrante delle offerte di lavoro.

Chi muove i primi passi nel mercato del lavoro manca degli strumenti necessari a comprendere fino a che punto è giusto scendere a compromessi, per cui sembra che i giovani laureati accettino con una certa rassegnazione la loro condizione di potenziale sfruttamento all’interno delle big four, perché vedono in quell’esperienza una serie di lati positivi, che in qualche modo controbilanciano quelli negativi.

La questione non è così semplice e non è facile tirarne le fila. Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni dipendenti di Deloitte e EY per cercare di capire meglio come funzionano le dinamiche di queste realtà aziendali.

L’azienda mette sempre a rischio il benessere dei dipendenti per raggiungere i suoi obiettivi; ci sono parecchie pressioni dettate dalle scadenze e dalle necessità del cliente. Si fanno tanti straordinari, soprattutto nei mesi che coincidono con le chiusure aziendali. In quel periodo si lavora molto anche nel fine settimana, e ti sembra di non staccare mai” ci ha raccontato Marco (nome di fantasia), dipendente di EY. “Ma siamo tutti coetanei, si è creato un bel clima tra di noi e alla fine siamo tutti sulla stessa barca”.

Tutti giovani e nella stessa condizione. Un’espressione ricorrente tra i ragazzi e le ragazze con cui abbiamo parlato, perché gli aspetti negativi possono essere ingombranti, ma il sentire comune è che si tratta di un’esperienza che si potranno vendere sul curriculum. E proprio su questo aspetto fanno leva le big four: “Il mio manager è sulla trentina, per cui in poco tempo si riesce a raggiungere delle posizioni di responsabilità che in un’azienda normale si farebbe più fatica a conquistare” prosegue Marco. “Per una persona ambiziosa è comunque una buona opportunità”.

Le grandi società di consulenza basate sul turnover

Le multinazionali della consulenza, tuttavia, sono caratterizzate da un turnover molto alto. Il recruiting parte già nelle università, dove i professori consigliano ai propri studenti di fare domanda in una delle big four. Le scelte di comunicazione di queste aziende puntano ad accattivare le giovani leve anche attraverso i social, con videopillole che raccontano alcuni aspetti della realtà aziendale in pochi minuti.

Il fatto è che queste enormi macchine aziendali possono sopravvivere solo con un ricambio costante. C’è chi viene licenziato perché non incasellabile in certe dinamiche o poco adatto alla posizione, c’è chi se ne va perché non regge i ritmi sfiancanti, ma la macchina non si arresta, perché ci sarà sempre qualcuno pronto a sostituirli: invece di rallentare i ritmi per venire in contro alle nuove necessità dei lavoratori – e tra le richieste spicca un migliore equilibrio con la loro vita privata – le grandi società di consulenza preferiscono allontanare i collaboratori se non accettano il compromesso.

“Non c’è modo di perseguire degli obiettivi ambiziosissimi e allo stesso tempo di tenere in conto i bisogni reali dei dipendenti” sottolinea bene Giorgia (nome di fantasia), dipendente di EY. Ci racconta della cultura aziendale, costellata da eventi di team building e formazione.

“Vieni spinto a partecipare al lavoro come se l’azienda fosse tua. È richiesta grande dedizione, ma lo stipendio alla fine rimane quello, non guadagni di più se l’azienda ottiene risultati migliori. Lo stampo è quello dell’azienda americana: c’è un momento alla fine dell’anno in cui si fa il punto sugli obiettivi raggiunti, sono sempre dei numeri molto positivi e vengono riportati come se fosse una propaganda. L’obiettivo che trapela è quello di diventare i migliori del settore, ma non siamo noi dipendenti a godere degli effetti di questa corsa all’oro.”

“Lavorare fino alle due di notte è visto come un merito”: la salute psicologica secondo le big four

Per quanto riguarda il benessere mentale, “EY supporta il benessere dei dipendenti con dei metodi essenzialmente economici” spiega Giorgia. “Fornisce molti benefit, tra cui il welfare, l’assicurazione sanitaria, sconti per andare a teatro, una serie di gadget”; ma sulla salute psicologica c’è molta meno attenzione, “anche se c’è la possibilità di servirsi di cinque sedute dallo psicologo dell’azienda, dopo le quali però ti indirizza a uno specialista esterno”.

La dipendente di EY conclude sostenendo che, nonostante ci siano diversi incontri sull’importanza di mantenere un equilibrio vita-lavoro, “alla fine sta al singolo ritagliarsi il suo tempo e rifiutarsi di rimanere a lavorare oltre l’orario previsto”.

Insomma, di salute mentale ormai si parla molto anche all’interno delle multinazionali. Purtroppo però questo non si riflette sempre in un reale mutamento delle dinamiche malsane dell’over achievement. Un dipendente di Deloitte, Stefano (nome di fantasia), invece sostiene: “Se hai problemi personali che influenzano il tuo lavoro negativamente, oltre allo psicologo è previsto il coaching. Puoi scegliere una figura più senior di te che diventa una sorta di mentore a cui puoi chiedere consiglio. Da questo punto di vista credo che la società non lasci solo il dipendente perché dispone di diverse risorse”.

Francesca (nome di fantasia), che lavora anche lei in Deloitte, riporta: “Non finisco mai alle 18, ultimamente stacco verso le 21. Tra i miei colleghi c’è chi torna a casa e continua a lavorare anche fino all’una, le due: è un po’ questa la cultura che viene promossa in modo implicito. Chi lo fa sembra farne un vanto, come se fosse un merito”. E prosegue raccontando: “se i tuoi superiori credono in te, e quindi vedono che hai del potenziale, puoi crescere velocemente. L’altro lato della medaglia è che per essere visto bene devi fare molti sacrifici, mostrando grande disponibilità, ma non tutti sono disposti ad accettarlo”.

Un modello malsano ammantato dal privilegio

Perché allora i giovani laureati accettano di lavorare in una delle big four?

Marco di EY afferma: “Lavorare con delle scadenze precise ti insegna a gestire lo stress e ad agire con un certo tipo di formalità. Ti permettono di crescere, e sono poi spendibili come merce di scambio in un futuro, perché hanno un valore nel mercato del lavoro”.

“Sono previsti corsi di formazione, c’è la possibilità di fare mobilità all’estero e puoi fare carriera in poco tempo” spiega Giorgia di EY. “Alla fine, anche se può essere un lavoro stressante, c’è tanta collaborazione tra di noi”.

Stefano di Deloitte spiega: “La vedo come un’esperienza utile come trampolino di lancio, ma non vorrei fare questo per tutta la vita. Ho sentito le lamentele di diverse persone nel corso degli anni, amici e colleghi, ma il team in cui capiti è decisivo nel decretare il tipo di esperienza che farai nell’azienda. Nel mio non ho mai sentito pressione nel dover lavorare oltre le 18, ma se questo dovesse cambiare nel tempo, probabilmente me ne andrei”.

Trattenere i talenti non sembra figurare tra le priorità delle big four. L’importante è il ricambio di personale, che si assicurano tramite una serie di benefici e pratiche di management che rendono l’accesso al loro mondo quasi un privilegio. Dentro il nuovo da torchiare, fuori il vecchio che non funziona come richiesto, e avanti chi è disposto al sacrificio e alla competizione, talvolta estremi. La logica di un tritacarne di lusso.

Sebbene possa sembrare che lavorare per una delle big four sia la chiave per un futuro brillante, è importante domandarsi se sia questo il modello di lavoro che vogliamo promuovere, per il presente e per il futuro.

 

 

 

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Photo credits: altreconomia.it

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