Il rischio di fare la cosa giusta per i motivi sbagliati

It’s not just the right thing to do, it’s good for the business. È la frase che ho sentito ripetere e che ho utilizzato per buona parte della mia carriera, frase che tornava utile in tutti quei momenti in cui alla comunità dei manager veniva chiesto di guidare iniziative di tipo valoriale, dall’Inclusion and Diversity […]

It’s not just the right thing to do, it’s good for the business. È la frase che ho sentito ripetere e che ho utilizzato per buona parte della mia carriera, frase che tornava utile in tutti quei momenti in cui alla comunità dei manager veniva chiesto di guidare iniziative di tipo valoriale, dall’Inclusion and Diversity alla responsabilità sociale alla solidarietà. Tematiche che oggi sono all’ordine del giorno, ma che per lungo tempo sono state viste e vissute come noiose pause nella vera attività: raggiungere gli obiettivi, fare business, generare profitti.

It’s not just the right thing to do, it’s good for the business, richiamava tutti al senso di responsabilità. Una frase buona ma soprattutto pragmatica. Il messaggio intrinseco era: se anche non appartiene alla tua dotazione valoriale e non hai la sensibilità necessaria per comprendere che sia giusto farlo, fallo comunque, perché in ultima istanza è funzionale al business e quindi in qualità di manager rientra appieno nelle tue responsabilità e nei tuoi doveri. Certo, esiste una grande differenza nel compiere un’azione perché devi o perché ci credi.

 

L’era del purpose

Oggi siamo entrati di diritto nell’era del purpose, un’era in cui dipendenti, azionisti, fornitori, clienti, l’ambiente e le comunità in cui le aziende operano devono essere trattati con rispetto e diventare parte integrante del valore generato da un’azienda, e a pieno titolo parte dell’agenda del CEO.

It’s not just the right thing to do, it’s good for the business forse oggi è meno potente. Forse questa frase è resa superflua dall’enorme mole di dati che lo testimoniano: i brand che prendono posizione vengono premiati sul mercato. I brand che si impegnano, che mettono lo scopo prima del profitto, vengono preferiti. Anzi, sono i consumatori che esigono che ciò avvenga: il 66% delle persone si aspettano che i brand siano sempre più etici, equi, solidali.

Un buon esempio è quello di Gillette, che da anni ha scelto di prendere posizione sulle tematiche sociali. Di recente l’azienda ha sorpreso tutti con una campagna contro la mascolinità tossica, chiedendo se il sessismo nei posti di lavoro e la violenza sulle donne possa considerarsi davvero “il meglio di un uomo”. Un messaggio più che condivisibile, ma che ha sollevato diverse polemiche: gli account social di Gillette sono stati presi di mira da tweet e post che chiedevano perché, dato l’impegno dell’azienda verso l’uguaglianza di genere, i suoi rasoi per donne, identici a quelli maschili ma rosa, costassero molto di più. Fast Company è andata oltre sollevando un dilemma morale: perché Procter&Gamble, proprietaria di Gillette, continua a essere tra i principali inserzionisti su Fox News, l’organizzazione giornalistica accusata ripetutamente di molestie sessuali e discriminazione?

Non si tratta chiaramente solo di Gillette o di altre aziende, che comunque hanno fatto molto negli ultimi anni anche in materia di progresso sociale; va detto che il problema è comune a tutte le aziende che oggi vediamo in testa per impegno. Il punto è che, come ha osservato di recente Jeff Beer, “nessuno vuole sapere come stai costruendo comunità se non paghi alcuna imposta sul reddito. Nessuno vuole sapere del tuo impegno per l’uguaglianza di genere se i tuoi dirigenti sono tutti maschi. E nessuno vuole sapere quanto ami il pianeta se la tua catena di approvvigionamento sta contribuendo alla sua scomparsa”.

 

Cambiare scopo aziendale per non ragionare più in trimestri, ma in anni

A fine anni Novanta, nell’azienda dove ho trascorso buona parte della mia carriera il tema dello scopo era centrale nello sviluppo della cultura aziendale. La nostra missione era esplicita, raccontata e chiara da sempre: attraverso la tecnologia che producevamo e portavamo sul mercato avremmo cambiato “il modo in cui le persone lavorano, vivono, giocano e imparano”. 

Quello che ho imparato in quegli anni è che quando un’idea è autentica e sentita trasforma il tuo quotidiano, e sposta il fine ultimo del tuo lavoro dall’essere protagonista di una mera transazione commerciale di un bene a essere protagonista di una profonda trasformazione sociale. Il purpose, lo scopo, la missione diventano un punto critico di successo per il business di un’azienda e di coinvolgimento dei propri collaboratori. Trovare uno scopo nel nostro lavoro ci aiuta a trovare significato in ciò che facciamo, in come lo facciamo e nel perché lo facciamo; ci permette di andare oltre il puro rapporto economico e di prestazione per l’azienda in cui lavoriamo, ci coinvolge non solo intellettualmente ma anche emozionalmente, e solo dall’unione di queste due componenti si migliorano le prestazioni e si genera gratificazione personale. Il rischio oggi è farne invece una tattica, e pensare si possa delegarlo al marketing solo per creare una nuova narrativa più aderente al nuovo contesto.

Se si cambia lo scopo della propria azienda e si enfatizza il concetto di creazione del valore a lungo termine bisogna anche cambiare ciò che si fa e il modo in cui lo si fa. Si deve dire alla propria classe manageriale, che per anni ha avuto come arco temporale più ampio il trimestre, che il valore ora si costruisce sul lungo periodo, e che al profitto, che fino a ieri rappresentava la missione e il principale criterio di valutazione, ora si affianca la sostenibilità sociale e ambientale, che fa parte dei loro obiettivi come e se non di più del profitto. Facile da dire, forse non così semplice da realizzare.

 

Se lo scopo non conta quanto il profitto, è solo storytelling

Lo scopo di un’azienda si raggiunge attraverso l’esercizio quotidiano dei valori. L’aderenza valoriale delle persone oggi diventa quindi fondamentale, anzi imprescindibile, nella scelta e nella crescita professionale dei propri collaboratori.

E a proposito di valori: non c’è azienda nella quale io vada che non abbia i propri valori appesi al muro. Cambia il font, cambiano i colori, i messaggi sono invece più o meno tutti uguali: “rispetto”, “persone al centro”, “teamwork”, “diversity” e via dicendo. Sono quasi certo che esista un’app per crearli in qualche minuto. Il problema è che molti di questi valori faticano a scendere dalle pareti per diventare comportamenti. La cultura di un’azienda non è quella raccontata nei power point e sui social, ma il comportamento quotidiano dei leader e dei manager che ne fanno parte. Se svolta deve essere allora che svolta sia, non con il re-branding e lo storytelling, ma con un profondo e radicale cambiamento del senso stesso di fare impresa.

Se il purpose di un’azienda assume rilevanza pari o superiore al profit, allora l’applicazione dei valori diventa rilevante come e più del fatturato dell’azienda, e ci si dovrà aspettare lo stesso rigore nei confronti di coloro che non performano adeguatamente in quest’area. Fine dunque dell’as long as you make the numbers…, quella sorta di lasciapassare che veniva concesso a tutti coloro ai quali alla fine, se portavano profitto, si perdonava la mancata aderenza culturale e la scarsa capacità di esercitare e interpretare i valori aziendali.

Se il purpose è così rilevante, se è la cosa giusta da fare, allora c’è bisogno che venga portato avanti anche nel modo giusto e per i giusti motivi. Altrimenti è solo storytelling, qualcosa di cui, francamente, nessuno sente il bisogno.

 

 

Photo by Smart on Unsplash

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