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Nata a Pordenone, classe 1988, si è laureata con lode in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Padova e ha conseguito un Dottorato in Pianificazione territoriale e Politiche Pubbliche presso l’Università IUAV di Venezia.
Durante gli studi e il lavoro di ricerca si è appassionata ai temi legati all’innovazione sociale, urbana e tecnologica, che ha sposato con l’amore per la scrittura che coltiva da sempre.
Da questa unione è nata una professione ibrida e in continua evoluzione, che la porta a lavorare sia come scrittrice freelance che come Communication Manager e Contents Creator per diverse realtà, fisiche e digitali.
È inoltre autrice di racconti di narrativa pubblicati in alcune raccolte.

Michela De Biasio

Nata a Pordenone, classe 1988, si è laureata con lode in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Padova e ha conseguito un Dottorato in Pianificazione territoriale e Politiche Pubbliche presso l’Università IUAV di Venezia. Durante gli studi e il lavoro di ricerca si è appassionata ai temi legati all’innovazione sociale, urbana e tecnologica, che ha sposato con l’amore per la scrittura che coltiva da sempre. Da questa unione è nata una professione ibrida e in continua evoluzione, che la porta a lavorare sia come scrittrice freelance che come Communication Manager e Contents Creator per diverse realtà, fisiche e digitali. È inoltre autrice di racconti di narrativa pubblicati in alcune raccolte.

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Il lavoro come lo vedono i giovani, e come gli altri non l'hanno visto mai: guardiamo in faccia la nuova generazione per chiedergli che cosa vuole fare da grande - e che cosa vuole fare ora.

Numero 113 - Sentirsi giovani


<p><strong>Quanto costa l’estate dei genitori?</strong> Siamo l’unico Paese in cui la scuola è chiusa per più di tre mesi all’anno consecutivi (quest’anno dal 6 giugno al 15 settembre), quindi ci siamo chiesti come si organizzano i genitori italiani di diverse Regioni e come cambiano i prezzi di centri estivi, campi estivi e centri sportivi. Le differenze di costi e di offerta sono evidenti da Nord a Sud, ma anche da città a provincia. Ma l’estate dei genitori è sempre cara.</p>



<p>Anzi facendo un paragone con l’estero possiamo dire che è <strong>molto cara</strong>, non soltanto perché è più lunga che in altri Paesi, ma anche perché negli altri Paesi i centri estivi costano meno in proporzione al reddito. Certo, presentando l’ISEE si ottengono dei rimborsi, ma non per tutti i centri: solo per quelli convenzionati con il Comune. Altro tasto dolente tutto italiano è il <strong>mese di</strong> <strong>agosto</strong>. Inutile dire che l’<strong>offerta</strong> di centri estivi è <strong>risicatissima</strong>. O hai i nonni a disposizione o sei costretto a prendere le solite ferie comandate delle due/tre settimane a cavallo di Ferragosto.</p>



<p>Le testimonianze raccolte partono da Genova e arrivano a Lecce.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/Quanto-costa-lestate-dei-ragazzi-1.png"><img width="768" height="1000" data-id="51630" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/Quanto-costa-lestate-dei-ragazzi-1.png" alt="Dati dei centri estivi da Genova a Lecce: costi e rimborsi." class="wp-image-51630" /></a></figure>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/Quanto-costa-lestate-dei-ragazzi-2.png"><img width="768" height="1000" data-id="51631" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/Quanto-costa-lestate-dei-ragazzi-2.png" alt="Dati dei centri estivi da Genova a Lecce: costi e rimborsi." class="wp-image-51631" /></a></figure>
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<h2 id="h-genova-centri-estivi-fino-a-250-euro-a-settimana-ma-con-rimborsi-per-isee-fino-a-50-000-euro">Genova, centri estivi fino a 250 euro a settimana, ma con rimborsi per ISEE fino a 50.000 euro</h2>



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<p>A parlare è <strong>Rina</strong>, pensionata e volontaria nel campo estivo di Monte Leco, sulle alture di <strong>Genova</strong>.</p>



<p>“A giugno nel nostro territorio si trovano facilmente <strong>centri estivi</strong> che tengono i bambini dalle 8.00 del mattino fino alle 17.00. Molti offrono il servizio mensa, altri ti fanno scegliere se portare il pranzo da casa. La media dei prezzi dove non ci sono attività particolari (si fanno passeggiate, lavoretti e giochi) è sui <strong>135 euro a settimana</strong> (da 120 a 150 euro), ma quelli che organizzano attività sportive o che hanno la piscina sono molto più cari, possono arrivare anche a <strong>250 euro a settimana</strong>. I centri che fanno tennis o calcio, ad esempio, hanno un prezzo che supera sempre i 200 euro a settimana. Molto più economici sono i centri parrocchiali, ho un nipote che ha frequentato quello del suo quartiere e pagava 40 euro a settimana con i pranzi compresi.”</p>



<p>“Invece il <strong>campo estivo</strong> (diverso dal centro estivo perché comprende il pernotto) in cui faccio la volontaria dura una settimana, da domenica a domenica, e costa <strong>195 euro</strong>. La tariffa comprende vitto e alloggio, i genitori consegnano i ragazzi la domenica e li vanno a riprendere la domenica successiva. È una soluzione molto comoda, perché somiglia molto a una vacanza, ma questi campi non ci sono per tutta l’estate, riusciamo a organizzarli solo nel mese di luglio, mentre ad agosto sul nostro territorio non si trova quasi nulla. L’altra mia nipote la tengo praticamente tutto il mese di agosto perché i suoi genitori lavorano. Per fortuna abbiamo il mare e anche se stiamo in città riusciamo a cavarcela”.</p>



<p><strong>A Genova il Comune prevede dei</strong> <strong>rimborsi sotto forma di voucher </strong>abbastanza sostanziosi per le famiglie residenti o domiciliate in Liguria. Per i bambini e i ragazzi da 6 a 17 anni l’importo del voucher arriva a 70 euro per ogni settimana di frequenza, e con <strong>un’ISEE non superiore a 50.000 euro</strong>, che è un importo piuttosto alto; questo significa che quasi tutte le famiglie che mandano i figli in un centro estivo convenzionato riescono ad avere accesso ai voucher.</p>



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<h2 id="h-bologna-posti-risicati-e-agosto-scoperto-servono-piu-strutture-e-prezzi-piu-accessibili">Bologna, posti risicati e agosto scoperto: “Servono più strutture e prezzi più accessibili”</h2>



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<p>A giugno <strong>Lucia</strong>, infermiera di <strong>Bologna</strong>, ha mandato suo figlio di sette anni all’Estate Ragazzi, il <strong>centro estivo organizzato dalla parrocchia</strong> del suo quartiere. Questi centri raccolgono molti bambini, quest’anno gli iscritti erano quasi 120 e il costo di tre settimane (dalle 8.00 alle 17.00) con i pasti compresi è stato di circa 190 euro (poco più di <strong>60 euro a settimana</strong>).</p>



<p>“Il prezzo è contenuto – spiega Lucia – perché <strong>i bambini vengono gestiti da</strong> <strong>volontari</strong> che hanno tra i 15 e i 18 anni, <strong>non ci sono educatori professionisti e non si pratica sport </strong>come invece succede in altri contesti. Purtroppo l’Estate Ragazzi copre solo tre settimane nel mese di giugno, e nel mese di luglio per mandarlo in un altro centro estivo ho pagato <strong>136 euro a settimana </strong>dalle 8.30 alle 16.30, quindi in totale 544 euro con i pasti compresi. Il costo aumenta di 25 euro a settimana (quindi 100 euro al mese) se si richiede l’orario prolungato dopo le 16.30. So che per quest’ultimo sono <strong>previsti dei rimborsi comunali</strong>, ma io non ho ancora presentato l’ISEE, quindi non so di preciso quanto mi verrà rimborsato.”</p>



<p>In realtà i rimborsi sono abbastanza sostanziosi, ma a differenza del caso di Genova è più difficile accedervi perché l’ISEE prevista per avere i rimborsi è molto più bassa. Tutti i nuclei familiari con <strong>ISEE fino a 28.000 euro</strong> e figli da 3 a 13 anni che frequenteranno i centri estivi convenzionati con il Comune di Bologna avranno uno sconto sulla retta di frequenza fino a 112 euro settimanali, per un massimo di 336 euro, per ogni figlio. Praticamente il Comune di Bologna rimborsa 3 settimane di centro estivo, ma le settimane di chiusura della scuola sono esattamente 14.</p>



<p>“E infatti – prosegue Lucia – <strong>il problema principale per me è agosto</strong>. Per le prime tre settimane sono in ferie, ma il 22 rientro al lavoro e non ho trovato nessun centro estivo per mio figlio se non a moltissimi km da casa. Quindi sono costretta a lasciare Francesco dai miei genitori in Puglia, del resto la scuola ricomincia il 15 settembre, non ho altre soluzioni. A settembre alcuni centri ripartono, ma <strong>per l’ultima settimana di agosto se non avessi i nonni sarei del tutto scoperta</strong>, oppure sarei costretta a prendere le ferie scaglionate rispetto a quelle di mio marito. <strong>Servono più strutture e prezzi più accessibili</strong>. Vero ci sono i rimborsi, ma non sono per tutti. Non tutti, per esempio, riescono a presentare l’ISEE nei tempi giusti. Inoltre il Comune dovrebbe aumentare l’offerta perché quest’anno c’è stata una vera e propria corsa alle iscrizioni: noi mamme avevamo l’ansia che non prendessero i bambini per questioni di posti disponibili e numeri chiusi”.</p>



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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/IMG_20220718_181346-scaled.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/IMG_20220718_181346-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-51628" /></a></figure></div>


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<h2 id="h-centri-estivi-in-romagna-da-rimini-alla-provincia-la-situazione-cambia">Centri estivi in Romagna, da Rimini alla provincia la situazione cambia</h2>



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<p>Parla<strong> Bruno</strong>, papà di<strong> Sant’Agata Feltria</strong>, paese di 2.000 abitanti sulle colline del Montefeltro, in provincia di<strong> Rimini</strong>.</p>



<p>“Mia figlia fa tutto il mese di luglio al centro estivo del nostro Paese, che è gestito da un’associazione. Il centro era aperto anche a giugno e continua fino alla prima settimana di agosto, ma io non ho iscritto la bambina perché in quel periodo sono in ferie. Il prezzo del centro è <strong>80 euro a settimana</strong> esclusi i pasti e l’ingresso in piscina (5 euro). Però facendo tutto il mese ho usufruito dell’offerta e ho speso 250 euro per 4 settimane (62 euro a settimana), e in piscina pago le entrate singole. L’orario è molto comodo perché posso portare la bambina alle 7.30 del mattino e andare a prenderla alle 18.00, quindi copre tutta la mia giornata lavorativa e non devo pagare nessun supplemento pre e post centro estivo. Volendo il centro prevede anche una soluzione part time, solo al mattino o solo al pomeriggio, e quindi copre diverse esigenze dei genitori del Paese. L’anno scorso il centro chiudeva a luglio e ad agosto c’era la possibilità di mandare i bambini in un agriturismo qui in zona. Ora la ragazza che lo gestisce ha avuto un figlio e non può ospitare i nostri bambini, ma le ragazze del centro estivo si sono organizzate per non lasciarci scoperti”.</p>



<p>Il centro estivo di Sant’Agata Feltria però <strong>non è convenzionato con il Comune</strong>, e quindi non si può chiedere il rimborso con l’ISEE. Però Bruno lavora in un’azienda del territorio e con il welfare aziendale ha la possibilità di avere il rimborso.</p>



<p>Passando dalla provincia alla <strong>città di Rimini</strong> la situazione cambia, e qui è possibile frequentare centri estivi anche ad agosto. Evidentemente in Romagna molti genitori in quel periodo lavorano e l’offerta si è adattata. La retta complessiva dei centri estivi comunali è pari a 452 euro per i mesi di luglio e agosto (quindi <strong>56 euro a settimana</strong>). La <strong>soglia ISEE</strong> è come quella di Bologna, <strong>28.000 euro</strong> per accedere ai contributi, 112 euro a settimana, con un contributo massimo di 336 euro a bambino.</p>



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<h2 id="h-puglia-i-centri-estivi-costano-e-durano-meno-la-rete-famigliare-e-piu-forte">Puglia, i centri estivi costano (e durano) meno: la rete famigliare è più forte</h2>



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<p><strong>Luigi</strong>, papà di Bologna, ha mandato suo figlio dai nonni in Puglia, precisamente a<strong> Trepuzzi</strong>, paese di 15.000 abitanti in provincia di<strong> Lecce</strong>.</p>



<p>“Samuele è <strong>dai nonni in Puglia</strong> da quando è finita la scuola e ha frequentato il centro estivo del nostro paese a Trepuzzi. <strong>Lì non c’è tanta offerta</strong> perché il contesto del Sud è molto diverso da quello bolognese. I centri estivi sono pochi, ma anche perché <strong>la richiesta è minore</strong>. Del resto al Sud c’è ancora una rete famigliare e parentale molto forte, e spesso i bambini riescono a stare a casa coi nonni o con la mamma. Il lavoro sta crescendo anche in Puglia, ma non ancora tutte le famiglie hanno sia il papà che la mamma che lavorano. Infatti, il centro estivo che ha frequentato Samuele non dura neanche tutto il giorno, ma è una sorta di <strong>part time</strong>: i bambini si possono portare dalle 8 alle 9 del mattino e si vanno a prendere alle 13.00 prima di pranzo. <strong>Il costo della settimana è di 35 euro</strong>”.</p>



<p>Un prezzo sicuramente più basso e più accessibile, che agevola i genitori. Tanto che Luigi non ha neanche pensato di chiedere se è convenzionato con il Comune e se è previsto un rimborso con l’ISEE. Comunque, nel Comune di Lecce l’entità del contributo è pari a un massimo di 50 euro a settimana, fino a un massimo di 4 settimane con soglia limite di 200 euro. Il <strong>valore dell’ISEE</strong> che permette di accedere al contributo è però decisamente più basso che in altre Regioni, perché è di <strong>15.000 euro</strong>. E anche qui ad agosto non c’è nulla. Luigi e sua moglie hanno le ferie in quel periodo, quindi torneranno a prendere Samuele, che poi farà le ultime due settimane prima dell’inizio della scuola al centro estivo della piscina di Borgo Panigale, a Bologna, al costo di 120 euro a settimana.</p>



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<h2 id="h-cosa-succede-all-estero-l-esperienza-del-belgio">Cosa succede all’estero? L’esperienza del Belgio</h2>



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<p>L’ultima testimonianza è di <strong>Sara</strong>, mamma di due figli a<strong> Bruxelles</strong>.</p>



<p>“In <strong>Belgio</strong> il sistema sta cambiando; dal 28 agosto i miei figli andranno <strong>a scuola per 8 settimane</strong> e poi faranno <strong>due settimane di pausa</strong>. Sarà così <strong>per tutto l’anno, per tutte le scuole</strong> dalla materna al liceo. <strong>I centri</strong> che accolgono i ragazzi in quel periodo <strong>qui si chiamano stage</strong>, e possono essere frequentati da bambini dai tre anni fino all’adolescenza. Sono gestiti da associazioni che possono essere convenzionate con il Comune o private. Il privato è più caro ma prevede anche attività più strutturate, come gite, escursioni, attività sportive, atelier di bricolage e anche stage a tema teatrale. Io per mia figlia, che ha quattro anni, ho scelto uno stage basico e ho speso <strong>70 euro a settimana</strong>. La tariffa non comprende il pranzo, ma è scaricabile nella dichiarazione dei redditi. Io ho scelto uno stage non troppo impegnativo economicamente, ma ci sono altri stage, dove appunto fanno attività più strutturate, che costano <strong>tra i 150 e i 200 euro</strong>”.</p>



<p>In valore assoluto il prezzo degli stage in Belgio sembra molto simile a quello dei centri estivi italiani, ma bisogna considerare che il reddito medio nel Paese è molto più alto del nostro (si pensi che un operaio guadagna in media 2.000 euro al mese) e che le settimane senza la scuola sono molte meno che in Italia (circa 10 settimane contro le 17 italiane, considerando l’estate, Natale e Pasqua).</p>



<p>In sostanza, cercando di spendere il meno possibile un genitore italiano in <strong>città</strong> deve calcolare un budget di almeno <strong>190 euro a giugno</strong> (se frequenta un centro parrocchiale), <strong>500 euro a luglio</strong> e <strong>250 euro per le due settimane di settembre</strong>. Se non si vogliono frequentare i centri parrocchiali il costo delle 3 settimane di giugno si aggira attorno ai <strong>350 euro</strong>.</p>



<p>In provincia e al Sud il costo è decisamente inferiore, ma in tutta Italia <strong>i rimborsi coprono soltanto 3 settimane</strong>, quando la scuola è chiusa per 14 settimane in estate. E il problema di tutti riguarda <strong>agosto</strong>, dove o si hanno i nonni, o si è in ferie, o si lasciano i bambini a casa da soli.</p>



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<p><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/ferie/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Ferie</a></strong>.</em></p>



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Centri estivi, da Nord a Sud differenze di oltre 100 euro a settimana. Agosto problema comune


<p>Oggi tutti stanno giocando in difesa. <strong>I giovani arretrano</strong>, si bloccano o fuggono perché temono il mondo del lavoro che appare loro come una giungla, e stanno perdendo gradualmente la speranza di poterla affrontare. <strong>Il mondo del lavoro si arrocca</strong> in verdetti taglienti verso i ragazzi per giustificarsi davanti all’<strong>incapacità di riconoscerli e coinvolgerli</strong>, mostrandosi sempre più chiuso nelle sue dinamiche interne: un ambiente pieno di criceti che corrono nelle rispettive ruote alla ricerca spasmodica di quello che gli serve, ma che faticano a trovarlo, perché i piani di comunicazione sono sfalsati rispetto alle esigenze del mondo attuale e non allineati alle caratteristiche dei giovani contemporanei. </p>



<p>Il mondo del lavoro è ancora oggi poco incline alle trasformazioni necessarie, e quando queste ci sono appaiono lente e faticano a produrre nuovi germogli. La società sta cambiando nelle sue fondamenta e all’interno di un sistema spesso indecifrabile ci sono i giovani, che rappresentano, per loro stessa natura la modernità, la contemporaneità e il nuovo. Una auspicabile osmosi fra questi due mondi sarebbe di fondamentale importanza per entrambi, per l’intera società. </p>



<p>Occorre innescare un <strong>dialogo costruttivo</strong>, non episodico, creando situazioni dove si riesca a <strong>progettare insieme</strong>, a produrre uno scambio di conoscenze e valori senza preclusioni, dove unirsi significa <strong>generare nuove competenze</strong> di grado più elevato, che si sposino in modo conveniente e adeguato con il presente. Un dialogo generativo. </p>



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<h2 id="h-il-nuovo-ruolo-della-scuola-nell-orientamento">Il nuovo ruolo della scuola nell&#8217;orientamento</h2>



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<p>I giovani d’oggi si trovano <strong>stretti fra scuola e mondo del lavoro</strong>. Con una scuola che forma competenze spesso solide, ma che non riesce a tenere il passo dei repentini mutamenti in atto nella società, e pertanto a svolgere quel ruolo di <strong>primo orientamento</strong> nel lavoro che le verrebbe richiesto. E con un mondo del lavoro che tira dritto per la sua strada senza interrogarsi sull’altra misteriosa giungla che è il mondo dei giovani, un ricco bacino di ricambio generazionale fatto di creatività, freschezza, energia, nuove potenzialità, nuove idee, nuovi valori. </p>



<p>Giovani, scuola e mondo del lavoro sono le tre componenti di un unico discorso da affrontare partendo dall’analisi precisa di esigenze, obiettivi e rispettivi ruoli. Un punto di vista organico che si espliciti in un <strong>progetto </strong>da una parte <strong>culturale</strong> (mentalità e consapevolezza) e dall’altra <strong>attrattivo</strong> (pratico e concreto). Serve conoscere chi sono i giovani contemporanei e metterli poi nelle condizioni di comprendere e accostarsi senza timore al lavoro. </p>



<p><strong>Ai giovani va chiesto di essere più consapevoli del proprio ruolo</strong>, allenandoli a prendersi la <strong>responsabilità </strong>di tutto ciò che dipende da loro e a svincolarsi dal delegare solo alla scuola, all’università, alle proprie famiglie o alle aziende le scelte per il proprio futuro. Non si può chiedere loro di essere solo contenitori di competenze da applicare, ma di essere più attivi nella progettazione della propria strada. Del resto a generare crescita nelle persone sono le domande che incuriosiscono, che stimolano alla ricerca, che spingono all’approfondimento, che accendono la luce della speranza verso qualcosa di fattibile da affrontare con coraggio, competenze e sperimentazione.</p>



<p>Il mio desiderio è veder nascere un <strong>percorso <em>human oriented</em></strong> che faccia crescere nei ragazzi la disponibilità a imparare, a formarsi e informarsi. Un processo evolutivo che accenda la luce della speranza verso qualcosa di fattibile, un cambio di passo che si realizzi spiegando, discutendo e coinvolgendoli con continuità. A molte aziende può sembrare una perdita di tempo spiegare ai giovani il mondo del lavoro; invece è l’unico modo per rendere le persone coscienti e motivate, e per accelerare gli inevitabili processi di rinnovamento. </p>



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<h2>Scuola e lavoro per formare l&#8217;uomo nuovo</h2>



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<p><strong>Il mondo del lavoro è sempre più variegato</strong>. Enti, istituzioni, aziende, parti sociali, imprese e professioni costituiscono un panorama complesso molto difficile da comprendere per chi, finiti gli studi, si trova ad affrontarlo per la prima volta. Un insieme di possibilità, ruoli e professioni di cui i nostri giovani nel concreto conoscono poco o nulla. Eppure, se penso all’<strong>innovazione digitale</strong> a cui le governance chiedono di adeguarsi, come può attuarla un’organizzazione senza dei giovani? Penso alla sostenibilità, altro tema prioritario nella scala dei valori delle nuove generazioni: come può essere immaginata senza ascoltare chi dovrà attuarla nel prossimo futuro? Come si fa a rendere i giovani coscienti, preparati, motivati e seriamente coinvolti? Quale può essere il vero acceleratore di un <strong>progresso sostenibile</strong>? </p>



<p>Il primo passo è che nel tavolo del <strong>mondo del lavoro </strong>ci sia un nuovo approccio culturale e attrattivo che agisca nella direzione di un dialogo proficuo con i giovani che hanno qualcosa di interessante da mettere a fattor comune. Giovani che esistono, e sono la maggioranza. Un progetto da attuare attraverso strategie di breve e lungo raggio, utili a conoscere a fondo le potenzialità e le risorse che il mondo giovanile può donare, per progettare il futuro con apertura, dialogo e metodo, per essere formati e informati su quelle figure e organizzazioni che sanno già muoversi con disinvoltura con i giovani, perché ne hanno studiato i comportamenti, le esigenze e ne conoscono le dinamiche singole e di gruppo. Perché uno dei compiti fondamentali del mondo del lavoro è anche di <strong>formare, oltre che di attrarre</strong>. </p>



<p>La <strong>scuola</strong>, oltre al dovere didattico-educativo di formare a <strong>competenze solide</strong>, può avere anche una nuova posizione dentro un <strong>rinnovato progetto di orientamento</strong> adeguato ai tempi. Il mondo del lavoro è parcellizzato in tanti indirizzi, e il giovane, quando riesce a posizionarsi bene, è perché in qualche modo è riuscito a <strong>formarsi al ruolo</strong>; ma questo avviene con tanta fatica, e soprattutto dopo l’ingresso effettivo nel mondo del lavoro. </p>



<p>La scuola e il mondo del lavoro hanno entrambi la responsabilità di <strong>formare anche l’uomo nuovo</strong>, l’uomo del futuro. Ma il sistema attuale aiuta il percorso? Quali sono e saranno i modelli di riferimento dei giovani? Nessuno lo ha ancora compreso bene. Immagino che il sistema richiederà un essere umano capace di lavorare in team relazionandosi allo stesso tempo con macchine, tecnologia, intelligenza artificiale e naturalmente altre persone. Un insieme di dinamiche relazionali e professionali che andranno necessariamente studiate e adeguate al nuovo che avanza. </p>



<p>Quale può essere il ruolo della scuola in questo nuovo scenario? Forse di fornire più <strong>cultura generale</strong>, di insegnare il pensiero critico, di formare al pensiero complesso, al senso civico, al senso dello Stato, al senso di comunità, e di porre più attenzione alla sostenibilità trasmettendo quei valori etici, morali e ambientali che possano poi andare di pari passo con gli <strong>aspetti tecnici</strong> e le <strong>competenze specifiche</strong> richieste nei nuovi scenari professionali. </p>



<p>In questo scenario in continua evoluzione serve un deciso cambio di passo con una scuola che formi a <strong>nuovi modelli di pensiero e d’azione</strong>, unisca i bisogni dei giovani e del mondo del lavoro in modo sostenibile, attraverso nuove sfide didattiche e formative che diano delle risposte concrete ai bisogni reciproci. L’inserimento del giovane deve avvenire con un <strong>percorso integrato</strong> tra tutte le componenti, un percorso unitario tra scuole superiori, università, ITS e mondo del lavoro.</p>



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<h2>Un lavoro con le persone al centro</h2>



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<p>E il mondo del lavoro, appunto? Dovrà impegnarsi di più per creare <strong>un legame forte con i ragazzi e la scuola</strong>, un rapporto da coltivare con <strong>continuità durante il ciclo degli studi </strong>per ridurre subito le distanze iniziando a formare, orientare e progettare insieme. La nostra è l’epoca del pensiero parcellizzato, degli slogan, del tutto e subito, dove il giovane è visto come una funzione in un sistema lavoro che si muove con degli schemi che per i ragazzi non funzionano più, dove la scuola è lasciata spesso troppo sola. </p>



<p>Serve anche riprogettare dei <strong>corpi intermedi di sussidiarietà</strong> e di interscambio, come lo erano oratori, società sportive, circoli, campetti e le comunità, fondamenta dello sviluppo sociale perché si basavano sull’esperienza diretta di relazione e scambio. Quei luoghi dove i giovani si formavano ad essere proattivi piuttosto che reattivi. </p>



<p><strong>La scuola è un corpo intermedio tradizionale</strong> che ha resistito all’avvento dirompente degli ambienti digitali, ed è in questa posizione che può riprendersi un ruolo nuovo, forte, significativo, decisivo. Una <strong>scuola/laboratorio</strong> di formazione interattiva, con occasioni di scambio con il mondo del lavoro che servano prima di tutto alla <strong>formazione della persona</strong>, e poi all’orientamento e alla formazione specifica. </p>



<p>Un percorso che deve proseguire anche <strong>dentro le aziende</strong>, chiamate oggi più che mai a ripensare il proprio impegno nell’inserimento dei ragazzi. Le organizzazioni devono pensarsi anche come ambienti intermedi di sussidiarietà dove avvenga in modo naturale il passaggio continuo e fluido di competenze, visioni, regole e motivazioni. </p>



<p>Il dialogo è sempre stato lo strumento più forte per lo sviluppo dell’essere umano. In questo momento dobbiamo metterci tutti in gioco per riaccendere la speranza negli occhi dei nostri giovani, mettendo le <strong>umane risorse al centro di tutti i discorsi</strong>. Perché comprendere anche i giovani all’interno del processo di progettazione significa guardare insieme l’orizzonte, unendo saggezza ed esperienza con freschezza ed entusiasmo. </p>



<p>Questa citazione di Bob Dylan dà tutto il senso di quello che possiamo fare insieme.</p>



<p class="has-text-align-center"><br>“Essere giovane<br>vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza,<br>anche quando il mare è cattivo<br>e il cielo si è stancato di essere azzurro”</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 116, &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-116/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Cavalli di battaglia</strong></a>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/112-reportage-sua-sanita-pnrr/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Sua Sanità PNRR</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



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Cosa si perdono i giovani, cosa si perde il lavoro

<p>Il mondo dell’impresa in Italia lamenta da anni il <strong>disallineamento </strong>tra quanto richiesto ai giovani in termini di conoscenze, abilità e competenze, e <strong>l’offerta effettiva</strong> dei profili a disposizione. Una condizione che si traduce nella presenza in Italia di <strong>dieci milioni di lavoratori </strong>“<strong>male assortiti</strong>”, ovvero sotto o sovraqualificati rispetto al lavoro svolto (dato Boston Consulting Group). </p>
<p>Il paradosso italiano è che, a fronte del permanere di <strong>alti tassi di disoccupazione giovanile</strong> (32,2%), resta <strong>alto anche il numero di posti vacanti nel mondo del lavoro</strong>. Come testimonia il rapporto Excelsior di dicembre 2021, la criticità di non trovare i profili ricercati interessa una media del 36% delle aziende, arrivando al 50% nella fascia Nord Est/Centro Italia. Ma quali sono le ragioni principali di questo divario, e quali le azioni da intraprendere per farvi fronte?</p>
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<h2 id="h-eugenio-gotti-troppi-percorsi-di-studio-scarso-orientamento-professionale-cosi-i-giovani-non-trovano-lavoro">Eugenio Gotti: “Troppi percorsi di studio, scarso orientamento professionale. Così i giovani non trovano lavoro”</h2>
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<p>Secondo <strong>Eugenio Gotti</strong>, esperto di formazione e politiche del lavoro e vicepresidente di PTSClas, il mondo dell’educazione sconta in primo luogo la <strong>mancanza generale di una programmazione basata sui fabbisogni lavorativi</strong>. Le stesse previsioni del Sistema informativo Excelsior di Infocamere sui profili richiesti dal sistema impresa, nel breve periodo e fino a cinque anni, non vengono utilizzate a questo scopo. Una condizione che si traduce nella presenza di tanti percorsi di studio senza grandi sbocchi occupazionali, a cui si contrappone la carenza di percorsi maggiormente richiesti. </p>
<p>“L’esempio lampante è quello dei <strong>medici e delle professioni sanitarie</strong>, esploso durante la pandemia, ma strutturalmente presente già da prima. È evidente già da quindici anni che l’offerta di percorsi di laurea e specializzazione è insufficiente anche solo a colmare il turnover del personale sanitario. Il controsenso è che così investiamo tantissimo nella formazione di questi giovani sino alla laurea, e poi loro per fare la<br />scuola di specializzazione devono andare all’estero, magari restando anche lì a lavorare, senza produrre valore in Italia.” </p>
<p>Un secondo problema è poi quello dello scarso approfondimento dell’<strong>orientamento professionale</strong>, oggi ancora limitato agli aspetti informativi e attitudinali, e meno focalizzato sul tema di possibilità e opportunità occupazionali concrete nei vari ambiti formativi. Gli strumenti offerti dai siti ministeriali si limitano infatti a illustrare i contenuti dei diversi percorsi di studi, una carenza che il PNRR si impegna a superare.</p>
<p>“Le mancanze dell’offerta di orientamento professionale che viene data ai ragazzi e alle loro famiglie vengono evidenziate da vent’anni. La <strong>Missione 4 del PNRR</strong> prevede<br />investimenti importanti in questo senso, sia per sviluppare una piattaforma a livello nazionale che per accompagnare concretamente i giovani nelle scelte dei percorsi da intraprendere. L’orientamento professionale non deve eliminare attitudini e desideri delle persone, ma solo renderle consapevoli che, ad esempio, un laureato in filosofia ha il 40% di possibilità di andare a fare il commesso, e che, viceversa, c’è un’alta richiesta di profili STEM, che invece mancano.”</p>
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<h2>Il controsenso di una scuola che ripudia la formazione</h2>
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<p>La distanza fra i percorsi di studio del sistema educativo di livello secondario e terziario e il sistema impresa, per Gotti, è una condizione che affonda le sue radici nella <strong>tradizione gentiliana della scuola italiana</strong>, restia a vedere la <strong>formazione </strong>in chiave professionalizzante, come un’infrastruttura portante del sistema Paese, in grado di generare le competenze necessarie al mondo del lavoro. </p>
<p>In parallelo poi anche <strong>il mondo dell’impresa in Italia non ha mai avuto un’attitudine a riconoscersi nel ruolo formativo</strong>, diversamente dalla tendenza di altri Paesi come la Germania, dove le aziende vedono nel loro coinvolgimento nella formazione uno strumento per conoscere i giovani e farli crescere in modo da rispondere alle loro concrete esigenze.</p>
<p>In Italia si sono fatti dei passi avanti in questa direzione, e l’atteggiamento verso la transizione fra scuola e lavoro è andato progressivamente modificandosi. Strumenti quali ad esempio l’<strong>Alternanza scuola-lavoro</strong> o l’<strong>Apprendistato duale</strong> mostrano una volontà di superamento dell’idea di separazione netta tra momento dello studio e momento dell’apprendimento attraverso il lavoro, che tuttavia necessita di essere ancora perfezionata.</p>
<p>“Dal punto di vista ideale, ad esempio, l’intuizione dell’Alternanza scuola-lavoro è corretta, soprattutto per gli indirizzi tecnico-professionali. Tuttavia, pensando alla riforma della <strong>Buona Scuola</strong> di Renzi del 2015, c’è stata probabilmente una volontà di attuare quella iniziativa in modo troppo rapido. Coinvolgendo una mole di scuole e studenti e convogliandoli verso il sistema impresa <strong>senza la progettazione e l’attenzione adeguate</strong> rispetto ai temi della qualità e della sicurezza, visti anche i tragici fatti dei giorni scorsi.”</p>
<p>Limiti che si riscontrano anche nei risultati dell’<strong>Apprendistato duale</strong>, attivo in Italia dal 2015, ma che c<strong>oinvolge oggi solo 6.000 studenti in tutto il Paese</strong>, a fronte ad esempio dei due milioni di studenti che in Germania ogni anno fanno l’apprendistato in azienda. “La vicinanza tra sistema impresa e sistema educativo deve essere strutturale, non episodica. Oggi invece viene ancora fatta secondo una logica esperienziale di singole iniziative”, precisa il vicepresidente di PTSClas. </p>
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<h2>Le competenze disallineate alla prova del terziario</h2>
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<p>La distanza fra esigenze del mercato del lavoro e sistema educativo in Italia è un limite che il Paese non si può permettere, soprattutto a livello di formazione terziaria. Secondo Gotti, “se nel secondo dopoguerra il boom economico è stato accompagnato dal lavoro dei diplomatici tecnici, <strong>oggi la sfida è sul livello terziario</strong>,<br />necessario per garantire un adeguato sviluppo economico per l’Italia. E invece solo il 28% dei giovani fino ai 35 anni ha un titolo di studio di livello terziario, a fronte del 40% della media europea, e del 70% della Corea del Sud”. </p>
<p>Rispetto poi a chi esce dai percorsi di studio secondari tecnico professionali, “solo il 30% dei diplomatici tecnici e l’11% dei diplomati professionali va all’università, perché non è un’offerta adeguata a loro. E quei pochi che ci vanno tendono a disperdersi di più durante il percorso rispetto ai diplomati liceali”, spiega Gotti. “Per questo è importante che <strong>il PNRR preveda di sviluppare il livello terziario professionalizzante</strong> degli <strong>ITS</strong>. Oggi, nonostante una percentuale di inserimento occupazionale che raggiunge quasi il 90%, sono solo 18.000 gli allievi degli ITS, a fronte di una popolazione universitaria di 1.600.000 persone. Sono poco più dell’1% degli studenti universitari, mentre in Francia e in Germania arrivano al 20%”. </p>
<p>In attesa di un cambio di passo decisivo, in Italia <strong>le imprese intanto “continuano a cercare profili già formati, con esperienza</strong>, e se questa non c’è si accontentano di profili diversi, con uno spreco conseguente rispetto alla loro formazione che verrà inutilizzata”, lamenta Gotti. </p>
<p>Le conseguenze portano non solo a un mismatch di competenze, ma anche contrattuale, poiché spesso in questi casi <strong>le imprese fanno offerte al di sotto delle aspettative</strong>: “La contraddizione è che le aziende riconoscono a parole il valore del capitale umano, ma l’approccio che adottano tende invece a essere mortificante all’inizio della carriera lavorativa di una persona, di diffidenza ad assumere a tempo indeterminato e a riconoscere i corretti livelli (ricorrendo a tirocini, contratti atipici, collaborazioni occasionali, false partite IVA). <strong>L’assunzione è un elemento vissuto come un investimento a lungo termine</strong>, anche per la bassa flessibilità in uscita del nostro mercato del lavoro”. </p>
<p>Una tendenza che tuttavia per Gotti sta iniziando (lentamente) a cambiare proprio nei casi dei <strong>profili medio-alti che non si trovano</strong>, per cui le aziende sembrano disposte a investire di più sia in termini formativi che di offerta contrattuale.</p>
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<h2>La Babele di scuola e lavoro</h2>
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<p>Aumentare l’impegno reciproco però non basta, per Gotti. Sistema impresa e sistema educativo, infatti, devono anche iniziare a parlare un <strong>linguaggio comune</strong>: “Basti pensare infatti che i Contratti Nazionali del Lavoro sono fatti per mansioni, mentre i percorsi formativi sono programmati sulla base dei profili di competenze. Negli Stati Uniti, ad esempio, c’è un repertorio delle competenze che si chiama <strong>O-Net</strong> che viene usato sia dal sistema educativo che dal sistema impresa e dal giudice del lavoro, che nelle varie cause deve decidere se i contratti sono adeguati al ruolo della persona. Si è lavorato molto in Italia per lo sviluppo dei <strong>Repertori delle competenze</strong>, che tuttavia sono prodotti in larga parte a tavolino, senza il contributo del sistema impresa, non sono conosciuti e usati. Il contratto metalmeccanico firmato l’anno scorso è importante proprio perché va in questa direzione: supera la logica delle mansioni e va nella logica dei profili di competenza e dei ruoli esercitati”. </p>
<p>Come testimoniano gli investimenti previsti nel PNRR, il<strong> ritardo del sistema di formazione scolastica e professionale</strong> nello sviluppo di nuove competenze, e nella rincorsa delle necessità del sistema impresa, viene oggi finalmente percepito come un problema urgente. Le buone prassi europee, come quella della Germania, possono essere un punto di riflessione da cui partire, tenendo conto però della necessità di un approccio graduale, che coinvolga in egual misura mondo della formazione e mondo dell’impresa. </p>
<p>La direzione finale sembra essere tracciata: <strong>ottenere profili lavorativi sempre più in linea alle richieste </strong>e alle necessità del sistema produttivo del Paese, coinvolgendo le parti in un percorso di sforzi comuni. I benefici per il mondo dell’impresa e per quello della formazione sono scontati, mentre resta ancora da capire se questo allineamento sarà una garanzia sufficiente per i giovani per ottenere il giusto compenso e inquadramento contrattuale al loro ingresso nel mondo del lavoro.</p>


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Dite alla scuola che il lavoro l&#8217;ha cercata

Disallineamento tra competenze e offerte di lavoro: troppi percorsi di studio e poco orientamento. Ne parliamo con l&#8217;esperto di formazione e politiche del lavoro Eugenio Gotti.

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Il PNRR li chiama "borghi", e spesso lo fa anche la politica. Noi no. Al di là dei luoghi da cartolina e delle trappole per turisti dove la vita locale si è estinta da tempo, facciamo una tara di falsa coscienza e buoni sentimenti riguardo i piccoli Comuni italiani.

Numero 111 - Non chiamateli borghi


<p>L’apertura al pubblico della <strong>Rocchetta Mattei</strong>, il 9 agosto 2015, ha rappresentato una svolta per la valorizzazione e la visibilità di <strong>Grizzana Morandi</strong> e di tutto l’Appennino Tosco-Emiliano. Con le sue circa mille visite settimanali, il castello voluto dal conte Cesare Mattei, padre dell’elettromeopatia, e il borgo medioevale <strong>La Scola</strong>, meta di 200-300 visite settimanali, sono i principali attrattori turistici che fanno da volano al progetto pilota selezionato dalla Regione Emilia-Romagna per il Piano Nazionale Borghi: <strong><em>Da Campolo l’arte fa Scola</em></strong>, dove il fulcro è rappresentato proprio da <strong>Campolo</strong>, frazione lontana dodici chilometri da Grizzana Morandi, Comune della provincia di Bologna esteso su circa 80 chilometri quadrati per quattromila abitanti.</p>



<p>Terra di scalpellini e centro turistico amato dai bolognesi negli anni Settanta, Campolo è una realtà sempre più a rischio spopolamento – meno di cinquanta gli attuali residenti rispetto ai duecento del passato – che soddisfa le condizioni descritte per l’accesso alle risorse della Linea A di intervento dell’Investimento 2.1&nbsp;“Attrattività dei Borghi” nell’ambito del PNRR.</p>



<p>Dietro la selezione di Campolo c’è un progetto organico di <strong>rigenerazione</strong> frutto del gioco di squadra delle amministrazioni, della passione del gruppo del lavoro e del coinvolgimento delle associazioni del territorio (Sculca e Ciancabilla, la pro loco di Campolo). La fase di redazione della scheda progettuale ha avuto tempi serratissimi e ha richiesto gli sforzi di risorse interne ed esterne agli enti locali, dalle progettiste Erica Pè, Elena Vincenzi e Giulia Brunini (Comune di Marzabotto) al personale del Comune di Grizzana Morandi (l’assessore Giulia Testoni, Stefania Fabbri, il servizio Assetto del territorio), fino al responsabile del Servizio turismo e cultura dell’Unione dei Comuni dell’Appennino bolognese Marco Tamarri.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Le-arpe-magiche.jpg"><img width="990" height="632" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Le-arpe-magiche.jpg" alt="" class="wp-image-49969" /></a><figcaption>Le arpe magiche dell&#8217;associazione Sculca</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-le-risorse-del-pnrr-per-riqualificare-l-appennino-tosco-emiliano">Le risorse del PNRR per riqualificare l’Appennino Tosco-Emiliano</h2>



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<p>L’obiettivo, come sottolinea il sindaco di Grizzana Morandi <strong>Franco Rubini</strong>, è ripopolare Campolo attraverso <strong>iniziative imprenditoriali e commerciali</strong> capaci di generare ricadute occupazionali sul territorio. L’altro aspetto fondamentale è far conoscere il patrimonio paesaggistico, artistico, storico e culturale di questa parte di Appennino Tosco-Emiliano, ricco di siti di interesse da scoprire, il Santuario della Beata Vergine di Montovolo ai Fienili del Campiaro, passando per la chiesa di Alvar Aalto a Riola.</p>



<p><strong>Potenziare il turismo slow</strong>, sostenibile (l’area è attraversata da cammini come la Via Mater Dei, sentieri CAI e itinerari ciclabili) e di prossimità, ma anche nazionale ed estero alimentato dalla Rocchetta Mattei, porterà benefici a tutto l’Appennino.</p>



<p>Parte dei fondi a disposizione saranno destinati al restauro di beni pubblici e privati, tra cui la <strong>Rocchetta Mattei</strong> (di proprietà della Fondazione Carisbo, gestita dal Comune di Grizzana Morandi), che completerà i lavori di restauro, e la <strong>residenza estiva del famoso pittore e incisore Giorgio Morandi</strong>, che aveva fatto di Grizzana un luogo d’ispirazione privilegiato e soggetto di alcuni dei suoi più celebri capolavori. La casa del famoso incisore, diventata museo dopo la donazione al Comune fatta dalla sorella, sarà messa in sicurezza (con il rifacimento del tetto) e dotata dei necessari impianti di allarme per accogliere l’esposizione di alcune sue opere nel prossimo futuro, in accordo con la Regione.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/SindacoLaScola-scaled.jpeg"><img width="1024" height="681" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/SindacoLaScola-1024x681.jpeg" alt="" class="wp-image-49973" /></a><figcaption>Franco Rubini, sindaco di Grizzana Morandi</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-la-scola-l-esempio-felice-di-un-paese-non-spopolato">La Scola: l’esempio felice di un paese non spopolato</h2>



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<p><strong>La Scola</strong> è uno dei paesi medievali meglio conservati dall’Appennino, conosciuto per le sue caratteristiche architettoniche e naturalistiche: qui si staglia un cipresso di settecento anni, uno degli alberi più antichi d’Italia, e il microclima favorevole fa crescere piante non autoctone. Con i fondi del PNRR diventerà ancora più bello e funzionale.</p>



<p>«Il Comune realizzerà un parcheggio e un’illuminazione ad hoc per le ore serali; i cavi di luce e telefono saranno razionalizzati o interrati per essere meno impattanti. Il sogno resta l’acquisizione di Palazzo Montanelli, artisticamente prezioso, ma che probabilmente resterà fuori dal progetto», spiega <strong>Silvia Rossi</strong>, presidente da quasi nove anni dell’Associazione culturale Sculca (www.borgoscola.net), nata nel 1993 per preservare e tutelare La Scola. L’Associazione (settanta iscritti, di cui circa dieci operativi) presenta gratuitamente il luogo ai visitatori; organizza eventi culturali d’estate e il presepe d’inverno; ha promosso quattro restauri, brochure e un volume.</p>



<p>La Scola sarà, con la Rocchetta, sede privilegiata per ospitare <strong>eventi culturali</strong>. Il borgo ha sedici residenti, di cui otto nel cuore storico, ma con le seconde case arriva a contare sessanta abitanti. Tra questi, Silvia Rossi e il marito.</p>



<p>«Dal 1974 il paese è sottoposto a <strong>vincolo urbanistico</strong>, voluto dal primo sindaco donna di Grizzana Morandi, Paola Pisi, rafforzato nel 1976 dal <strong>vincolo architettonico</strong>. Ma La Scola è così ben tenuto grazie soprattutto all’amore e alla passione di chi vi abita tutto l’anno, e di chi come noi è spesso qui.»</p>



<p>L’età della popolazione va dai 79 ai 28 anni. Alla generazione più giovane dei residenti appartiene <strong>Giulia Testoni</strong>, assessore alle Politiche ambientali, Rifiuti e Protezione Civile del Comune. «Abito a La Scola da dieci anni. Appena maggiorenne mi sono trasferita nella casa di mia nonna, che ho condiviso con lei fino a che non ci ha lasciati. Lavoro a Bologna, ma lo spostamento non mi pesa, amo la pace e la tranquillità di casa mia. Come me, altri giovani a La Scola e Campolo hanno condiviso questa scelta, abbracciando uno stile di vita lontano dai ritmi della città. Lo scopo finale del bando è attirarne altri <strong>puntando sul tema del lavoro</strong>. Sarà un’opportunità di sviluppo non solo per Grizzana Morandi e le due località, ma per tutto l’Appennino».</p>



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<h2 id="h-ripopolare-i-paesi-attraverso-nuovi-posti-di-lavoro">Ripopolare i paesi attraverso nuovi posti di lavoro</h2>



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<p>Il Comune di Grizzana Morandi userà una parte consistente dei fondi per <strong>acquistare</strong>, soprattutto <strong>a Campolo, locali e edifici disabitati</strong> (e in larga parte vincolati) <strong>da rigenerare</strong> per l’accoglienza di nuova popolazione residente e l’avvio di <strong>startup culturali</strong>.</p>



<p>«Non si risiede più nei paesi di montagna perché manca il lavoro; le infrastrutture sono carenti, così come i servizi. Con il progetto <em>Da Campolo l’arte fa Scola</em> metteremo in atto una serie di azioni e attività per attrarre giovani e famiglie a vivere nei nostri paesi», spiega <strong>Marco Tamarri</strong>, responsabile del Servizio turismo e cultura dell’Unione dei 13 Comuni dell’Appennino bolognese. <strong>La prima condizione per trasferirsi è il lavoro</strong>, che oggi per chi risiede in quest’area significa in gran parte pendolarismo verso Bologna o impiego nelle imprese dell’Alto Reno (una per tutte, Piquadro a Gaggio Montano). Strategica in questo senso l’istituzione della <strong>Scuola di Alta Formazione Edile e del Restauro</strong>, a Campolo, e della <strong>Casa delle Arti</strong>, che avrà sede nel complesso – presto acquisito dal Comune –, nei pressi della Rocchetta Mattei.</p>



<p>«La Casa delle Arti sarà un centro di produzione artistica di valenza internazionale, luogo di incisione discografica, registrazione, produzione cinematografica e audiovisiva, dove saranno sviluppati anche laboratori interattivi con tecnologie all’avanguardia. La Casa può contare su 150 contatti avviati, con nomi illustri come Sollima a Brunello, e venti partenariati per iniziare le attività», prosegue Marco Tamarri, che ha sviluppato quest’anima del progetto. «Diverse le maestranze &#8211; tra illuminotecnici, fonici, scenografi, eccetera &#8211; che saranno assorbite stabilmente dal centro e che potranno trasferirsi a Campolo».</p>



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<h2 id="h-progetto-montovolo-per-tramandare-l-arte-degli-scalpellini">Progetto Montovolo, per tramandare l’arte degli scalpellini</h2>



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<p>Custodi dei segreti dell’arte muraria, i maestri comacini nel 1400 e 1500 modellarono case, borghi e chiese dell’Appennino, soprattutto in questa zona, con i loro simboli e stilemi, rivoluzionando l’architettura rurale. La loro eredità fu raccolta dagli <strong>scalpellini</strong>, che nei secoli successivi lavorarono la <strong>pietra arenaria</strong> estratta dalle cave del Montovolo-Vigese per realizzare non solo gli edifici della zona, ma anche molti palazzi a Bologna.</p>



<p><strong>Campolo</strong> è storicamente un punto di riferimento per la lavorazione della pietra arenaria, tanto che nella piazza principale c’è un monumento dedicato alla figura del muratore costruttore: «A Campolo fino agli anni Sessanta del Novecento erano attive quattro cave dove lavoravano almeno cento persone. Poi la loro progressiva chiusura ha portato all’esaurimento sia della materia prima che della manodopera», spiega <strong>Stefano Vannini</strong>, presidente dell’Associazione Fulvio Ciancabilla, che di recente ha concluso la seconda edizione del corso di introduzione alla scultura su pietra organizzato in collaborazione con l’Unione dei Comuni dell’Appennino bolognese, che si è tenuto a Grizzana e Camugnano.</p>



<p>Il corso rientra nel più ampio <strong><em>Progetto Montovolo</em></strong>, teso a rilanciare l’antica arte della lavorazione dell’arenaria e a riqualificare questo mestiere grazie a <strong>Giancarlo Degli Esposti</strong> e <strong>Alfredo Marchi</strong>, artigiani della pietra ancora attivi; progetto che oggi trova nelle risorse del Bando borghi una grande opportunità di sviluppo.</p>



<p>«In collaborazione con l’Istituto Edile di Bologna – prosegue Stefano Vannini – l’Associazione Ciancabilla attiverà un <strong>corso per scalpellino-muratore</strong> e parteciperà alle attività della Scuola di Alta Formazione Edile e del Restauro prevista a Campolo nei segmenti della muratura e scultura in arenaria. Il percorso didattico sarà aperto a chi desidera imparare o affinare questo mestiere e alle aziende edili del territorio, che avranno così le competenze per ristrutturare gli edifici storici locali e rendere più belle le case di montagna.»</p>



<p>Per ovviare alla mancanza di materia prima, il Comune di Grizzana Morandi e quello di Camugnano stanno inserendo una norma nel piano urbanistico per poter <strong>usare</strong>, con finalità ben definite, il <strong>materiale proveniente da diversi fronti di frana</strong> lungo le pareti dei due monti, dalle quali sono crollati naturalmente centinaia di metri cubi di pietra.</p>



<p>«Il 60% degli edifici storici di questo territorio è in pietra arenaria. Recuperare materia prima e formare manodopera specializzata è fondamentale per partecipare ai restauri contemplati nel progetto <em>Da Campolo l’arte fa Scola</em>, primo fra tutti quello della Rocchetta Mattei. L’aspirazione è riuscire nei quattro anni di durata del progetto a formare una decina di maestri e a trasmettere i rudimenti di base a operatori edili delle imprese e artigiani», conclude Vannini.</p>



<p>L’associazione Ciancabilla ha inoltre intenzione di restaurare le attrezzature ancora presenti nelle due cave rimaste (una privata, l’altra di proprietà del Comune di Grizzana Morandi) per creare un <strong>museo a cielo aperto</strong> dell’attività di estrazione dalla cava e un <strong>luogo di sosta</strong> per i visitatori dei sentieri degli scalpellini, che saranno sistemati e inseriti ufficialmente nella rete sentieristica dell’Appennino.</p>



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<h2 id="h-ripopolare-campolo-dalle-infrastrutture-ai-servizi-la-cooperativa-di-comunita">Ripopolare Campolo, dalle infrastrutture ai servizi. La Cooperativa di comunità</h2>



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<p>«Una delle mie priorità è la <strong>manutenzione delle strade</strong>», evidenzia il sindaco <strong>Franco Rubini</strong>. «Poi c’è il tema di cui si discute da anni, quello di una superstrada alternativa alla Strada statale Porrettana. Di certo il progetto prevede il <strong>rafforzamento del servizio ferroviario metropolitano</strong> tra le stazioni di Bologna e Riola, mettendo in servizio delle <strong>navette elettriche</strong> per collegare Rocchetta Mattei, Campolo e La Scola. Non serviranno solo ai turisti, ma soprattutto a chi già vive qui e a chi deciderà di risiedervi».</p>



<p>I fondi del PNRR daranno una mano anche a potenziare e completare la già avviata <strong>infrastrutturazione digitale</strong> del territorio. Grizzana Morandi sarà coperta con la fibra entro il 2023, anche La Scola è un processo in progress.</p>



<p>Non va dimenticato il <strong>fronte commerciale</strong> e dei <strong>servizi</strong>. Chiusa la storica e rinomata Osteria dell’Anna, resta il ristorante Al Paladein, aperto nel 2017 per rivitalizzare il borgo. La rigenerazione di Campolo passerà anche dalla sistemazione dei campi sportivi adiacenti alla pro loco, dalla riapertura della bottega di paese, chiusa dalla fine del 2021, e quella dell’albergo. Per gestire queste attività sarà probabilmente creata una <strong>Cooperativa di comunità</strong>, che potrebbe assumere circa dieci persone «dalle competenze trasversali» – spiega Marco Tamarri – per rispondere alle esigenze dei borghi: guidare le navette elettriche, gestire la bottega riaperta, fare da guida ambientale per i turisti, fornire servizi ai residenti più anziani.</p>



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<h2 id="h-la-reazione-dei-cittadini-soddisfazione-e-alcuni-timori">La reazione dei cittadini: soddisfazione e alcuni timori</h2>



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<p>La <strong>condivisione del progetto con i cittadini</strong> è iniziata con due assemblee molto partecipate a Campolo e La Scola.</p>



<p>«Quando saremo operativi e avremo un cronoprogramma più definito, presumibilmente nel mese di giugno con la prima tranche di finanziamenti, torneremo dagli abitanti per un nuovo confronto», fa sapere il sindaco di Grizzana Morandi. La <strong>cabina di regia</strong> del progetto, come emerso dall’incontro con il dirigente del ministero della Cultura, potrà contare sulla stretta collaborazione con una realtà maggiormente strutturata come la <strong>Regione</strong> per la sua attuazione.</p>



<p>Si registra la <strong>grande soddisfazione</strong> – e anche l’incredulità – <strong>dei residenti per i fondi in arrivo</strong>, nell’attesa dei primi interventi concreti. A prevalere ora è la richiesta di informazioni; da parte di alcuni cittadini emerge il <strong>timore per una deriva troppo turistica</strong>, dall’altra si affacciano i dubbi sul post Piano borghi. Su questo Franco Rubini ha le idee chiare: «Ora la priorità è lavorare bene con tutta la squadra, partire con i primi interventi e soprattutto dare continuità nel tempo a quello che costruiremo».</p>



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Campolo, dove la rinascita è scritta nella pietra


<p>O cammini o lavori.&nbsp;E chi l’ha detto?</p>



<p><strong>Davide Fiz</strong>, dallo scorso marzo, gira a piedi l’Italia e lo farà fino all’autunno: è partito dal Sud e cucirà coi passi e col computer tutte le venti Regioni e i loro principali cammini. Il suo progetto si chiama <strong>Smart Walking</strong> &#8211; il marchio è registrato &#8211; e il nome è talmente azzeccato e originale che, gli va riconosciuto, avrebbe potuto fare il copywriter invece che il commerciale.</p>



<p>Lui è uno <strong>smart worker</strong> nello spirito e nell’intento più che nel concetto e nel contratto: toscano, 46 anni, una laurea in Economia aziendale all’Università di Pisa, di mestiere fa il freelance come commercial sales per varie aziende. Insomma era libero da uffici e orari di lavoro già da tempo, ma la voglia di testimoniare che si può conciliare il corpo col lavoro lo ha spinto a partire.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Fiz2.jpg"><img width="1024" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Fiz2-1024x1024.jpg" alt="" class="wp-image-49982" /></a><figcaption>Davide Fiz, ideatore del progetto Smart Walking, in una sosta durante il cammino tra Collalto Sabina e Turania (Abruzzo)</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-davide-fiz-e-il-suo-smart-walking-l-italia-passo-dopo-passo-con-l-ufficio-nello-zaino">Davide Fiz e il suo Smart Walking: l&#8217;Italia passo dopo passo con l&#8217;ufficio nello zaino</h2>



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<p>Di <strong>paesi </strong>ne vedrà tanti, in questi mesi che prevedono<strong> 2.500 chilometri a piedi </strong>e ora che siamo a fine aprile ha già calpestato il Cammino Materano, quello del Salento, il Cammino bizantino del Negro in Cilento, quello degli Aurunci nel Lazio e quello di San Pietro Eremita in Abruzzo; poi il Molise, adesso, a fine aprile. Ci eravamo conosciuti mesi fa, prima che i media lo ribattessero come un tam tam nelle ultime settimane tra radio e giornali. </p>



<p>L’ho raggiunto al telefono la settimana scorsa mentre passava tra Lazio e Abruzzo. Ero curiosa di farmi raccontare <strong>che Italia vede a piedi</strong>, <strong>come stanno i paesi spopolati</strong>, che cosa dice la gente che resiste e, soprattutto, se davvero ci si riesce a collegare col Wi-Fi mentre si attraversa l’inedito, perché poi la favola che nei piccoli paesi sperduti si vive meglio paga sempre il conto alla realtà se li tagli fuori dal poter decidere quanto e quando stare fuori dal mondo.&nbsp;</p>



<p>“Io ho lavorato sempre senza problemi al computer, da Bitetto, che sta a quindici chilometri da Bari, al paesino sperduto nel Vallo del Cilento. Certo io non ho particolari esigenze perché essendo un commerciale vado su internet, mi apro i gestionali e lavoro; sì, scarico anche file corposi di fotografie e materiale vario, quindi mi accorgerei se ci fossero grossi problemi nelle strutture private in cui faccio sosta. A Tufo di Carsoli in Abruzzo, però, prendeva in effetti solo la Vodafone, quindi ammetto che lì mi sono dovuto appoggiare alla mia rete.”</p>



<p>“Abbiamo lavorato cinque mesi per preparare Smart Walking in modo serio, ma la cosa che conta davvero è che io credo con tutto me stesso a questa idea perché <strong>lavoro in smart working da undici anni</strong>, mi gestisco da sempre in autonomia. Ci tengo a chiarire subito per evitare fraintendimenti: se prendiamo alla lettera il valore giuridico e contrattuale dello smart working, certo non riguarda me. Il mio messaggio si rifà più alla cultura di matrice anglosassone e angloamericana col concetto dello smart, dell’agilità e della libertà: mi ritrovo meglio dentro l’accezione più ampia della sola interpretazione da lavoro dipendente per il pubblico o privato.”</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Fiz5.jpeg"><img width="768" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Fiz5-768x1024.jpeg" alt="" class="wp-image-49997" /></a></figure></div>



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<h2 id="h-i-paesi-visti-da-chi-li-percorre-spopolamento-e-sempre-meno-servizi-ma-i-giovani-stanno-provando-a-tornare">I paesi visti da chi li percorre: &#8220;Spopolamento e sempre meno servizi. Ma i giovani stanno provando a tornare&#8221;</h2>



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<p><strong>Spopolamento</strong>, <strong>pochi giovani</strong>, <strong>scuole elementari che chiudono</strong>, <strong>ricambio generazionale assente</strong>. </p>



<p>Alla mia domanda sul <strong>livello di copertura dei servizi </strong>che ha trovato in questi primi mesi di cammino, Davide mi risponde con queste cose in fila e le sgrana una dietro l’altra senza pensarci su, come le vecchiette il rosario. </p>



<p>“Però un <strong>dato in controtendenza</strong> lo cito perché l’ho vissuto e conosciuto in queste settimane: <strong>i giovani stanno provando a tornare nei paesi</strong>, verso le proprie radici, ma soprattutto <strong>parecchi under 40 stanno dando le dimissioni </strong>per tracciarsi un altro futuro, meno schiavo delle città. La conferma è stato il ritorno a casa: nel momento in cui è stato concesso lo smart working loro si sono spostati, e questo è il cuore del discorso. La gente se ne va perché non ha lavoro, <strong>è il lavoro che dobbiamo rigenerare</strong>. O come è successo a una mia amica originaria del Cilento, che ha lavorato come insegnante prima a Livorno e poi a Torino e poi ha chiesto il trasferimento; ma nel suo caso senza che lo smart working avesse a che fare con la sua scelta, lo ha fatto per investire diversamente sul futuro della figlia nata da poco. Io in questo cammino ho mangiato i fiori per la prima volta in vita mia grazie a un cuoco che ha fatto la scuola di cucina di Pollenzo e che sta per andare a lavorare a New York: non abbiamo idea di quale altro genere di vita e di alimentazione siano ancora in grado di riservarci i piccoli paesi coltivati ancora dagli anziani. Finiti loro, finisce tutto.”</p>



<p>Davide non è in strada mentre stiamo al telefono, si sente qualche voce di sottofondo. Ha appena chiuso il <strong>Cammino di San Pietro Eremita</strong>, personaggio realmente esistito nato a Rocca di Botte e con le spoglie a Trevi nel Lazio (il Comune si chiama proprio Trevi nel Lazio). </p>



<p>“Proprio perché il santo è nato lì e morto là, da dieci secoli la regola del Comparatico vuole che non ci si possa sposare tra abitanti dei due Comuni. Il cammino fu voluto e creato dal professor <strong>Enzo Urbano</strong> che ci ha lavorato per anni, riunendo tutti i paesi e facendo capire loro l’importanza del progetto. Lui è morto a dicembre scorso e il caso ha voluto che io sia entrato in contatto con loro: la mia presenza ha fatto ripartire il Cammino e con loro abbiamo costruito una settimana di scambi e consigli incredibili. Addirittura ieri due gruppi di ragazzi di due paesi cresciuti nei secoli come paesi rivali si sono riuniti per pulire il sentiero in cui sarei dovuto passare io, ma senza che loro lo sapessero in partenza. Così come nei giorni scorsi mi ero fermato a fare qualche foto a delle vecchiette che pulivano la cicoria e loro scherzando mi hanno chiesto se sarebbero finite in televisione. Ho risposto che in effetti <strong>il mio sogno era finire su Geo&amp;Geo</strong>, finché un ragazzo del comitato locale mi ha poi chiamato per dirmi che le tre signore erano andate da un loro compaesano di Vivaro Romano, posto sperduto, che fa il cameraman di Geo&amp;Geo, e gli hanno parlato di me”.&nbsp;</p>



<p>Tre signore che fanno quasi trecento anni in tre e che provano a fare miracoli per chi vive la vita a piedi. &nbsp;</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Fiz3.jpg"><img width="768" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/Fiz3-768x1024.jpg" alt="" class="wp-image-49981" /></a></figure></div>



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<h2 id="h-altro-che-pnrr-per-salvare-i-paesi-basterebbero-dieci-viandanti-al-giorno">Altro che PNRR: per salvare i paesi basterebbero dieci viandanti al giorno</h2>



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<p>Mi racconta dei <strong>punti di raccordo umano del Centro Italia</strong>, come quello che appunto tiene insieme la provincia di Roma, L’Aquila e Rieti. </p>



<p>“Questo cammino l’ho iniziato e concluso a <strong>Rocca di Botte</strong>, provincia dell’Aquila, poco più di 800 abitanti a 750 metri d’altezza; è una vallata in cui in mezzo passa la Tiburtina. È il classico esempio di identificazione territoriale che sfugge alle logiche comuni, qui si conoscono tutti tra i paesi anche se stanno in province diverse. A me un grande supporto arriva dai <strong>Comitati sui territori</strong>, loro sono il vero presidio per tenere vivi i passaggi, i paesaggi e il turismo.”</p>



<p>“Quando penso a tutta questa macchina del <strong>PNRR </strong>mi dico che la politica non capisce granché e che <strong>basterebbe molto meno per ridare vita ai luoghi</strong>. Per aprire un Cammino o per tenerlo attivo non serve costruire ancora, fabbricare, inquinare. Sono le <strong>usanze </strong>e le <strong>culture</strong> che vanno recuperate e ricercate. Così come un bando PNRR dovrebbe far ripartire le comunità dai servizi, dalle scuole, dagli uffici postali, insomma da ciò che serve alle persone per vivere e sopravvivere ogni giorno.”</p>



<p>Alla fine con Davide ci mettiamo a fare i conti in tasca ai paesi, per concludere che alla maggior parte di loro alla fine basterebbe accogliere <strong>due o tremila camminatori o viandanti l’anno</strong> per garantirsi <strong>un’economia generale di sostentamento</strong>: parliamo in media di <strong>una decina di persone al giorno</strong>. </p>



<p>“Se pensi che Santiago de Compostela è partito con tre pellegrini negli anni Novanta e ora ne fa 250.000. Diciamo che <strong>più cammino e più mi accorgo di quanto c’è bisogno di gente che lo faccia</strong>, pur sapendo bene che non tutti potrebbero, per le ragioni più diverse. La mia idea iniziale era di lavorare la mattina e camminare il pomeriggio, anche se la passione per il progetto mi assorbe ogni giorno di più, ma non per questo non tengo fede ai miei impegni reali di lavoro; il resto è un sogno. Perché un sogno ce l’ho sul serio: <strong>aprire un cammino in Liguria</strong>, dove da piccolo mi portavano sempre in vacanza i miei sull’Appennino.”</p>



<p>Lo aspetto in Toscana, la promessa è fatta. Cammineremo e lavoreremo in mezzo all’antica Etruria dal 6 all’11 giugno. Chi volesse unirsi può farlo senza prenotare nulla o iscriversi chissà dove: però magari avvisatelo, seguitelo sui suoi profili social o dal canale di Mountain Blog che gli fa da partner. La pagina Instagram di Smart Walking resta comunque il vero diario di bordo, e ci trovate pure le tre signore dei miracoli: magari il prossimo post lo fa con voi se avete una storia che merita di essere raccontata.</p>



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Smart Walking: lavora, cammina, ama

<p><strong>Perdaxius</strong>, poco meno di <strong>millequattrocento abitanti</strong> di cui <strong>duecento giovani</strong>, è l’unico Comune del Basso Sulcis ad aver candidato un progetto per la Linea A del Piano Nazionale Borghi per il recupero dei vecchi <strong><em>furriadroxius</em></strong> (piccoli agglomerati rurali, composti da case, pascoli e terreni agricoli) presenti sul territorio.</p>
<p>Pur non essendo stato selezionato dalla <strong>Regione Sardegna </strong>come vincitore del bando (titolo che è andato a Ulassai, in provincia di Nuoro), Perdaxius è stato comunque <strong>classificato tra i sei progetti di “Fascia Alta”</strong>, ovvero considerati come pienamente rispondenti alle finalità dell&#8217;Avviso e alle linee guida del ministero della Cultura. Un risultato che conferma la bontà delle azioni previste, ma che non porta i fondi sperati su cui costruire un piano di sviluppo per i prossimi anni.</p>
<p>Che cosa può fare intanto il Comune?</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/paese.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="644" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/paese-1024x644.jpg" alt="" class="wp-image-49955" /></a><figcaption><strong>Perdaxius</strong>, poco meno di <strong>1400 abitanti</strong>, di cui <strong>200 giovani</strong>, è l’unico comune del <strong>Basso Sulcis</strong></figcaption></figure>
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<h2 id="h-perdaxius-non-vince-il-bando-ma-non-si-arrende-il-futuro-viene-dalla-tradizione-e-dal-turismo">Perdaxius non vince il bando ma non si arrende: il futuro viene dalla tradizione e dal turismo</h2>
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<p>“Il progetto presentato era concentrato sulla <strong>valorizzazione della ricchezza turistica locale</strong> per un rilancio a lungo termine, in grado di creare lavoro nella zona tutto l’anno e non solo d’estate”, dichiara <strong>Gianluigi Loru</strong>, sindaco di Perdaxius. A partire dal turismo, l’obiettivo era quello di stimolare l’economia locale e creare un circolo virtuoso in grado di sostenere anche le altre realtà economiche nella zona.</p>
<p>Nonostante sia sfumata la possibilità di ricevere questo finanziamento, l’idea è di <strong>non accantonare le azioni previste</strong>, che dall’analisi della Regione sono risultate non solo sostenibili sia dal punto di vista tecnico sia da quello economico, ma anche coerenti con le caratteristiche culturali e ambientali del territorio, oltre che in linea con le esigenze della popolazione.</p>
<p>“L’economia del territorio comunale infatti sta ancora scontando i contraccolpi della <strong>chiusura</strong> del vicino polo industriale di<strong> Porto Vesme</strong>”, spiega Loru, “e cerca la sua rinascita puntando su <strong>agricoltura</strong>, <strong>allevamento</strong>, <strong>pastorizia</strong> e, fondi permettendo, anche sul <strong>turismo</strong>. Il progetto presentato partiva proprio dalla tradizione agropastorale dell’area, concentrandosi sul recupero e la valorizzazione dei dieci <em>furriadroxius</em> presenti nelle varie frazioni di Perdaxius. Inoltre interessava anche i ventisei nuraghi dell’area, per rendere il paese più fruibile e attrattivo ai visitatori. Il tutto arricchito da una serie di azioni legate al miglioramento delle infrastrutture per il turismo e per il digitale, stimolando nuove opportunità occupazionali e mettendo Perdaxius in rete con i Comuni vicini: non ha senso restare isolati, dobbiamo entrare a far parte di un circuito”.</p>
<p>I <strong><em>furriadroxius</em></strong>, <strong>borghi</strong> su cui si concentrava il bando presenti in tutto il Sulcis, un tempo rappresentavano dei “<strong>microcosmi</strong>” <strong>autosufficienti</strong>, caratterizzati da tecniche costruttive e materiali autoctoni, che testimoniano le tradizioni e la cultura sulcitana antecedente all’esperienza mineraria e industriale dell’area. Una ricchezza da cui oggi provare a ripartire.</p>
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<h2 id="h-nel-sulcis-il-riscatto-viene-dalla-terra-storie-di-giovani-che-tornano-all-agricoltura">Nel Sulcis il riscatto viene dalla terra: storie di giovani che tornano all’agricoltura</h2>
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<p>“Fino a quindici-vent’anni fa sulla nostra economia faceva da traino il polo industriale di Porto Vesme, poi quella fiamma si è spenta. Oggi in paese sono ancora tanti i giovani che, dopo la laurea, decidono di andare via. <strong>Il Sulcis offre poco</strong>. In parallelo però ci sono anche molti<strong> giovani </strong>che hanno iniziato a <strong>puntare sulla campagna</strong>, credendo nel territorio e nel suo sviluppo”, dice il sindaco Loru.</p>
<p>La chiusura prima delle miniere e poi dell’industria metallurgica ha segnato il confine tra la memoria di una stagione d’oro del Sulcis e un presente in cui anche le aziende sopravvissute, a causa delle ripetute crisi, lanciano preoccupanti segnali d’allarme. A questo si somma <strong>uno spopolamento intenso della zona</strong>, che continua ormai da dieci anni, a ritmi doppi rispetto alla media regionale. Anche <strong>l’indice di vecchiaia e quello di dipendenza strutturale </strong>(il carico sociale ed economico della popolazione non attiva) non aiutano: il primo a Perdaxius si attesta a 315,8 (a fronte di una media nazionale di 182,6), e il secondo a 60,9 (media nazionale 57,3).</p>
<p>In controtendenza rispetto all’andamento regionale però c’è l’agricoltura: in tutto il Sulcis infatti c’è stato <strong>un incremento delle imprese agricole iscritte alla Camera di commercio</strong>. Il settore starebbe assorbendo progressivamente parte della manodopera uscita dalle altre attività, e contestualmente, come dichiarato dal sindaco, risulta essere un <strong>richiamo per i giovani</strong>, come testimoniano alcune aziende locali.</p>
<p>Tra queste quella di <strong>Cristian Pinna </strong>e della sua compagna<strong> Rossella </strong>(37 e 27 anni), nel borgo di <strong>Is Pillonis</strong>, uno di quelli interessati dal progetto proposto per il Piano Nazionale. Cristian e Rossella hanno un’azienda con <strong>quattrocento capi tra pecore e capre </strong>di diverse varietà, producono i foraggi che usano e il vendono latte prodotto dai loro animali a un’azienda sarda che lo ritira ogni mattina. Un’attività di famiglia che questi due giovani allevatori hanno scelto di ingrandire e portare avanti con grande passione e impegno, nonostante le difficoltà.</p>
<p>“È molto dura fare il nostro lavoro. Sarebbe importante avere un sostegno più forte da parte delle istituzioni, anche a livello economico visti gli aumenti di questo periodo. Le aziende agricole come la nostra potrebbero beneficiare di un rilancio dell’area, anche attraverso il turismo, che porterebbe un miglioramento dell’economia e delle infrastrutture a nostra disposizione, che sono carenti.”</p>
<p>A questa testimonianza si aggiunge quella di <strong>Giacomo Santus</strong>, titolare di Apicoltura&nbsp;S’abioi, che con le sue api fa nomadismo spostando le sue postazioni sia nel Comune di Perdaxius che in quello attiguo di Narcao. Giacomo, 49 anni, ha deciso di trasformare con successo una passione e una tradizione di famiglia per l’apicoltura in un lavoro dopo la chiusura dell’Ex Alcoa, in cui era impiegato, e nel 2021 ha rappresentato la Sardegna al concorso per i migliori mieli d&#8217;Italia “Le Tre Gocce D’oro”, vincendo il massimo riconoscimento come unica azienda in Italia per la tipologia di miele di erica.</p>
<p>“La mia attività, come le altre, crea valore per il territorio. <strong>Ci piacerebbe avere più servizi, più collegamenti</strong> in termini di trasporti e più <strong>incentivi</strong>”, racconta Giacomo. “Anche la mia azienda potrebbe beneficiare di un turismo che dura tutto l’anno: per noi produttori è un valore aggiunto avere dei clienti che comprano i nostri prodotti e li fanno conoscere in altre zone. Perdaxius ha tanti <em>meraus</em> (<em>furriadroxius</em>): valorizzarli e aprirli al pubblico sarebbe importante. <strong>Servono strutture ricettive e servizi</strong>, fondamentali per trattenere i turisti qui. Bisogna lavorare a lungo termine, in modo da trattenere le persone. Per un turista ci deve essere un’offerta di qualità e quantità”.</p>
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<h2 id="h-i-limiti-di-perdaxius-questione-di-mentalita">I limiti di Perdaxius? Questione di mentalità</h2>
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<p>L’area non ha bisogno solo di organizzare e promuovere meglio la propria proposta turistica, ma ha necessità anche di migliorare l’<strong>offerta di trasporti </strong>(carenti in quest’area più periferica rispetto ad altre zone del Sulcis, raggiungibili anche in treno da Cagliari), la <strong>disponibilità ricettiva</strong> (che a Perdaxius è molto bassa) e la <strong>garanzia di infrastrutture digitali di base, </strong>come il Wi-Fi, che in paese ancora funziona male (l’amministrazione a tal proposito ha firmato da poco un concordato con la Regione per coprire il Comune con il servizio e implementare la digitalizzazione del Comune e delle sue scuole).</p>
<p>“Nel frattempo, però, se da un lato la domanda turistica non è costante, va anche sottolineato che sino ad oggi c’è stata anche <strong>poca disponibilità locale a volersi mettere sul mercato</strong>; ma è una questione di <strong>mentalità</strong>”, lamenta il sindaco Loru.<strong> “</strong>Ci sono dei paesini vicini più avanti dal punto di vista dell’ospitalità. La comunità perdaxina ha apprezzato la presentazione al bando, così come l’idea di mettere in rete i diversi siti e di conseguenza anche di valorizzare la produzione agroalimentare del paese. Adesso tocca a noi istituzioni riuscire a fare da collante, e a migliorare l’aspetto organizzativo e la promozione del territorio. Per ora continuiamo a muoverci sul versante del miglioramento archeologico, grazie ai nuovi lavori sul nuraghe Camboni (il più importante di Perdaxius) che partiranno a maggio, per cui sono stati stanziati 20.000 euro della Fondazione Banco di Sardegna più 100.000 euro di fondi regionali”.</p>
<p>Sul tema conclude <strong>Emiliana Sabiu</strong>, cofondatrice di Cherimus, un’associazione culturale di Perdaxius che da dieci anni si impegna a stimolare lo sviluppo del territorio attraverso l’arte, anche grazie ai numerosi bandi nazionali ed europei vinti nel tempo. Cherimus ha anche partecipato alla scrittura di una delle azioni proposte per il bando, in ottica di <strong>sviluppo del territorio attraverso l’arte contemporanea</strong>, per rendere il paese e l’area circostante <strong>un centro di residenze per artisti internazionali</strong>, intrecciandosi con l’idea di albergo diffuso prevista dal bando.</p>
<p>“<strong>I limiti nell’area sono strutturali ma anche soggettivi della comunità</strong>. Paradossalmente quelli strutturali sono quelli più facili da affrontare, perché si tratta di trovare investimenti e gestirli in maniera corretta. Il limite più grande è <strong>l’atteggiamento delle persone</strong>, che spesso è<strong> arreso</strong>: è difficile scuoterle. Non bisogna aspettare che arrivi una spinta da fuori, ma essere <strong>portatori di un cambiamento dal basso</strong> piuttosto che dall’alto, che rischierebbe invece di portare a scelte non condivise con le persone ed estranee al territorio. Noi cerchiamo di fare questo, e pensiamo che sia utile per rendere gli investimenti strutturali più sensati e per far partecipare in modo diverso alle attività del territorio. Quando si è coinvolti in prima persona, mettendo a disposizione magari la propria abitazione per un albergo diffuso, è molto diverso da una situazione in cui viene costruito un albergo multi-piano accanto a casa”.</p>
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Il basso Sulcis prova a rialzarsi: la resilienza non viene dal PNRR

Il paese di Perdaxius, escluso dal Bando borghi ma classificato tra i progetti di fascia alta, continua a puntare sullo sviluppo di turismo, agricoltura e tradizione. Le testimonianze del sindaco Gianluigi Loru, di associazioni e di giovani agricoltori locali.

Il basso Sulcis prova a rialzarsi: la resilienza non viene dal PNRR - Informazione senza filtro

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<p style="font-style:normal;font-weight:500"><em>La direttiva UE 2019/1937, sulla quale l&#8217;Italia rischia una procedura d&#8217;infrazione, cambia gli scenari per chi denuncia illeciti nelle imprese: si parla di estensione delle possibilità di denuncia e divieto di ogni tipo di ritorsione. Le aziende dovranno adeguarsi entro due anni. Ne parliamo con Priscilla Robledo, consulente legale e attivista per The Good Lobby.</em></p>



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<p>“La causa principale che porta a <strong>non denunciare illeciti e corruzione nelle imprese</strong> è la <strong>mancanza di informazione</strong>”.</p>



<p>Tocca un punto fondamentale <strong>Priscilla Robledo</strong>, consulente legale e attivista per The Good Lobby, organizzazione non governativa che si occupa di trasparenza. “Non solo ai lavoratori mancano le linee guida per procedere, ma talvolta nemmeno c’è consapevolezza rispetto a questa possibilità”. Un tema, quello della <strong>comunicazione interna</strong>, troppo spesso lasciato ai margini nelle aziende, che finiscono così per favorire più o meno volontariamente evitabili forme di discriminazione.</p>



<p>Perché se è noto che l’Italia non ha ancora recepito la <strong>direttiva UE 2019/1937 sul whistleblowing</strong> – i termini sono infatti scaduti lo scorso 31 dicembre – è altrettanto vero che una normativa a tutela è già in vigore dal 2017. Si tratta della <strong>Legge 179</strong>, che completa il quadro previsto dal modello 231 del 2001 e dalla legge 190 del 2012, provvedimenti anch’essi impegnati sul fronte anticorruzione.</p>



<p>“In effetti la direttiva serve per completare il percorso, perché è bella e dettagliata, visto che <strong>oggi la protezione degli whistleblower è ancora parziale</strong>”.</p>



<p>Detto che i whistleblower altro non sono che i segnalatori di illeciti, <strong>che cosa si intende per protezione parziale?</strong> Proviamo a spiegare.</p>



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<h2 id="h-che-cosa-cambia-con-la-direttiva-ue-sul-whistleblowing">Che cosa cambia con la direttiva UE sul whistleblowing</h2>



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<p>La direttiva UE, rispetto alla normativa attuale, include nella <strong>definizione</strong> di questi soggetti anche consulenti, membri dei consigli direttivi, ex dipendenti e candidati, persone cioè <strong>al di fuori della normale relazione di lavoro subordinato</strong>. Inoltre, altro aspetto importante, introduce il <strong>divieto di ogni tipo di ritorsione</strong>, prevedendo sanzioni per chi ostacola questo diritto. Una strada che, aspetto non secondario, permette tra l’altro di parificare il trattamento nel settore pubblico e privato.</p>



<p>“Bisogna però specificare che <strong>le direttive non sono immediatamente applicabili</strong> come i regolamenti, quindi al momento società ed enti pubblici si possono solo preparare all’entrata in vigore”. Perché, allora, <strong>l’Italia rischia una procedura d’infrazione</strong> da parte della Commissione europea? “Molto semplice: siamo in ritardo di due mesi e mezzo, in quanto il recepimento andava effettuato entro la fine del 2021. Non una novità per il nostro Paese, troppe volte fuori tempo con questi adeguamenti”.</p>



<p>Nel concreto, entro il prossimo anno <strong>le imprese con più di 250 lavoratori </strong>si dovranno attrezzare con <strong>specifici canali per la ricezione delle segnalazioni</strong>. Canali ai quali dovranno poter accedere anche tutti gli stakeholder esterni, a partire da lavoratori autonomi e in somministrazione, oggi ancora esclusi dalla norma. Aspetto ancor più interessante è il coinvolgimento nel processo, dal 2023, anche delle <strong>aziende dai 50 lavoratori in su</strong>, contenitore che abbraccia buona parte delle piccole e medie imprese italiane.</p>



<p>Un’implementazione davvero possibile? “Così prescrive la direttiva, ragion per cui anche queste realtà saranno chiamate a mettere a punto <strong>procedure antidiscriminazione</strong>. Il periodo transitorio che esclude queste organizzazioni terminerebbe il 31 dicembre 2023, quindi <strong>dal 2024 l’estensione dovrebbe entrare a tutti gli effetti in vigore</strong>, ma restiamo in attesa del decreto di recepimento per avere un calendario preciso”.</p>



<p>Tema, come detto all’inizio, senza dubbio culturale, oltre che di adeguamento alla futura norma. Se le aziende oggi coinvolte non riescono a strutturare piani di comunicazione efficaci, figuriamoci le PMI. “Il punto è proprio questo: se manca la cultura organizzativa, è improbabile creare una struttura in grado di funzionare. Diciamo la verità, <strong>in una PMI si conoscono tutti</strong>, per cui senza reali tutele da parte delle società il <strong>rischio di discriminazioni volontarie o involontarie</strong> è molto alto”.</p>



<p>D’altro canto viviamo in un Paese che, secondo i dati redatti dall’indice annuale di percezione della corruzione, transita al quarantaduesimo posto sui centottanta complessivi, ex aequo con la Polonia e appena un punto sopra al Botswana. Una posizione di classifica demoralizzante, quella evidenziata dal report di Transparency International, se confrontata con gli altri grandi d’Europa: Francia ventiduesima, Gran Bretagna undicesima, Germania decima. Non a caso, quindi, <strong>tra il 2018 e il 2021</strong> (complice probabilmente anche la pandemia) si è verificato un preoccupante <strong>calo del 45% di segnalazioni inviate all’ANAC</strong>, l’autorità nazionale anticorruzione.</p>



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<h2 id="h-la-principale-differenza-tra-la-direttiva-sul-whistleblowing-e-le-leggi-precedenti-il-ruolo-dei-sindacati">La principale differenza tra la direttiva sul whistleblowing e le leggi precedenti. Il ruolo dei sindacati</h2>



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<p>In tutto questo, come si inserisce la <strong>mediazione sindacale</strong>? “Il sindacato non ha <strong>potere giurisdizionale</strong>, si occupa appunto di mediare conflitti risolvibili, ma non entra nel merito di interventi potenzialmente sanzionatori nei confronti degli autori di illeciti. Anche se, per onore di cronaca, bisogna dire che <strong>ANAC fino ad oggi ha emesso</strong> <strong>numero irrisorio di sanzioni</strong>. Quando parlo di cultura penso anche a questo: si tratta di un cambiamento totale di paradigma, che riguarda davvero tutti, autorità comprese”.</p>



<p>Se l’Italia si dovesse allineare in modo definitivo, ed è opportuno che lo faccia, qual è il punto di rottura più importante rispetto al passato?</p>



<p>“Le differenze fra la legge e la direttiva sono molte. Oltre all&#8217;estensione della protezione anche a soggetti non dipendenti, o la possibilità di segnalare esternamente all&#8217;ente, un punto interessante per esempio riguarda la <strong>tutela del segreto commerciale</strong>. Per spiegarlo riprendo un orientamento della Cassazione che risale a inizio 2018, nei primi mesi di applicazione della legge 179. Nel caso specifico il whistleblower, prima di effettuare la segnalazione, si era permesso di approfondire un’indagine preliminare di raccolta prove, violando il segreto commerciale dell’azienda. Ebbene, la Cassazione ha evidenziato l’articolo 3 della 179 che fa prevalere il segreto sul potere della segnalazione. Quindi la 179 protegge dagli illeciti, ma se violi il segreto per segnalare da vittima diventi colpevole. <strong>La direttiva UE invece spiega che a prevalere è sempre il whistleblower</strong>, ad eccezione di alcuni casi particolari come il segreto di Stato. Ecco, il punto di rottura complessivo è questo: la legge 179 mette al centro le procedure, mentre la direttiva mette al centro la persona”.</p>



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<h2 id="h-priscilla-robledo-the-good-lobby-direttiva-avvantaggia-i-whistleblower-nella-mediazione-con-le-imprese">Priscilla Robledo, The Good Lobby: “Direttiva avvantaggia i whistleblower nella mediazione con le imprese”</h2>



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<p>Tutte teorie interessanti, però la verità è che anche con gli ultimi adeguamenti normativi le aziende si tutelano dal punto di vista burocratico, ma nella pratica per adesso poco cambia. “Neanche Roma è stata costruita in un giorno. Lo ripeto, servono adeguate campagne di comunicazione interna. Dall’altro lato non ci si deve aspettare una marea di segnalazioni; <strong>non sempre tutto è denunciabile, non sempre i lavoratori vogliono denunciare</strong>. Qui si tratta di potenziali <strong>illeciti di norme</strong>”.</p>



<p>Quindi, quali sono questi potenziali illeciti? In sostanza si parla, per citare qualche esempio, di <strong>assunzioni poco trasparenti</strong>, <strong>demansionamenti</strong>, <strong>violazione di norme ambientali</strong> o sulla <strong>sicurezza del lavoro</strong>. Ovvio che l’efficacia massima si ha quando la norma non viene mai applicata. “Appunto, anche questa direttiva ha intenti di <strong>prevenzione</strong>, per cui se lo strumento funziona e non ci sono segnalazioni ben venga. In ogni caso l’obiettivo è costruire e implementare canali perfettamente fruibili e riservati, a cui i lavoratori e gli altri attori si possano appoggiare. Il tutto senza discriminare nessuno”.</p>



<p>E senza dimenticare l’<strong>aspetto relazionale</strong>. Dopo una denuncia di illecito, un lavoratore può davvero <strong>continuare il suo rapporto professionale</strong> <strong>senza ripercussioni</strong> in una piccola o media impresa? “Non è così piacevole lavorare in un posto di lavoro dove è successo quel che è successo. Alla fine, lo sappiamo, si media sempre. La legge è comunque utile perché permette al whistleblower di uscire meglio dalla mediazione rispetto al passato”.</p>



<p>È possibile, attraverso i dati, capire lo <strong>stato di salute delle organizzazioni pubbliche e private italiane</strong>? “Fino a due anni fa ANAC ogni mese di giugno pubblicava un report sulle segnalazioni ricevute. Oggi non lo fa più, ed è anche molto difficile trovare in rete rapporti ed elementi utili. Si trovano dati su sanzioni comminate nei confronti dell’autore e delle società, ma sono pochi e deludenti. Sul privato invece non c’è nulla: a chi conviene strutturare indagini simili e chi è disposto a supportarle?”</p>



<p>Già. Perché in fondo un conto è adeguarsi alla futura direttiva, ammesso che il Governo la recepisca, un altro è essere integerrimi per davvero.</p>



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<p><em>Photo credits: agendadigitale.eu</em></p>


Whistleblowing in Italia, soffiate a mezza voce: politica e imprese ancora in ritardo


<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Il fenomeno dei lavoratori poveri è determinato da salari bassi e instabilità dei contratti e localizzato su generi, età e geografie. L&#8217;Italia e l&#8217;Europa interpretano in maniera parziale i dati che li riguardano; risolvere la loro situazione richiede interventi strutturali sulle politiche del lavoro.</em></p>



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<p>Il <strong>salario minimo</strong> viene spesso considerato una misura di contrasto alla povertà. In realtà non si tratta di un vero e proprio strumento con questo fine, in quanto possono beneficiarne <strong>solo i lavoratori</strong>, tagliando fuori i disoccupati. Avere un lavoro, tuttavia, non assicura il superamento della soglia di povertà: un’analisi dell’utilità del salario minimo richiede, quindi, di focalizzarsi sulla dimensione della <strong>povertà da lavoro</strong>.</p>



<p>Anzitutto è necessario <strong>definire il concetto di povertà da lavoro</strong>. Secondo la definizione dell’indicatore Eurostat i <strong>working poor</strong> sono gli individui che hanno lavorato per almeno metà anno e il cui reddito annuale famigliare equivalente è inferiore al reddito mediano nazionale. Si tratta quindi di un concetto complesso, con due dimensioni: una individuale (essere lavoratore) e una famigliare (il reddito considerato è quello del nucleo familiare e non del singolo).</p>



<p>A differenza dell’indice Eurostat, per la nostra analisi consideriamo il salario mensile netto individuale per dei vincoli imposti dai dati, anziché il reddito familiare annuo. Come mostrato nel grafico, la <strong>percentuale di lavoratori poveri sul totale degli occupati</strong> è rimasta stabile e alta nel tempo, e l’aumento nel 2020 a seguito della pandemia si somma a una problematica già presente e strutturale del nostro Paese.</p>



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<p>Per comprendere meglio <strong>chi siano i working poor</strong>, in quale zona d’Italia risiedano e se siano giovani o anziani, abbiamo analizzato i micro-dati della <em>Rilevazione Forza Lavoro</em> dell’Istat (la principale indagine campionaria sul mercato del lavoro da cui vengono ricavate le stime ufficiali su occupati e disoccupati). Tramite l’analisi del salario netto mensile, questi dati permettono diversi livelli di approfondimento del fenomeno della povertà da lavoro.</p>



<p>Avere una <strong>retribuzione bassa</strong> è sicuramente associato con l’essere un lavoratore povero, ma altri fattori qui non considerati sono altrettanto importanti nel determinare la povertà lavorativa, come la <strong>composizione famigliare</strong> in termini di percettori di reddito e di componenti a carico, considerati invece nell’indice Eurostat.</p>



<p>Al di là dei dettagli tecnici sulla misurazione, come vedremo, alcune conclusioni chiave non cambiano: la povertà da lavoro merita una specifica attenzione anche negli interventi al suo contrasto. Il salario minimo è solo un tassello per affrontare la povertà da lavoro, ma è importante focalizzarsi sul fenomeno dei working poor nel suo complesso, perché la sfida non riguarda solo il mercato del lavoro. Infatti, secondo alcune <a href="https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef1725en.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">analisi</a>, in Europa e in Italia la povertà lavorativa è associata a una <strong>minor soddisfazione verso la propria vita</strong>, a più bassi indicatori di benessere mentale e a un maggiore senso di esclusione sociale.</p>



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<h2 id="h-dove-sono-i-working-poor-la-maggior-parte-vive-al-sud">Dove sono i working poor: la maggior parte vive al Sud</h2>



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<p>Per cominciare, analizziamo la povertà da lavoro a partire dalla <strong>dimensione geografica</strong>. Il focus regionale ci consente, tra l’altro, di contribuire al dibattito sull’eventuale differenziazione territoriale del livello del salario minimo.</p>



<p>Dalla nostra analisi emerge un dato: <strong>la maggior parte dei lavoratori poveri risiede al Sud</strong>. Tuttavia questo fatto non è ascrivibile alla differente distribuzione dei salari tra Regioni. Il salario mediano infatti è più alto al Nord che al Sud e nelle Isole, ma la percentuale di working poor è maggiore al Sud e nelle Isole sia considerando come riferimento il salario mediano nazionale che quello regionale. Il principale messaggio che emerge dall’analisi è che al Sud la maggiore presenza di working poor è dovuta a una consistente fascia della popolazione che rientra nelle fasce di reddito più basse, e non a scelte di misurazione.</p>



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<p>I salari minori al Sud sono in parte associati a un minor costo della vita; tuttavia, ciò non spiega completamente il fenomeno della maggiore povertà da lavoro al Sud, che rimane più vasta che altrove anche quando consideriamo analisi intra-regionali. Questo suggerisce una <strong>declinazione almeno regionale del salario minimo</strong>.</p>



<p>Un altro elemento che salta all’occhio nei nostri dati sull’incidenza della povertà da lavoro è una evidente <strong>sottostima</strong> rispetto ad altri studi analoghi. La differenza dipende dai dati utilizzati e riflette in buona parte un punto chiave nella discussione sul salario minimo. Le stime superiori alle nostre utilizzano i salari percepiti nel corso dell’intero anno solare, mentre le nostre elaborazioni utilizzano i salari nel mese in cui è avvenuta l’intervista del lavoratore. Pertanto la differenza include anche l’<strong>instabilità dei contratti</strong>, un altro determinante cruciale della povertà da lavoro, di recente evidenziato anche dal gruppo ad hoc istituito presso il ministero del Lavoro.</p>



<p>Quest’ultima problematica non può essere risolta con l’introduzione di un minimo salariale, e dunque richiede strumenti di policy a sé stanti.</p>



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<h2 id="h-meno-soldi-ma-anche-meno-ore-le-cause-della-poverta-da-lavoro">Meno soldi, ma anche meno ore. Le cause della povertà da lavoro</h2>



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<p>La precarietà dei contratti non è l’unica variabile che può distorcere confronti con altri studi; differenze sostanziali, infatti, possono emergere anche dall’<strong>analisi delle ore lavorate</strong>.</p>



<p>Non tutti i contratti di lavoro prevedono 40 ore settimanali, né tutti i contratti durano per tutto l’anno, e dunque la povertà da lavoro può emergere anche dal <strong>minor tempo lavorato</strong>. I dati che abbiamo utilizzato finora sono riferiti al salario netto mensile, che viene modificato solo indirettamente dall’introduzione di un minimo salariale orario.</p>



<p>Come spiegato, un basso numero di ore lavorate è una delle ragioni dell’elevata incidenza della povertà da lavoro, e questo può essere osservato ripetendo la nostra analisi e considerando un’approssimazione del salario orario. Tuttavia, la differenza nelle ore lavorate in media nelle venti Regioni italiane non spiega le diversità geografiche osservate.</p>



<p>Riassumendo, abbiamo visto come il salario minimo debba essere declinato almeno a livello regionale, in modo da tenere conto e affrontare l’eterogeneità della povertà da lavoro. Affinché si possa contrastare questo fenomeno, il <strong>minimo salariale</strong> dovrà essere necessariamente accompagnato da <strong>politiche che affrontino l’instabilità contrattuale</strong> e che intervengano sul <strong>tempo di lavoro</strong>.</p>



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<h2 id="h-chi-sono-i-working-poor-il-dato-dei-ventenni-e-quello-nascosto-delle-donne">Chi sono i working poor: il dato dei ventenni e quello nascosto delle donne</h2>



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<p>Un’altra possibile dimensione di analisi utilizzando i dati a livello individuale è quella per <strong>età</strong> e <strong>genere</strong>.</p>



<p>Anche per il fenomeno della povertà da lavoro, come più in generale accade nel mercato del lavoro, le <strong>fasce più penalizzate</strong> sono quelle dei <strong>giovani</strong> e delle <strong>donne</strong>. Come si evince dal grafico, il dato più preoccupante è quello relativo alla fascia d’età più giovane fra i 15 e i 19 anni, che va tuttavia interpretato con cautela per via del basso numero di lavoratori in quella fascia d’età (ad esempio, l’Istat non riporta quindicenni lavoratori per via dell’obbligo scolastico).</p>



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<p>Allarma dunque di più il dato relativo ai <strong>ventenni</strong>, che è significativamente maggiore rispetto alla media nella popolazione. Evidente nel grafico è la <strong>maggiore incidenza della povertà da lavoro nelle donne</strong> rispetto che negli uomini. Nonostante tale differenza di genere non sia accettabile, e abbia conseguenze economiche e sociali non trascurabili, bisogna tenere in considerazione che una parte delle lavoratrici integra il reddito famigliare. Per questo, tenendo conto della definizione di povertà a livello di nucleo famigliare di Eurostat, queste lavoratrici non farebbero parte dei working poor. Non sorprende che secondo i dati europei, infatti, nel 2019 in Italia nella popolazione fra i 18 e i 64 anni l’incidenza della povertà da lavoro è di 3 punti percentuali maggiore per gli uomini (dato al 13,0%) che per le donne (dato al 10,1%). Una parte delle lavoratrici a basso reddito, infatti, è seconda percettrice di reddito, e pertanto non viene considerata come working poor.</p>



<p>Una grossa differenza tra donne e uomini potrebbe essere responsabile del divario presentato in precedenza: <strong>è possibile che le donne lavorino meno ore degli uomini</strong>, e che quindi abbiano uno stipendio mensile più basso per questo motivo. Possiamo quindi cercare di capire se questa differenza di genere sia dovuta alla differenza di ore lavorate oppure a diversi salari orari.</p>



<p>Calcolando una <strong>approssimazione del salario orario</strong> con i dati a nostra disposizione, notiamo che la penalizzazione di genere permane, anche se si riduce considerevolmente. Possiamo osservare questo fatto nel grafico sotto riportato, che considera solo i lavoratori e le lavoratrici a tempo pieno. La disuguaglianza di genere nei salari percepiti, dunque, non sembra essere una questione relativa alle ore lavorate, ma alla <strong>paga oraria inferiore</strong> <strong>che le donne ricevono rispetto agli uomini</strong>.</p>



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<p>Il sostegno al lavoro e ai salari femminili risulta quindi chiave per due ragioni: in primis per ridurre le disuguaglianze di genere, anche all’interno dello stesso nucleo famigliare, e in secondo luogo perché la presenza di un secondo percettore di reddito riduce il rischio di povertà da lavoro per tutte le persone lavoratrici di un dato nucleo familiare.</p>



<p>In conclusione, riteniamo che l’introduzione del<strong> salario minimo </strong>sia un <strong>passo necessario</strong>, ma <strong>non sufficiente per affrontare il fenomeno della povertà da lavoro</strong> e le relative disuguaglianze territoriali e demografiche. È nostra opinione che questo strumento debba inserirsi in un più ampio insieme di politiche di sostegno al lavoro (ad esempio volte a incentivare la stabilità dei contratti) necessarie per il nostro Paese.</p>



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<p><strong><em>Ha collaborato all’articolo:</em></strong></p>



<p><strong><em>Sergio Inferrera – </em></strong><em>Laureato presso l&#8217;università Bocconi, ha lavorato in BCE come assistente di ricerca. È consulente di ricerca per CompNet e presso l&#8217;Università Bocconi. È inoltre senior fellow del think-tank </em><a href="https://www.tortuga-econ.it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow"><em>Tortuga</em></a>,<em> tramite il quale pubblica questo contributo.</em></p>



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<p><em>Photo credits: srf.ch</em></p>


Working poor, l&#8217;Italia non sa contarli. Il salario minimo li aiuterebbe?

<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Il parere di Aldo Confalonieri, presidente sezione Turismo di Assosistema Confindustria, e di due imprenditori: &#8220;Ripresa spezzata dalla guerra: aziende costrette ad alzare i prezzi, rischiano 4.000 lavoratori. Il Governo aveva dato aiuti nel 2020, oggi ignora le stesse imprese&#8221;.</em></p>
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<p>Tra pandemia, crisi delle materie prime e ora la guerra russa in Ucraina non sembra esserci pace per l’industria dell’ospitalità italiana, così come per tutte le altre attività a essa collegate. Fra queste, quella delle <strong>lavanderie industriali del comparto del turismo</strong> è tra le prime per necessità di funzionamento delle strutture ricettive e della ristorazione. Un totale di circa <strong>300 aziende e 8.000 lavoratori </strong>(di cui il 65% donne), per un fatturato pari a 660 milioni di euro nel 2019. Un settore oggi in <strong>grande difficoltà</strong>, che si trova a scontrarsi con il fatto di non essere stato ricompreso dal Governo tra i destinatari delle nuove misure previste a sostegno del turismo, pur essendone parte integrante.</p>
<p>In mancanza di aiuti del Governo le lavanderie provano ad alzare i prezzi, ma se i clienti stessi sono in crisi la soluzione non sembra così semplice. Già fiaccate dalla pandemia, le lavanderie del comparto rischiano di pagare un conto troppo alto a causa degli aumenti delle materie prime e della guerra in Ucraina, i cui scenari non sono ancora prevedibili.</p>
<p>La sofferenza è condivisa in questo <strong>settore</strong>, non delocalizzabile e <strong>molto avanzato </strong>da un punto di vista <strong>informatico </strong>e <strong>tecnologico</strong>. Tamponano le perdite le aziende più grandi, soprattutto quelle che negli anni si sono diversificate in altri comparti, come quello dei servizi sanitari integrati. Intanto però, in attesa di una ripresa forte del turismo, il futuro delle piccole e medie aziende e dei lavoratori sembra molto a rischio, anche a causa della concorrenza sleale di chi lavora ai margini del settore. La speranza degli addetti ai lavori intanto è che il Governo cambi idea sui sostegni, e si attivi in tempi rapidi al fine di garantire la sopravvivenza di queste imprese.</p>
<p>Su questo tema abbiamo raccolto le posizioni di <strong>Aldo Confalonieri</strong>, presidente della sezione Turismo di Assosistema Confindustria, e di <strong>due aziende del comparto</strong>.</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/aldo-confalonieri.jpeg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/aldo-confalonieri-1024x768.jpeg" alt="" class="wp-image-49367" /></a><figcaption>Aldo Confalonieri, presidente della sezione Turismo di Assosistema Confindustria.</figcaption></figure>
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<h2 id="h-aldo-confalonieri-assosistema-confindustria-per-le-lavanderie-industriali-salgono-i-costi-e-calano-i-turisti">Aldo Confalonieri, Assosistema Confindustria: “Per le lavanderie industriali salgono i costi e calano i turisti”</h2>
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<p>“Gli effetti della pandemia sono stati molto gravi per tutte le <strong>lavanderie del settore del turismo</strong>”, esordisce Confalonieri. “Si sono registrate delle contrazioni rilevanti del fatturato, con <strong>una perdita di 396 milioni nel 2020</strong>, e una stima di <strong>350 milioni andati in fumo nel 2021</strong>. Le aziende sono rimaste in piedi con notevoli sforzi e investimenti di risorse proprie, al fine di restare attive sul mercato. Una sofferenza condivisa, ma chi ha subito perdite maggiori sono in particolare le lavanderie che lavorano nelle <strong>grandi città d’arte</strong> (Venezia, Milano, Firenze, Roma…), che faranno più fatica a tornare ai livelli normali”.</p>
<p>Un problema dovuto inizialmente alle <strong>chiusure imposte dalla pandemia</strong>, a cui si sono sommati non solo la mancanza dei flussi turistici pre-COVID, ma anche<strong> l’aumento delle materie prime.</strong></p>
<p>Secondo i dati forniti da Assosistema, da gennaio a novembre 2021 i <strong>numeri dei rincari</strong> si attestano su cifre difficilmente sostenibili nel lungo periodo, a partire dal <strong>gas</strong> ( +153% rispetto al 2019 e +286% sul 2020 l’aumento medio per il metano) e dalla <strong>materia energetica</strong> (+112% rispetto al 2019 e +185% rispetto al 2020). Alti i rincari anche per le <strong>sostanze chimiche e i detergenti</strong> (+57% sul 2019 e + 72% sul 2020 sul prezzo medio dei detergenti all’ingrosso), per il <strong>polietilene</strong> per l’imballaggio (+41% sul 2019 e +80% rispetto ai valori 2020 sui prezzi all’ingrosso) e per il <strong>tessile</strong> impiegato per i servizi di noleggio della biancheria (+17,50% sul 2019 e +30% sul 2020).</p>
<p>Rispetto a quest’ultima voce, inoltre, come precisa Confalonieri, c’è un problema di <strong>scarsità</strong>: “Il cotone si ottiene con fatica e con ritardi, perché poco e proveniente dall’estero. Prima le navi arrivavano in una settimana, oggi sono praticamente ferme”.</p>
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<h2 id="h-a-rischio-4-000-posti-di-lavoro-il-nodo-degli-stagionali">A rischio 4.000 posti di lavoro. Il nodo degli stagionali</h2>
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<p>Se gli aumenti continuano, e i turisti non arrivano, <strong>restano in forse gli stagionali</strong>, che rappresentano più della metà degli addetti del comparto delle lavanderie industriali.</p>
<p>“Le lavanderie industriali impiegano circa <strong>8.000 addetti, di cui 5.000 stagionali</strong>”, spiega Confalonieri. “Si lavora soprattutto con <strong>assunzioni a tempo determinato</strong>, sia per la stagione invernale che per quella estiva, e poi ci sono le aziende che servono le grandi città d’arte che assumono soprattutto da marzo a ottobre. Il calo della manodopera al momento c&#8217;è stato, e ha riguardato in particolare gli stagionali della montagna, circa 2.000 lavoratori, che non sono stati richiamati a lavoro. Se non riparte il settore sono a rischio anche gli stagionali della Pasqua. Il pericolo più grave però sono <strong>le chiusure definitive nel breve termine</strong>, soprattutto per le piccole e medie imprese, che <strong>potrebbero lasciare a casa almeno 4.000 dipendenti</strong>”.</p>
<p>Problemi verso i quali il Governo non starebbe facendo abbastanza per l’associazione confindustriale. Come sottolineato da Confalonieri, “<strong>nel 2020 il Governo aveva riconosciuto le aziende</strong> come parte della filiera, e quindi danneggiate dal COVID-19. <strong>Oggi sono state escluse senza nessuna ragione dagli ultimi ristori </strong>previsti per il settore. Le richieste di Assosistema sono di riconoscere la nostra centralità, e soprattutto di considerarci come le aziende energivore, al fine di garantire una <strong>riduzione </strong>della<strong> componente elettrica </strong>e del<strong> gas </strong>che stiamo pagando. Non è solo la manifattura in Italia che manda avanti il Paese, sono centrali anche le aziende dei servizi”.</p>
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<h2 id="h-i-prezzi-aumentano-fino-al-21-confalonieri-scelta-obbligata-anche-per-concorrenza-sleale">I prezzi aumentano fino al 21%. Confalonieri: “Scelta obbligata anche per concorrenza sleale”</h2>
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<p>A questa situazione di crisi le aziende hanno iniziato a rispondere con <strong>un aumento progressivo dei prezzi</strong>: “Già da diversi anni, a causa di un mancato adeguamento dei contratti, il settore aveva progressivamente perso di marginalità. Oggi, con la pandemia e gli aumenti delle materie prime, siamo arrivati a produrre sottocosto. Per far fronte a questo, le lavanderie hanno adeguato i loro prezzi di<strong> noleggio e sanificazione della biancheria</strong>, <strong>aumentandoli</strong> <strong>dal 15 al 21%</strong> a seconda delle diverse situazioni delle singole imprese”.</p>
<p>Secondo Assosistema, per le aziende si tratta di una <strong>scelta obbligata</strong> per sostenere i costi e continuare a lavorare secondo le regole, necessarie per il rispetto degli standard di igiene del servizio, per la tutela dell’ecosostenibilità e l’applicazione dei contratti nazionali. Come testimoniato dal dott. Confalonieri, infatti, la <strong>concorrenza sleale </strong>e il mancato rispetto delle normative da parte di <strong>aziende che lavorano al margine del settore</strong> erano già presenti anche prima di questo momento di crisi: “Aziende che, per fare prezzi bassi, non offrono nessuna certificazione o garanzia igienica, sia per le strutture che per i clienti finali, che non hanno depuratori o che ricorrono a cooperative al posto di assumere il personale secondo i contratti nazionali previsti”.</p>
<p>Una concorrenza che, in questo momento di crisi, rischia di pesare di più sulle aziende che sostengono costi più alti lavorando nel rispetto di norme e certificazioni.</p>
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<h2 id="h-il-parere-delle-aziende-la-guerra-ha-lavato-via-le-speranze-di-ripresa">Il parere delle aziende: la guerra ha lavato via le speranze di ripresa</h2>
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<p>Di fronte a questa difficile situazione, cosa ne pensano le lavanderie del comparto?</p>
<p>Per <strong>Federico Bini</strong>, Amministratore Unico del Gruppo Lavanderie Bini di Bagno a Ripoli (prima periferia di Firenze), la guerra in corso in Ucraina è arrivata come un duro colpo, dopo le altre complessità vissute negli ultimi due anni: “<strong>L’anno scorso abbiamo perso l’80/85% del lavoro</strong>, poi da gennaio iniziavamo a vedere la luce dopo il COVID-19, e invece ora con l’aumento dei costi e la guerra e<strong> si arresta nuovamente tutto</strong>. Stiamo facendo tanta fatica, qui a Firenze le lavanderie sono strettamente legate al turismo, va un po’ meglio in quelle città in cui c’è un flusso legato agli affari. Per ora gli alberghi confermano i numeri delle prenotazioni future, però è evidente che il conflitto avrà degli impatti non solo sul<strong> turismo proveniente dalla Russia</strong>, ma su chi, provenendo da altri continenti, <strong>deciderà di non venire in Europa</strong>. Nel frattempo abbiamo anche<strong> perso circa il 15% del personale durante il periodo di cassa integrazione</strong>, che ha scelto giustamente di ricollocarsi. Per noi ha significato perdere una professionalità che, qualora dovessero aumentare nuovamente i carichi di lavoro, non sarà più disponibile”.</p>
<p>È intervenuto poi il <strong>titolare di una storica lavanderia romana</strong>, che ha chiesto di restare anonimo, per cui quello dei costi oggi resta il primo dei problemi. “<strong>Per noi</strong> <strong>è aumentato tutto</strong>, e il primo costo è ovviamente quello dell’energia che usiamo per lavorare. Poi ci sono i materiali, a cui si somma la gestione logistica del servizio: dalla benzina per i furgoni all’acquisto dei mezzi stessi. Oggi ci stiamo trovando a pagare 40.000 euro lo stesso modello di furgone acquistato a 24.000 euro nel 2019. Anche se la domanda dovesse tornare normale, ciò che non potremo mai recuperare è<strong> la marginalità</strong>. Va fatto un intervento serio sulla regolamentazione del mercato e su concorrenza e rapporti tra lavanderie. Su comportamenti quali il pagamento a lungo termine dei fornitori, l’uso di manodopera a basso costo, le continue chiusure e riaperture di S.r.l. Servono controlli e tutele”.</p>
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Lavanderie industriali, più sporco non si può: dopo la guerra il Governo nega i ristori

Il parere di Aldo Confalonieri, presidente sezione Turismo di Assosistema Confindustria, e di due imprenditori: &#8220;Ripresa spezzata dalla guerra: aziende costrette ad alzare i prezzi, rischiano 4.000 lavoratori. Il Governo aveva dato aiuti nel 2020, oggi ignora le stesse imprese&#8221;.

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Quanto guadagnano gli italiani, e come? È ancora vero che il lavoro dà il pane? Gli scenari retributivi del Paese a confronto con il resto d'Europa.

Numero 109 - Stipendi d'Italia


<p>Altro che regno dei cieli. Il capolavoro di Elio Petri, <strong><em>La classe operaia va in paradiso</em></strong>(1971), alla luce di quanto è accaduto in mezzo secolo di storia italiana, sembra un reperto archeologico di un’altra epoca, storia di altri pianeti. <strong>Quella classe operaia non esiste più</strong>. E negli anni successivi il paradiso si è trasformato in un girone dell’inferno abitato da disoccupati, da salariati pagati pochi euro (vedi i rider o i lavoratori in agricoltura), dai lavoratori a tempo determinato, quando va bene, o peggio da lavoratori stagionali che lavorano a prestazione occasionale. Insomma una <strong>frantumazione sociale</strong>, così bene analizzata dagli studi di Aldo Bonomi, di cui solo oggi vediamo le conseguenze.</p>



<p>Di pari passo alla “scomparsa” dell’operaio-massa dell’epoca del taylorismo <strong>è venuta meno la centralità della grande fabbrica</strong>, centro di gravità permanente della struttura produttiva italiana fino agli anni Ottanta e centro di contrattazione del salario <em>erga omnes</em>, e delle condizioni di lavoro. Il <strong>salario</strong> non è più la variabile indipendente, ma diventa una rarità. Come ci spiegherà il segretario della Camera del Lavoro di Milano, <strong>Massimo Bonini</strong>: “A Milano sono più i contratti a termine che quelli a tempo indeterminato. Questi ultimi hanno subito un crollo negli ultimi anni”.</p>



<p><strong>Il lavoro fisso tende a scomparire</strong>, e con esso il <strong>salario per una vita</strong>.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/bruno-p.jpg"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/bruno-p-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-48849" width="843" height="562" /></a><figcaption><strong>Massimo Bonini</strong>, il segretario della Camera del Lavoro di Milano, </figcaption></figure>



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<h2 id="h-il-fenomeno-del-lavoro-povero">Il fenomeno del lavoro povero</h2>



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<p>Quell’equilibrio che è stato alla base della struttura produttiva italiana del Novecento fino agli anni Ottanta sì è rotto quando, soprattutto al Nord, è iniziato <strong>uno dei più massicci processi di deindustrializzazione europei</strong>, che ha portato alla scomparsa di giganti produttivi nei settori chiave dell’economia. Osserva <strong>Marco Revelli</strong>, professore di economia e studioso dei processi produttivi in Italia: “Vi è un dato che spesso viene sottovalutato a proposito del declino del capitalismo del Nord: i grandi processi di deindustrializzazione, che colpiscono soprattutto la Lombardia, creano una cesura insanabile con il territorio. Il tessuto di piccole e medie imprese, che dava linfa vitale alla grande impresa ma anche al territorio, o scompare o diventa più friabile, e comunque senza un punto di riferimento. Così avviene per la FIAT e così avviene in Lombardia, dove la deindustrializzazione è massiccia e <strong>la terziarizzazione non è riuscita a compensare gli effetti del declino industriale</strong>”.</p>



<p>È proprio da quest’ultima considerazione del professor Revelli che bisognerebbe ragionare per capire <strong>dove ha origine la</strong> <strong>frammentazione sociale e salariale</strong> che caratterizza il mercato del lavoro della nostra epoca. Se a questo si aggiunge la crisi industriale e finanziaria del 2008 e la crisi causata dalla pandemia, si può avere un quadro piuttosto drammatico del mercato del lavoro in Italia. Un mercato talmente frammentato che mette in crisi la stessa capacità dei sindacati di contrattare i livelli salariali, già bassi rispetto alla media europea.</p>



<p>La novità degli ultimi anni è che gli argini si sono rotti e la povertà invade anche l’area del lavoro dipendente. Non si tratta più e soltanto della proletarizzazione dei ceti medi, ma dell’<strong>impoverimento del proletariato</strong>. I dati Eurostat del 2019 ci dicono che la piaga del <strong>lavoro povero</strong> riguarda l’<strong>11% dei lavoratori</strong>. In sostanza oltre un lavoratore su dieci, pur percependo un reddito, è in una condizione di povertà, ovvero vive in una famiglia con un reddito netto inferiore al 60% rispetto alla media europea.</p>



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<h2 id="h-dietro-milano-c-e-anche-la-poverta-salario-minimo-per-combattere-il-lavoro-povero-ma-con-criterio">“Dietro Milano c’è anche la povertà. Salario minimo per combattere il lavoro povero, ma con criterio”</h2>



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<p>La percentuale dei lavoratori poveri è cresciuta in modo consistente dal 2012, quando era all&#8217;8,7%, fino al 2017, quando era al 12,2%, per poi scendere nel 2019 all&#8217;11,8%, ma il dato probabilmente con la pandemia è peggiorato. La Commissione ministeriale costituita da Orlando sottolinea che <strong>bisogna incidere sulle ragioni per le quali si ha un reddito basso</strong>, che non sono solo legate alla bassa retribuzione oraria, ma anche alla <strong>durata del lavoro</strong> (quante ore si lavora durante la settimana, quante settimane nell&#8217;anno) spesso precario, al part time involontario e alle scarse competenze sulle quali agire con la formazione. Ma bisogna guardare anche alla <strong>composizione famigliare</strong> (e in particolare a quante persone percepiscono un reddito all&#8217;interno del nucleo) e al <strong>ruolo redistributivo dello Stato</strong>.</p>



<p>“Una strategia di lotta alla povertà lavorativa – afferma la Commissione – richiede quindi una molteplicità di strumenti per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito, e assicurare un sistema redistributivo ben mirato”. Per garantire minimi salariali adeguati, secondo gli esperti, bisogna <strong>estendere i contratti collettivi principali a tutti i lavoratori </strong>oppure <strong>introdurre un salario minimo per legge</strong>.</p>



<p>“Il fenomeno del lavoro povero – spiega Massimo Bonini – esiste da tempo ed è una tendenza in crescita dovuta a una <strong>terziarizzazione spinta</strong> che ha come ultimo fenomeno quello dei rider. Come sosteneva lei, i processi di deindustrializzazione hanno molto influito su questo fenomeno e oggi ci troviamo ad affrontare la povertà anche per coloro che un reddito ce l’hanno. È bene che si sappia quindi che <strong>dietro la vetrina scintillante di Milano c’è anche la povertà</strong>. Un esempio? Uno studio del PIM del 2019 sosteneva che per pagare un affitto, che in genere copre un terzo del reddito, sarebbero necessari 29.000 euro l’anno. A Milano in media siamo sotto i 26.000 euro.”</p>



<p>Dunque il <strong>salario minimo</strong> sarebbe una delle strade possibili per tamponare la povertà, assieme al <strong>Reddito di Cittadinanza</strong>. “Sul Reddito di Cittadinanza noi siamo molto critici per come è stato costruito. Ma anche sul salario minimo bisognerebbe fare un po’ di chiarezza. Per la CGIL il salario minimo è rappresentato dai minimi contrattuali. Certo, ci sono sacche del mercato del lavoro, come quella dei rider o dei lavoratori in agricoltura, dove il salario minimo sarebbe importante, visti i livelli salariali di questi settori. Ma questo non deve essere una scorciatoia da parte delle imprese per evitare la contrattualizzazione del lavoro. Il caso dei rider è emblematico, quello è un lavoro subordinato a tutti gli effetti e quindi va regolarizzato”.</p>



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Povero lavoro. O lavoro povero?


<p>Monetizzare o prevenire, questo è il dilemma. In particolare quando si discute sul <strong>rischio biologico</strong>, tornato prepotentemente di moda dall’arrivo del COVID-19. L’ultima attualità di queste settimane, in ordine di tempo, è la battaglia dell’<strong>Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori</strong>, che appunto, in tempo di pandemia ritiene superato il livello di guardia, con il personale scolastico sottoposto a forte stress e all’eventualità non così remota di rientrare nel conteggio quotidiano dei positivi. Motivazioni, sembra, più che sufficienti per chiedere a gran voce l’introduzione nel comparto scuola di una specifica <strong>indennità</strong> per il rischio biologico.</p>



<p>Come ribadito dalla stessa ANIEF, attraverso il proprio ufficio stampa, che conferma le parole del presidente <strong>Marcello Pacifico</strong>: “Lavorare ogni giorno in spazi ristretti, con un altissimo numero di alunni, con alti rischi di incorrere in virus come il COVID, ma anche in patologie legate allo stress derivante proprio dalle difficili condizioni professionali, comporta l’assegnazione dell’indennità”.</p>



<p>Un diritto, a detta del sindacato, negato contro ogni buon senso, e che ancora, nonostante la mediazione e gli incontri con il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, non vede all’orizzonte la tanto agognata fumata bianca. Così anche il mondo dell’istruzione rimane per il momento a bocca asciutta, e non è l’unico settore, bisogna sottolinearlo. Inoltre, aspetto tutt’altro che irrilevante, non sono in molti a chiedersi perché, considerato che il tema, se togliamo gli ultimi due anni, è poco conosciuto e ancor meno dibattuto.</p>



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<h2 id="h-anief-e-l-indennita-da-rischio-biologico-per-gli-insegnanti-torto-o-ragione">ANIEF e l’indennità da rischio biologico per gli insegnanti. Torto o ragione?</h2>



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<p>Di che cosa stiamo parlando? È il <strong>decreto legislativo 81 del 2008</strong>, testo unico sulla salute e sicurezza, a disciplinare questa tipologia di rischio, per le attività lavorative a contatto con agenti biologici, microrganismi o colture cellulari in grado di provocare danno all’essere umano. Quattro i gruppi di classificazione del pericolo, che spaziano da una bassa probabilità di causare malattie alla minaccia elevata per l’incolumità dei lavoratori.</p>



<p>Attraverso il Titolo X del testo quindi si entra nel dettaglio della materia, con il legislatore che sancisce una <strong>serie di obblighi per il datore di lavoro</strong>, tra cui l’adozione di tutte le misure igieniche, l’informazione e la formazione ai lavoratori, l’istituzione di registri degli esposti e, aspetto fondamentale, la valutazione del rischio, per valutare l’eventualità che si verifichino eventi potenzialmente dannosi nelle circostanze di utilizzo degli agenti biologici.</p>



<p>Comunque, per onore di cronaca, è opportuno sottolineare che il decreto elenca in modo piuttosto dettagliato le attività lavorative che possono comportare la presenza di agenti biologici. <strong>Nella lista in effetti non ci sono gli istituti scolastici</strong>; non mancano invece le industrie alimentari, l’agricoltura, i servizi sanitari, gli impianti di smaltimento rifiuti e quelli per la depurazione delle acque di scarico. Ma quanti di questi annoverano <strong>nei contratti nazionali di riferimento un’indennità specifica</strong> per i ruoli seriamente esposti?</p>



<p>La ricerca tra l’infinita selva di contratti nazionali e integrativi di secondo livello è eufemisticamente complessa e tende a non produrre risultati confortanti circa la presenza di risarcimenti per il rischio biologico. Tra le verifiche sugli accordi analizzati, l’unica certezza si trova sul <strong>CCNL del settore sanitario</strong>, soprattutto per quel che riguarda il ruolo degli infermieri, anche se l’applicazione dipende dalle scelte delle singole direzioni sanitarie. Per esempio, l’inserimento della voce in busta paga può dipendere dai singoli reparti; nella fattispecie spesso si trova per chi presta servizio al pronto soccorso, in rianimazione o nelle malattie infettive, mentre difficilmente viene corrisposta, per ovvi motivi, in ortopedia. D’altro canto è doveroso sottolineare che la sanità ha portato a termine nel tempo un lungo percorso specifico sul tema, a maggior ragione per l’importante livello di rischio riscontrabile negli ospedali e nei luoghi di cura.</p>



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<h2 id="h-il-vero-obiettivo-e-la-prevenzione-non-il-risarcimento-il-caso-del-settore-sanitario">Il vero obiettivo è la prevenzione, non il risarcimento: il caso del settore sanitario</h2>



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<p><strong>In molti contratti, al contrario, non compare nulla</strong>, e la motivazione è forse legata alle corrette modalità di <strong>inquadramento dell’argomento</strong>. Siamo sicuri che un’indennità di rischio biologico e la correlata quantificazione del pericolo conseguente sia la strada migliore per affrontare il tema? Perché se nel settore sanitario, per quanta prevenzione si riesca a implementare, il rischio è nei fatti non del tutto eliminabile, nelle altre tipologie contrattuali mettere nero su bianco cifre per indennizzare la possibilità di ammalarsi sui luoghi di lavoro non sembra una soluzione ottimale e in linea con gli argomenti cardine di oggi: etica, sostenibilità, salute e sicurezza.</p>



<p>Per rimanere negli ambienti ospedalieri, prendiamo come esempio i radiologi. Il ragionamento da un lato si sofferma sulla necessità di monetizzare il rischio, ma il vero obiettivo rimane garantire adeguati livelli di prevenzione e sicurezza, al fine di ridurre al minimo l’incidenza infortunistica e di malattie professionali. Quella è la via da percorrere, attraverso strumenti mirati. Ecco perché i metalmeccanici, per citare il CCNL più famoso, nei tavoli di contrattazione e trattativa sindacale in linea generale lavorano sempre sugli <strong>aspetti preventivi </strong>e non sulle indennità.</p>



<p>“Da decenni il sindacato confederale non persegue la politica contrattuale dello scambio tra salario e salute. Quello che posso dire è che per parte sindacale lavoriamo quotidianamente e con uno sforzo collettivo enorme per <strong>incrementare i livelli di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro</strong>”, spiega <strong>Ivano Ventimiglia</strong>, del dipartimento Ambiente e Sicurezza CGIL Varese. “Aggiungo che in questa direzione uno sforzo enorme è sostenuto ogni giorno anche dai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e dalle rappresentanze sindacali interne, eletti dai lavoratori. Nonostante questo, i dati a disposizione dicono che rimane ancora molto da fare e buona parte di questo impegno è <strong>a carico delle aziende</strong>, perché l’organizzazione del lavoro nella prevenzione ha un ruolo centrale, e perché, bisogna ribadirlo con forza, lo prevede proprio il decreto 81/08”.</p>



<p>Decreto che, in effetti, sottoscrive l’importanza del <strong>coinvolgimento degli RLS sugli aspetti di prevenzione</strong>. “Importanza troppo spesso disattesa in molte aziende. È opportuno che ci sia sinergia e massimo coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori negli aspetti di sicurezza e prevenzione, anche sul tema del rischio biologico”.</p>



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<h2 id="h-se-la-salute-vale-piu-di-qualsiasi-indennita">Se la salute vale più di qualsiasi indennità</h2>



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<p>Affermazioni da sottoscrivere, anche se i due anni di pandemia hanno già evidenziato una buona collaborazione tra Governo, single sindacali e associazioni datoriali, culminato con passaggi importanti come il celebrato <strong>protocollo nazionale del 14 marzo 2020</strong> – aggiornato il 6 aprile 2021 – sulla <strong>prevenzione e protezione dal COVID-19 negli ambienti di lavoro</strong>.</p>



<p>Quindi, per quanto interessante sia la battaglia di ANIEF per il riconoscimento dell’indennità nel comparto scuola, la strada da percorrere indicata da tutti gli attori coinvolti non è quella della quantificazione monetaria del rischio. D’altro canto il concetto stesso di indennità prevede una corresponsione in busta paga a fronte dell’esposizione al rischio, ma se il lavoratore si ammala si tratta di un intervento senza valore effettivo sulla qualità della vita.</p>



<p>Si pensi al caso Eternit, ad esempio. Nella fattispecie chi ha lavorato l’amianto, a posteriori, ha ottenuto un indennizzo, ed è doveroso che ci sia un ampio riconoscimento del danno per tutte le persone coinvolte. Ma l’obiettivo, in tutto il mondo del lavoro, dovrebbe essere rivolto a evitare casi di questa pericolosità. Ecco perché molti CCNL rivolgono lo sguardo su attività diverse, e il metalmeccanico ancora una volta funge da apripista attraverso l’inserimento di esigenze formative per rafforzare la consapevolezza su prevenzione e sicurezza, e consolidare, se possibile, l’applicazione del testo unico.</p>



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<p><em>Foto di copertina di Dom Fou su Unsplash</em></p>


Indennità non vuol dire sicurezza. Gli insegnanti e il rischio biologico

<p>Lo <strong>store manager</strong> sembra destinato a diventare sempre più un titolo onorifico generico, e sempre meno il giusto riconoscimento di una precisa professionalità all’interno dei negozi. Quello che sindacati e lavoratori lamentano è che non basta certo un titolo a compensare il lavoro.</p>
<p>In effetti non è facile riassumere quali siano compiti e responsabilità di uno <strong>store manager nei negozi di abbigliamento</strong>. Si spazia dalla supervisione e gestione di vendite e personale di un negozio (orientandole agli obiettivi commerciali) sino all’organizzazione del magazzino o del marketing. Il tutto passando per il rapporto con i fornitori o la pianificazione di orari e ferie.</p>
<p>In aggiunta a queste mansioni principali, tuttavia, i compiti che gli spettano sono spesso ben più ampi, perché deve <strong>far fronte in prima persona alle normali problematiche della vita di un negozio</strong>. E così, ad esempio, di fronte alla mancanza di personale o nei periodi di maggiore afflusso quali le festività, lo store manager diventa anche un addetto alle vendite (tornando a fare quello che in molti casi è stato il suo primo lavoro). Una pluralità di impegni e responsabilità a cui tuttavia non sempre spetta il <strong>giusto inquadramento contrattuale</strong> e la <strong>giusta retribuzione</strong>.</p>
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<h2 id="h-alessandro-martignetti-fisascat-cisl-store-manager-al-lavoro-anche-piu-di-12-ore-al-giorno">Alessandro Martignetti, FISASCAT CISL: “Store manager al lavoro anche più di 12 ore al giorno”</h2>
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<p>“Dal punto di vista contrattuale queste figure sono generalmente inquadrate al <strong>secondo livello del CCNL del Commercio</strong>, con una retribuzione mensile lorda di poco più di 2.000 euro, per un totale di <strong>1.500 euro netti</strong>. Anche nel caso di alcune grandi catene dell’abbigliamento, che fanno riferimento ai contratti della grande distribuzione, non c’è una grande differenza sul piano retributivo”, spiega <strong>Alessandro Martignetti</strong>, segretario FISASCAT CISL Emilia Centrale.</p>
<p>Al di là delle previsioni contrattuali nazionali, tuttavia, possono essere stabilite delle <strong>variazioni all’interno delle contrattazioni individuali</strong>, rispetto sia alle mansioni che fanno riferimento a questa figura che alla flessibilità oraria.</p>
<p>“Spesso si chiede a questi lavoratori una <strong>forte flessibilità</strong>, con un numero di ore che va ben oltre le previsioni contrattuali di un full time. Negli anni abbiamo seguito diverse situazioni di store manager che facevano <strong>più di 12 ore al giorno</strong>: da prima dell’apertura del negozio sino a dopo la chiusura”, racconta Martignetti. Con lo straordinario subentra infatti una delle variabili principali sul totale dello stipendio: “È difficile dare una cifra, anche perché in genere le aziende prospettano uno <strong>straordinario forfettizzato</strong>, soprattutto quando le ore sono molte”.</p>
<p>Un’altra via percorsa, soprattutto dalle catene più grandi, è quella di prevedere un <strong>recupero ore</strong>, oppure di <strong>riconoscere gratifiche</strong>,<strong> premi o ferie</strong>, mentre per le aziende meno strutturate la strada sembra ancora quella del normale riconoscimento dello straordinario prevista dal contratto nazionale.</p>
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<h2 id="h-gli-store-manager-spinti-dalle-aziende-al-conflitto-con-i-colleghi">Gli store manager spinti dalle aziende al conflitto con i colleghi</h2>
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<p>Oltre agli orari, tra le <strong>difficoltà principali</strong> che questa figura lavorativa incontra, rientrano anche <strong>mansioni non previste dal contratto</strong>: “Questi soggetti spesso vengono usati come jolly”, continua Martignetti, “o in mansioni addirittura al di sotto del loro livello di inquadramento, venendo utilizzati secondo il bisogno. Un altro problema che riscontriamo come sindacato rispetto a questa figura è anche la <strong>conflittualità con i colleghi</strong>: avere rapporti al di fuori delle righe è quasi un automatismo per quelli che operano all’interno delle grandi catene. Queste persone sono continuamente messe sotto pressione, soprattutto perché dalla direzione arrivano degli input in termini di produttività che a volte destabilizzano questi lavoratori, che a loro volta si trovano a chiedere oltre le possibilità dei loro sottoposti”.</p>
<p>Il sindacato evidenzia di raccogliere con frequenza <strong>lamentele da parte dei livelli più bassi</strong> verso queste figure, soprattutto rispetto a temi quali la gestione delle ferie o l’organizzazione del lavoro.</p>
<p>“È una delle problematiche che ci evidenziano gli stessi store manager: <strong>ricevono delle direttive da parte dell’azienda</strong> rispetto a come gestire il personale ai fini dei rendimenti del negozio, e ci chiedono quanto le debbano rispettare. Noi spieghiamo loro che comunque hanno delle regole contrattuali a cui devono attenersi, e non possono non concedere ferie o permessi a piacimento dell’azienda, in un’ottica di miglioramento della produttività. Loro magari a volte non lo sanno.”</p>
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<h2 id="h-chiara-ferrari-filcams-cgil-le-catene-di-abbigliamento-giovani-responsabili-della-crisi-degli-store-manager">Chiara Ferrari, FILCAMS CGIL: “Le catene di abbigliamento giovani responsabili della crisi degli store manager”</h2>
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<p>Secondo<strong> Chiara Ferrari</strong>, della segreteria regionale FILCAMS CGIL Emilia-Romagna, si è creata una stortura nel sistema per cui, nonostante lo store manager dovrebbe essere inquadrato come un <strong>primo livello</strong> (2.200 euro circa lordi al mese),ciò che accade è che invece questa figura venga <strong>assunta come un secondo livello</strong>, con una differenza base di 200 euro mensili nella retribuzione, a cui si aggiungono anche altre complessità.</p>
<p>“Sono soprattutto le <strong>catene di abbigliamento giovani</strong> (rivolte a un pubblico di giovani e giovanissimi) che con le loro scelte contrattuali hanno viziato questa situazione, creando una vera e propria <strong>crisi della figura dello store manager </strong>e del suo<strong> rapporto con la direzione aziendale</strong>. I grandi marchi hanno fatto sì che questa figura esistesse solo sulla carta, facendole perdere la sua identità. Non danno responsabilità imprenditoriale, non offrono allo store manager la possibilità di decidere nulla di quel negozio (l’esposizione della merce, gli sconti, le integrazioni di premi o stipendi), se non la gestione delle ore del personale, spingendoli a lavorare e a far lavorare oltre l’orario, ai fini della produttività del negozio.”</p>
<p>Le catene motivano la scelta di non dare l’inquadramento di primo livello soprattutto perché i loro negozi non sono articolati con più livelli di responsabilità. A causa dell’<strong>assenza nel negozio della figura di responsabili di reparto o di settore</strong>, che andrebbero inquadrati al secondo livello, non è giustificata la necessità di coordinamento da parte di uno store manager al livello superiore.</p>
<p>“Sono poche le catene che hanno una suddivisione in reparti. Tra queste ad esempio Zara, che prevede di conseguenza differenze salariali in base ai diversi fatturati dei reparti”, precisa Ferrari. &nbsp;“Secondo le spiegazioni date da queste aziende, quando ci rivolgiamo loro per chiedere il giusto inquadramento contrattuale, <strong>lo store manager viene definito tale più per riconoscergli la credibilità negli ambienti di lavoro</strong>. Per le aziende, mancando i capireparto, e dato che le direttive organizzative principali vengono mandate dalla casa madre e le responsabilità sono assunte da altri, la responsabilità dello store manager è intermedia”.</p>
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<h2 id="h-i-veri-store-manager-sopravvivono-nei-marchi-storici-le-differenze">I veri store manager sopravvivono nei marchi storici: le differenze</h2>
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<p>La situazione, per Ferrari, caratterizza determinate grandi catene di abbigliamento, mentre nei <strong>marchi storicamente presenti in Italia</strong> è più facile trovare il <strong>giusto inquadramento contrattuale</strong> del lavoratore. Una differenza dovuta anche all’<strong>età</strong> e all’<strong>esperienza</strong> dei lavoratori: “Nelle aziende storicamente presenti in Italia (<em>e che si rivolgono a un pubblico più adulto, N.d.R.</em>), c’è un’età media degli store manager di circa cinquant’anni, mentre nelle grandi catene per i giovani l’età media degli store manager è fra i trenta e i quaranta”.</p>
<p>Nel primo caso si tratta per Ferrari di persone più ancorate alla nascita di questa figura professionale, che rappresenta la responsabilità e la direzione aziendale nel punto vendita. Si tratta di store manager che hanno acquisito il loro ruolo in anni in cui il settore era in espansione, e i lavoratori erano più consapevoli dei loro diritti. “Le <strong>figure con maggiore esperienza</strong>, che lavorano in catene che storicamente applicano correttamente il CCNL, <strong>conoscono i loro diritti in orario di lavoro</strong>, hanno spesso superminimi o comunque contrattazioni di secondo livello che gestiscono la flessibilità oraria”.</p>
<p>Nel secondo caso invece questo non avviene. “Si gioca molto sul senso di appartenenza, di collegamento all’azienda. Si tratta di persone che sono entrate in azienda spesso come primo lavoro e lì sono cresciute; non conoscono altro. Oltre a uno stipendio basso di per sé, non c’è più un confine chiaro tra tempo privato e tempo di lavoro. Spesso queste persone usano il loro cellulare personale, e gestiscono WhatsApp e chat di negozio sempre su numeri personali. Si stanno perdendo le dinamiche corrette, e in generale in questo ambiente c’è stato un <strong>appiattimento delle competenze</strong>, a cui è corrisposto un<strong> appiattimento delle retribuzioni</strong>”.</p>
<p>Se da un lato quindi calano le responsabilità dirette in capo a questi soggetti, non sembrano però calare in proporzione lo <strong>stress</strong>, <strong>l’impegno orario </strong>e le possibili <strong>conflittualità legate alla gestione del personale</strong>. Il tutto all’interno di un inquadramento contrattuale che, in base alle osservazioni del sindacato e dei lavoratori, non sembra essere la giusta contropartita per lo sforzo richiesto.</p>
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L&#8217;abito non fa lo store manager

Le catene di abbigliamento per giovani hanno aperto la crisi (e la corsa allo sfruttamento) del ruolo di store manager, bistrattato dai superiori e in conflitto con i colleghi. Ne parliamo con Alessandro Martignetti di FISASCAT CISL e Chiara Ferrari di FILCAMS CGIL.

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https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/store-Michela-De-Biasio.jpg


<p>Da oggi scatta una nuova <strong>regola</strong>.</p>



<p>La chiamo così poiché, non avendo fatto studi di giurisprudenza, mi sono dovuto informare molto prima di evitare di scrivere qualcosa che fosse solo un&#8217;opinione e fra gli articoli di giornale (al momento relativi solo agli adempimenti richiesti) e qualche abbrutente intervista televisiva del primo mattino, ho trovato di grande supporto il post su Linkedin segnalatomi da un nostro lettore, ad opera di un avvocato di Bologna non collegato a siti negazionisti o a gruppi NoVax. Ci tengo a precisarlo per i retropensieristi e mi scuso per coloro che come me odiano le &#8220;premesse necessarie&#8221;.</p>



<h2 id="h-semplicemente-un-avvocato">Semplicemente Un Avvocato</h2>



<p><a href="https://www.linkedin.com/feed/update/urn:li:activity:6899287571021844480/">Il post è firmato da un avvocato</a> laureato all&#8217;Università di Parma con 110 e lode, un corso di perfezionamento in diritto delle nuove tecnologie all&#8217;Alma Mater di Bologna, collaboratore presso la stessa Università all&#8217;interno del Centro interdipartimentale in informatica giuridica, diritto alla privacy e protezione dei dati personali e, sullo stesso tema e sempre all&#8217;Alma Laurea, ha conseguito un dottorato di ricerca prima di diventare assegnista di ricerca. Oggi partner di uno studio associato bolognese. </p>



<p>A scanso di (inutili) polemiche.</p>



<p> </p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Schermata-2022-02-15-alle-15.39.14.png"><img width="1024" height="462" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Schermata-2022-02-15-alle-15.39.14-1024x462.png" alt="" class="wp-image-48697" /></a></figure>



<p>Sul suo profilo Linkedin <strong>l&#8217;avvocato Pelino</strong> ha pubblicato un esposto al Garante per la protezione dei dati personali (lo si può scaricare), in collaborazione con altri 24 colleghi appartenenti ai Fori di tutta Italia da Milano a Catania. Nelle sei pagine, scritte molto chiaramente anche per chi come me non pratica &#8211; anzi rifugge &#8211; il legalese, ci sono tre passaggi &#8211; fra i tanti &#8211; che mi hanno colpito. </p>



<p>Il primo riguarda il (cito:) &#8220;<em>generale clima di smarrimento e confusione ed una pericolosa frattura nelle relazioni fra i cittadini stessi, minando seriamente le basi costituzionali per la promozione della pacifica ed armoniosa convivenza civile</em>&#8220;. </p>



<p>Nella formazione di squadre di controllori e controllati, <strong>il Governo di fatto si esenta da responsabilità dirette</strong> e genera incomprensioni e libere interpretazioni del concetto di &#8220;legalità&#8221;. </p>



<h2 id="la-frattura-sociale-non-e-una-questione-di-vaccini-ma-di-informazione">La frattura sociale non è una questione di vaccini, ma di informazione</h2>



<p>Se non ho mai voluto affrontare sui social un tema così divisivo come quello dei vaccini, e fra l&#8217;altro su una piattaforma che si presta di più a sputare sentenze all&#8217;indirizzo di perfetti sconosciuti che non alla condivisione di competenze più millantate che reali, il <strong>tema della frattura sociale</strong> è invece a me molto caro e ho avuto modo di parlarne tantissime volte sia su questo giornale che nei miei interventi su Linkedin. Sono davvero colpito che qualcuno abbia pensato di inserirlo all&#8217;interno di un contesto legale. Nell&#8217;esposto si condannano duramente alcune dichiarazioni di Ministri fortemente divisive e cariche d&#8217;odio.</p>



<p><strong>Il secondo tema riguarda l&#8217;effetto della pandemia sui ragazzi</strong>, su quello che hanno significato per la crescita fisica, psichica, affettiva e culturale due anni di restrizioni e ancora oggi discriminati e tenuti lontani da attività che dovrebbero essere considerate prioritarie, necessarie per non dire obbligatorie, in un Paese che ha a cuore il suo futuro. Abbiamo avviato la scorsa settimana su SenzaFiltro un filone di articoli dedicati proprio a questo.</p>



<p><strong>Il terzo tema è quello più importante, perché mi ha insegnato anche qualcosa che non sapevo</strong>. In pratica l&#8217;applicazione della legge sull&#8217;obbligo del green pass manca di tre fattori fondamentali affinchè possa trovare legittimità: <strong>il nesso causale</strong> (la mancanza di una causa reale che determini una condizione di &#8220;maggior salute&#8221; o anche solo &#8220;minor pericolo&#8221; rappresentato da parte di chi è in possesso di green pass); <strong>la necessità</strong> (il green pass non è uno strumento di prevenzione o accertamento del contagio; nel caso lo sono la mascherina FPP, i disinfettanti, la distanza e il tampone); <strong>la proporzionalità</strong> (non c&#8217;è un equilibrio fra rischio e restrizione. In pratica, allo stato dell&#8217;arte della campagna vaccinale, questa misura è sproporzionata).</p>



<h2 id="gli-over-50-pagano-per-tutti-ma-il-prezzo-piu-caro-lo-paga-l-economia">Gli Over 50 pagano per tutti. Ma il prezzo più caro lo paga l&#8217;economia</h2>



<p>Sono partito da un supporto legale (dribblando volutamente tesi scientifiche di qualsiasi genere) per tendere una mano a tutti coloro che da oggi si ritrovano ai margini del lavoro. <strong>Un giornale che si occupa di cultura del lavoro, anche questa volta deve prendere una posizione</strong>: confidando nell&#8217;intelligenza e nella consapevolezza dei suoi lettori che abbandoneranno i pregiudizi, le motivazioni scientifiche personali, la propria visione politica per mettersi nei panni di colleghi, conoscenti, amici che stimano, che hanno sempre stimato, con cui hanno condiviso obiettivi professionali importanti e forse in alcuni casi ci hanno anche salvato il culo in situazioni difficili con capi e imprenditori e che da oggi non possono entrare in azienda.</p>



<p>Stiamo parlando di una fascia di età, quella degli Over 50, per la quale <strong>le politiche del lavoro (almeno da quando io lavoro) sono sempre state insufficienti</strong>, qualsiasi area politica fosse al Governo; persone che, se escluse dal mondo del lavoro a questa età, faranno una fatica immensa a ricollocarsi. E se ieri li escludevamo perché &#8220;costavano troppo&#8221;, sostituiti da giovanotti di belle speranze a cui si chiedeva a metà dello stipendio di ottenere gli stessi risultati di chi aveva 20 anni di esperienza con l&#8217;unico risultato di perdere competenze da una parte e allontanare i giovani dalle fabbriche e dalle imprese dall&#8217;altra, regalandoli all&#8217;inutile e inconsistente mondo startapparo, oggi li allontaniamo a causa di una scelta del tutto personale nel momento in cui il Paese ha raggiunto una soglia di <em>tranquillità percentuale</em> che nessun altro Paese, fra quelli che in Europa stanno abbandonando tutte le restrizioni, ha finora raggiunto.</p>



<p>Sembra che questi uomini e donne che rappresentano le memorie storiche delle loro aziende, quelli che senza dubbio più di qualsiasi 30enne hanno contribuito alla crescita dei loro titolari, quelli che hanno fatto le nottate per portare a termine una presentazione o per il settaggio dell&#8217;ultima macchina affinché all&#8217;indomani la produzione potesse ripartire, oggi non contino più niente. Uomini e donne che hanno accettato di rimanere fino all&#8217;ultimo, che l&#8217;inverno scorso continuavano ad andare al lavoro nonostante i loro padroni li avessero messi in cassa integrazione, quelli che non si sono tirati indietro quando la pandemia era nel suo momento più duro e senza vaccini, quando i Signori di Confindustria dichiaravano che &#8220;le aziende sono i luoghi più sicuri&#8221;.</p>



<p><strong>Sicurezza</strong> è stata la parola più abusata di questi due anni: nelle dichiarazioni &#8220;sicure&#8221; dei Ministri, nelle statistiche &#8220;sicure&#8221; dei Comitati Tecnici, nella &#8220;sicurezza&#8221; di una scienza tirata per la sottana a seconda delle convenienze, nei numeri &#8220;sicuri&#8221; e puntualmente smentiti di terapie intensive usate come spauracchio e che da oltre un anno non hanno mai raggiunto il 20% (<a href="https://www.agenas.gov.it/covid19/web/index.php">siete mai stati sul sito ufficiale dell&#8217;ISS</a>?)  </p>



<p>Ditelo sinceramente: vi sentite così <strong>sicuri</strong> nell&#8217;approvare questa regola?</p>



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Over 50: il lavoro non li ha mai voluti


<p>“Davanti a una minaccia esterna così imponente, il rischio è di concentrarsi in via esclusiva su acquisti e aspetti commerciali legati alle materie prime, tralasciando qualità e sicurezza sul lavoro”. Non utilizza mezzi termini <strong>Tonino Dominici</strong>, presidente di Boxmarche, azienda cartotecnica che progetta e realizza packaging personalizzato. E così il focus su questa drammatica <strong>crisi economica</strong> che ha investito tutto il <strong>mondo cartario e cartotecnico</strong>, esplosa nel 2021 e raccontata sempre attraverso freddi numeri e bilanci, si sposta sul binario più inatteso: il valore delle persone.</p>



<p>Impossibile quindi non partire dal caso più eclatante, la vicenda di <strong>Laila El Harim</strong>, <strong>operaia specializzata morta schiacciata</strong> in una fustellatrice dell’azienda cartotecnica modenese Bombonette Srl. Secondo il pubblico ministero il macchinario non aveva le protezioni statiche fisse attive, per motivi che sarebbero riconducibili a vantaggi di risparmio economico e tempi di lavorazione.</p>



<p>“Il punto è decisivo e dipende dalla <strong>statura culturale dell’imprenditore</strong>. Abbiamo la grande responsabilità di gestire le organizzazioni indipendentemente dai fattori esterni, soprattutto quando affrontiamo i punti cardine: persone, mercato, aziende. Con le risorse umane al primo posto in ordine di priorità”.</p>



<p>Forse è proprio la cultura che manca e che ci impedisce di evitare drammi di questa portata. “Se noi formiamo le persone dal punto di vista della crescita personale, professionale e culturale, queste ci aiutano a superare le difficoltà, anche grazie alla solidarietà interna. Sul caso specifico, per quanto mi riguarda, <strong>è</strong> <strong>un episodio incomprensibile</strong>. Tutte le macchine devono sempre essere a norma, non si possono trarre vantaggi dalle scorciatoie, a prescindere dalle difficoltà”.</p>



<p>Difficoltà che, inutile negarlo, hanno investito con forza dirompente tutta la filiera del settore cartario. Niente di nuovo visto che sono oltre vent’anni che si sente parlare di <strong>discesa libera per i comparti della carta</strong>, dalle grandi riconversioni delle linee di produzione, alla questione ambientale con l’incubo deforestazione, all’avvento del digitale, i mutui subprime e la depressione economica globale. Tutti fattori che hanno messo in discussione un mondo dato sempre con troppo anticipo per agonizzante.</p>



<p>La cronaca, al contrario, racconta di un’incredibile e camaleontica <strong>capacità di trasformazione</strong>, con gli impianti che, forti della battaglia alla plastica – nuovo nemico pubblico numero uno – rivivono sull’onda del riciclo e della sostenibilità. Producendo cosa? <strong>Carte alimentari</strong> e, soprattutto, <strong>materiale per imballi</strong>, cartone buono anche per la grande droga dei nostri tempi: il mercato online. Va da sé che le aziende sopravvissute ai terremoti degli ultimi decenni sono ancora in grado di offrire ai lavoratori rapporti di collaborazione piuttosto stabili.</p>



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<h2 id="h-crisi-della-carta-quanto-costava-e-quanto-costa">Crisi della carta, quanto costava e quanto costa</h2>



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<p>Quantomeno fino a oggi, quando l’onda lunga della pandemia ha prodotto in serie un <strong>aumento vertiginoso delle materie prime</strong> e, in particolare, <strong>dell’energia</strong>, cuore pulsante di ogni stabilimento cartario. Basta un dato per allarmare il mercato di questi impianti, per caratteristiche altamente energivori. Dal 2020 al 2021, appunto, l’energia è passata da un rapporto di <strong>38 euro per megawatt</strong> <strong>ora</strong> alla cifra record di <strong>125</strong>, con una previsione di ulteriore incremento a <strong>180</strong> per l’anno in corso.</p>



<p>Qual è quindi la <strong>differenza di costo</strong>, per una linea di macchina continua che produce <strong>carta</strong>? Dal punto di vista energetico si è passati da una media di <strong>66 euro a tonnellata </strong>al picco di <strong>179</strong>, con un aumento complessivo quasi triplicato. Stesso discorso in termini di picchi verticali per il gas, passato dagli 11 centesimi per standard metro cubo del 2020 ai 120 centesimi di fine 2021.</p>



<p>Non da meno l’analisi sulle <strong>materie prime</strong>, se pensiamo che incidono sulla produzione di una tonnellata di carta per circa <strong>480 euro</strong>, contro i <strong>340</strong> medi di un’ordinaria gestione. Un aggravio del 40%, che nell’intero settore, secondo i dati di Assocarta, tocca il 70% per la cellulosa in fibra corta, il 60% per la fibra lunga e il 15% nel consumo di carta da riciclo.</p>



<p>Infine il tema degli <strong>approvvigionamenti</strong>, con la logistica ingorgata e incapace di recuperare il tempo perso durante i mesi del lockdown. Il risultato è un imbuto per eccesso di ordini, che ha finito per classificare il tema con rincari per tonnellata prodotta superiori al 100%.</p>



<p>Se consideriamo che il prezzo della carta si aggira intorno ai <strong>650 euro a tonnellata</strong>, è facile dedurre che sommando tutti questi costi la domanda che molti gruppi si sono posti è stata: <strong>lavorare sottocosto, fermare gli impianti o alzare i prezzi?</strong> Per alcuni tipi carta gli aumenti hanno in effetti toccato quasi il tetto dei mille euro per tonnellata, incidendo non poco soprattutto sul mondo dell’editoria. Altri mercati hanno optato per fermate programmate, con conseguenti chiari di luna per i lavoratori. Alcune aziende, segnale fondamentale per i dipendenti, hanno lavorato di fatto in perdita, in particolar modo nell’ultimo quadrimestre 2021, con il picco degli aumenti in atto.</p>



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<h2 id="h-tonino-dominici-boxmarche-un-impennata-del-genere-mai-vista-in-cinquant-anni">Tonino Dominici, Boxmarche: “Un’impennata del genere mai vista in cinquant’anni”</h2>



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<p>Una tendenza che ha coinvolto tutta la filiera, come conferma Tonino Dominici. “Certamente lo scossone è stato alto, anche perché l’entità degli aumenti è stata tale che, pur lavorando io nel settore da cinquant’anni, <strong>un’impennata del genere non l’avevo mai vista</strong>. Il primo impatto è stato sui <strong>costi</strong>, il secondo e conseguente sull’<strong>organizzazione della produzione</strong>, perché i tempi di approvvigionamento hanno contribuito ad azzerare tutte le politiche in atto. Ad esempio la <em>lean production</em>, la riduzione degli stock e le linee snelle, la flessibilità sui magazzini, l’idea di pensare l’imballo in arrivo al momento giusto sulle linee di confezionamento dei clienti”.</p>



<p>Tutto questo che criticità ha prodotto? “La corsa all’approvvigionamento ha portato a casi di <strong>speculazione da parte di alcuni livelli della filiera</strong>, generando difficoltà nei rapporti tra clienti e fornitori. La grande distribuzione organizzata, ad esempio, ha bloccato i prezzi, vanificando la possibilità di ammortizzare i nostri costi. In quattro mesi abbiamo eroso il margine dei precedenti otto, con l’ultimo quadrimestre in perdita. La <strong>difficoltà di relazione</strong> è stata veramente uno degli aspetti più importanti”.</p>



<p>Una situazione ardua da coordinare. “Il nostro panorama è formato da tante <strong>piccole medie imprese</strong>, troppo frammentate e <strong>in balia dei grandi gruppi cartari</strong>, specie del Nord Europa. Noi ad esempio, che lavoriamo sul cartoncino, abbiamo subito un aumento in linea con i dati citati, passando da 550 euro a tonnellata prodotta a oltre 1.000. La produzione <em>bag in box</em>, che utilizza carte semichimiche, ha subito un aumento del 50-60%”.</p>



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<h2 id="h-sostenibilita-uguale-risparmio-come-si-esce-dalla-crisi-della-carta">Sostenibilità uguale risparmio: come si esce dalla crisi della carta</h2>



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<p>E quindi, quali sono le <strong>soluzioni</strong> per uscire da quest’impasse? “Stiamo cercando opportunità anche nelle difficoltà. Ci siamo messi in testa di proporre ai clienti soluzioni che riducono l’utilizzo della materia prima, del cartoncino, togliendo grammatura per esempio, attraverso una politica di riduzione degli imballaggi. Ci sono molte aziende che per imballare un prodotto utilizzano molti packaging, pensiamo per paradosso al dentifricio, per questo stiamo studiando soluzioni per <strong>ridurre il materiale e migliorare l’imballo</strong>”.</p>



<p>“Dobbiamo renderci conto che oggi si parla di <strong>sostenibilità</strong>, che per il nostro settore è al primo posto. <strong>Migliorare e ridurre i consumi</strong>, qualificarli in qualche modo, togliere sprechi, progettare nuovi imballi su concetti che possano più sostenibili. Diamo spazio alla progettazione, all’innovazione di processo e di prodotto, affiancandoci ai clienti per cercare di ridurre e allo stesso tempo qualificare. A conti fatti si tratta di educazione: un’azienda sostenibile è quella che guarda davanti, che sia sostenibile nel tempo, che non si esaurisca con la fine della vita dell’imprenditore”. </p>



<p>Nel frattempo, però, non dimentichiamo le <strong>persone</strong>, forse l’anello che rischia di più, in termini di crescita e sicurezza, di fronte alle complessità e alle incertezze dei mercati. “Vede, quello che dice è sacrosanto. Anche nel comparto cartario e cartotecnico destiniamo poche risorse per le cose importanti. Spesso l’imprenditore medio non ha problemi a firmare un finanziamento di un milione di euro per un macchinario, ma fatica ad investire in un programma di formazione di appena diecimila”.</p>



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Il caso di carta: come ci stanno rapinando la qualità del lavoro

<p>A gennaio 2022, in sole quattro settimane, gli italiani hanno speso <strong>58 milioni di euro</strong> <strong>per i <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/tamponi-in-farmacia-federfarma-spiega-perche-costano-15-euro/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">tamponi effettuati nelle farmacie</a> </strong>(dato IQVIA). In attesa dei bilanci che diranno quanto e come l’erogazione di questo servizio abbia inciso sui margini finali di guadagno, le <strong>parafarmacie</strong>, grandi escluse da questo mercato, portano avanti la loro protesta e il loro malcontento non solo rispetto a questo servizio ma anche in riferimento alla mancata somministrazione dei vaccini.</p>
<p>Per spiegarne ragioni e dissenso è intervenuto <strong>Davide Gullotta</strong>, presidente della Federazione Nazionale Parafarmacie Italiane (FNPI).</p>
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<h2 id="h-davide-gullotta-presidente-fnpi-tamponi-e-vaccini-un-intervento-di-speranza-avrebbe-risolto-l-esclusione-delle-parafarmacie">Davide Gullotta, presidente FNPI: “Tamponi e vaccini? Un intervento di Speranza avrebbe risolto l’esclusione delle parafarmacie”</h2>
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<p>“<strong>Non c’è una vera motivazione</strong> che impedisca alle parafarmacie di poter fare i tamponi e somministrare le vaccinazioni”, precisa Gullotta. “Attualmente solo alcune parafarmacie localizzate nelle <strong>province autonome di Trento e Bolzano</strong> stanno effettuando i tamponi in maniera autonoma, ma non è possibile farlo in nessun’altra Regione”.</p>
<p>Inizialmente anche la Regione Marche aveva dato il consenso alle parafarmacie, ma il permesso era stato revocato dopo pochi giorni: “<strong>Abbiamo fatto ricorso</strong> al TAR, che ci ha rimandati al Consiglio di Stato, che ci ha rimandati al TAR e poi alla Corte costituzionale; c’è stato <strong>un rimpallo di competenze</strong>. Attualmente abbiamo avuto un voto positivo da parte del Consiglio regionale della Lombardia, ma il governo regionale sta tardando ad applicarlo. Il voto favorevole è arrivato anche in Abruzzo, e aspettiamo che venga applicato anche qui. Tutto questo però sta avvenendo solo oggi, quando l’emergenza sta calando, e <strong>l’urgenza dei tamponi è diminuita</strong>. Sarebbe stato più utile farlo mesi addietro, e <strong>tramite un intervento del ministro Speranza sarebbe stato possibile</strong>”.</p>
<p>Per Gullotta <strong>le giustificazioni alla scelta di escludere le parafarmacie </strong>dalla realizzazione di tamponi e vaccini<strong> non sono reali</strong>, e si basano sul falso presupposto dell’assenza di strumenti per la tracciabilità: “Le parafarmacie sono sul portale TS, inviano e <strong>gestiscono i codici fiscali </strong>per il 730 precompilato, <strong>usano lo stesso software delle farmacie</strong>, sono luoghi sottoposti agli stessi controlli di sicurezza, ed è sempre presente un farmacista nella struttura. Ci saremmo anche dotati di ulteriore personale se ci fosse stato richiesto, ma non ce n’è stata data la possibilità”.</p>
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<h2 id="h-interesse-lobbistico-a-danneggiare-le-parafarmacie-federfarma-vuole-nascondere-guadagni-dai-tamponi">“Interesse lobbistico a danneggiare le parafarmacie: Federfarma vuole nascondere guadagni dai tamponi”</h2>
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<p>Secondo il Presidente della FNPI è ingiusto che le parafarmacie debbano oggi ribadire queste cose, a fronte di opposizioni basate su false informazioni: “Semplicemente <strong>è stato deciso dal punto di vista lobbistico, da parte delle farmacie, di osteggiarci</strong>”.</p>
<p>Una scelta, in particolare per i tamponi, dovuta a <strong>ragioni economiche</strong>: il dibattito sul <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/tamponi-in-farmacia-federfarma-spiega-perche-costano-15-euro/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">margine</a><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/author/michela-de-biasio/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow"> di guadagno delle farmacie</a> infatti tiene alta da mesi l’attenzione su questo tema. “<strong>Federfarma vuole nascondere un business di fatto</strong>, <strong>i guadagni sono più alti di quelli indicati</strong>”, denuncia il Presidente FNPI. “I tamponi sono un business enorme, con un guadagno notevole, anche se comunque proporzionato all’alto rischio sanitario e ad altre problematiche connesse come quella del rischio biologico, legato alla gestione dei rifiuti pericolosi. C’è poi lo stress per il farmacista, che è impegnato per ore in un’operazione rischiosa e faticosa.”</p>
<p>Gullotta contesta quindi il fatto di aver addotto motivazioni inesistenti all’esclusione delle parafarmacie al fine di mantenere solo all’interno delle farmacie i margini prodotti: “Noi non avremmo puntato a un prezzo più basso, ma avremmo semplicemente offerto la possibilità alle persone di <strong>non dover fare file di ore</strong> e di <strong>avere un servizio migliore</strong>”.</p>
<p>Escludere le parafarmacie è stata una scelta che, per Gullotta,<strong> ha pesato sulla qualità del servizio offerto ai cittadini</strong>: “La situazione è assurda. Ci sono paesini in cui non ci sono farmacie che fanno i tamponi, e le parafarmacie che vorrebbero farli non possono. Si crea un disagio per le persone. Delle 19.000 farmacie italiane solo poco più della metà fanno i tamponi. A queste si sarebbero potute sommare le <strong>poco più di 5.000 parafarmacie presenti in maniera capillare</strong> su tutto il territorio nazionale. Molte di queste sono già dotate di spazi adibiti, controllati dalle ASL, e quelle che non li avevano si sarebbero potute dotare di gazebo, come hanno fatto le farmacie. È impensabile essere stati esclusi quando ci sono stati casi, come l’esperienza siciliana, dei <strong>vaccini fatti dal parrucchiere a fine 2021 </strong>(<em>una sperimentazione, osteggiata da Federfarma, lanciata a Palermo dall’area produzione e benessere di Confesercenti Sicilia, che prevede la possibilità&nbsp;di ricevere da personale medico autorizzato il vaccino anti-COVID dal&nbsp;barbiere e dal parrucchiere, e che ha avuto il via libera del commissario per l&#8217;emergenza COVID-19della provincia, N.d.R.</em>)”.</p>
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<h2 id="h-servizi-tagliati-code-ritardi-l-esclusione-delle-parafarmacie-pesa-soprattutto-sui-cittadini">Servizi tagliati, code, ritardi: l’esclusione delle parafarmacie pesa soprattutto sui cittadini</h2>
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<p>Oltre alle file dovute a tamponi e vaccini, a causa della pandemia le <strong>farmacie</strong> hanno vissuto più in generale un’<strong>intensificazione</strong> <strong>della domanda dei servizi tradizionali </strong>da parte del pubblico (autoanalisi, esami in telemedicina…). Un incremento di flussi dovuto anche alle difficoltà delle persone, in questi due anni di pandemia, a rivolgersi al medico di base o alle altre strutture sanitarie.</p>
<p>Una crescita degli sforzi e della<strong> pressione sulle farmacie </strong>(più burocrazia, aumento del rischio professionale, forza lavoro numericamente inadeguata) il cui risultato, in alcuni casi, è stato la scelta di <strong>sospendere temporaneamente alcuni servizi</strong> (come il servizio di prenotazioni CUP) <strong>a favore dell’attività di erogazione dei tamponi</strong>. Una situazione di stress che secondo il presidente FNPI Gullotta poteva essere alleggerita facilmente, dividendo con le parafarmacie oneri e onori di tamponi e vaccinazioni. La maggior parte di questi guadagni per prodotti e servizi anti-COVID è rimasta così concentrata nei bilanci delle farmacie, mentre quella suddivisa con le parafarmacie ha riguardato esclusivamente la vendita dei DPI e dei tamponi rapidi fai da te.</p>
<p>Resta indiscutibile che, in questi ultimi due anni, e in particolare durante i mesi di lockdown, <strong>farmacie e parafarmacie siano sempre rimaste aperte</strong>, fornendo non solo un servizio sanitario ai cittadini, ma spesso anche un luogo in cui avere informazioni o in cui poter fisicamente parlare con qualcuno nei momenti di maggiore confusione e mancanza di chiarezza sull’andamento della pandemia.</p>
<p>Viene da chiedersi però se alla fine, nel dibattito su chi avrebbe dovuto fare o meno i tamponi (e anche i vaccini), <strong>a rimetterci di più non siano stati i cittadini</strong>. La scelta di escludere le parafarmacie dall’erogazione di questi servizi ha prodotto soprattutto <strong>ritardi </strong>sia per chi aveva necessità di effettuare i tamponi e ricevere i vaccini, che per chi doveva avere accesso a tutti egli altri servizi che non sono stati (e non vengono) integralmente coperti dal personale oberato di lavoro.</p>
<p>Il rimpallo di competenze e la mancata azione diretta del ministero della Salute non hanno portato solo un mancato guadagno per le parafarmacie, ma hanno creato soprattutto ulteriori problemi per gli italiani, già colpiti duramente dalle criticità e dai disagi prodotti in questi due anni di pandemia.</p>
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<p><em>Photo credits: ordinefarmacistiroma.it</em></p>


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Tamponi negati alle parafarmacie: questione di lobby

Prosegue l&#8217;indagine di SenzaFiltro sulle somministrazioni dei tamponi: dopo l&#8217;articolo in cui abbiamo dato voce ai farmacisti, rispondono le parafarmacie. Davide Gullotta, presidente FNPI, racconta le ragioni dell&#8217;esclusione: &#8220;Giustificazioni irreali, guadagni più alti di quelli indicati da Federfarma&#8221;. Intanto i disservizi ricadono sui cittadini.

Tamponi negati alle parafarmacie: questione di lobby - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/immagine_2022-02-15_095857.png


<p><strong>Settore</strong>: Rete Franchising</p>



<h2 id="h-posizione">Posizione</h2>



<p>Prestigiosa Rete Franchising che vanta un marchio conosciuto e consolidato su tutto il territorio italiano, sta ricercando una figura di coordinamento che avrà la responsabilità di garantire il fatturato proveniente dalle agenzie immobiliari dislocate in Triveneto e Lombardia (Brescia, Bergamo, Como, Lodi, Lecco).</p>



<p>La Risorsa, dopo un periodo di formazione presso la Casa Madre e di affiancamento, si occuperà della gestione dei Franchisee al fine di sostenerli nello sviluppo del loro business attraverso l’applicazione di un metodo consolidato ed efficace e la promozione di servizi distintivi.</p>



<p>Le sue attività riguarderanno:</p>



<ul><li>Definizione e pianificazione delle strategie commerciali per il raggiungimento degli obiettivi e standard prefissati</li><li>Gestione dei rapporti tra Franchisee e Casa Madre</li><li>Essere punto di riferimento, trasmettendo i valori e l’organizzazione del Franchising</li></ul>



<p><strong>Luogo di lavoro:&nbsp;</strong>Triveneto e Provincia di Mantova e Brescia</p>



<h2 id="h-requisiti">Requisiti</h2>



<p>Si ricercano Professionisti con competenze nella gestione di trattative commerciali finalizzate alla vendita e nel coordinamento di risorse/gruppi di lavoro e/o nella gestione di reti vendita. Dovrà essere disponibile al lavoro in trasferta ed a sostenere percorsi formativi e incontri periodici presso la Casa Madre.</p>



<p>Saranno tenuti in prioritaria considerazione profili con esperienza in organizzazioni operanti in regime di franchising o assicurativi.</p>



<p><strong>Titoli di studio</strong>: Diploma o Laurea (anche Triennale) preferibilmente in ambito giuridico, economico od umanistico.</p>



<p><strong>Contratto offerto</strong>: Contratto di prestazione professionale a partita IVA. La remunerazione si compone di una parte fissa generata dal fatturato dell’area gestita.</p>



<p>Benefit previsti: auto uso personale con rimborso carburante, pc portatile e cellulare</p>



<p><strong>Per candidarsi: </strong><a href="https://inrecruiting.intervieweb.it/scr/jobs/area_manager_triveneto_e_lombardia_198478/it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">cliccare qui</a></p>



<p>I/Le candidati/e potranno inviare la propria risposta rilasciando specifica autorizzazione ai sensi del del Regolamento (UE) 2016/679 sulla protezione dei dati (GDPR). Vedi informativa privacy <a href="http://www.scrconsulenza.it" target="_blank" rel="noreferrer noopener">www.scrconsulenza.it</a> Per informazioni: <a href="http://www.scrconsulenza.it" target="_blank" rel="noreferrer noopener">www.scrconsulenza.it</a> oppure 0544/270701.</p>



<p>Tale ricerca professionale é rivolta ad ambo i sessi (L. 903/77)</p>



<p>Autorizzazione Ministeriale a tempo indeterminato all’esercizio delle attività di ricerca e selezione del personale ai sensi del D.lgs. 276/03 prot. 13/1/0003008/MA004.A003</p>


Area Manager Triveneto e Lombardia


<p></p>



<p><strong>Sessismo: il 31,2% lo subisce dal capo, il 93,4% pensa che esserne vittima possa giustificare la scelta di lasciare il lavoro.</strong> Una prima fotografia già sintomatica dello stato di salute delle aziende italiane coinvolte nel sondaggio nazionale promosso da FiordiRisorse e condotto attraverso la piattaforma aperta di Google Moduli da novembre 2021 a gennaio 2022, in modalità totalmente anonima.</p>



<p>Oltre 700 le risposte pervenute: a livello statistico e geografico, il 72,5% dal Nord Italia, il 26,1% dal centro e il 9,4% dal sud e dalle isole. A conti fatti, è stato possibile tracciare anche un quadro anagrafico dei partecipanti: il 73,6% delle persone coinvolte ha dai 36 ai 59 anni, il 21,6% dai 18 ai 35 e il 4,9% è sopra i 60 anni. <strong>Significativo anche il genere rappresentato nelle risposte</strong>, aldilà della convinzione che il sessismo sia una questione a cuore delle sole donne che hanno sì toccato quasi il 60% delle adesioni (58,7%  per l&#8217;esattezza) ma seguite da un consistente 40,4% di uomini e uno 0,09% non binario.</p>



<p></p>



<h2 id="h-il-sessismo-negato-ancora-troppa-omerta-ai-vertici-delle-aziende">Il sessismo negato: ancora troppa omertà ai vertici delle aziende</h2>



<p></p>



<ul><li>Il 56,8% delle persone ha subìto sul luogo di lavoro comportamenti o espressioni che reputa sessisti da parte di uomini o donne</li></ul>



<ul><li>Il 31,2% delle persone che ha subìto comportamenti sessisti li ha subìti dal capo. Il 30,7% dal diretto responsabile e il 38,1% da un collega&nbsp;</li></ul>



<ul><li>All’88,2% delle persone è capitato, sul luogo di lavoro, di assistere a comportamenti o ascoltare espressioni di natura sessista</li></ul>



<p>“Sono dati preoccupanti” dichiara <strong>Pino Mercuri, Direttore HR di Agos Italia</strong> “che però sorprendono fino a un certo punto: le nostre aziende sono specchio della realtà sociale che viviamo; non sono luoghi altri. Nel bene e nel male. Questa volta, chiaramente, nel male”.&nbsp;</p>



<p>Tra i commenti in apertura del sondaggio anche <strong>Maria Cristina Bombelli, Presidente di Wise Growth</strong>: &#8220;L&#8217;abitudine al sessismo fa sì che non lo si consideri un elemento da segnalare, o magari le persone temono &#8211; e non sarebbe strano &#8211; ritorsioni, magari non concrete ma certamente quella fama di &#8220;rompiscatole&#8221; per non dire di peggio. Quindi meglio tacere. Consolante che qualcuno invece lo segnali: non in modo maggioritario, ma comunque è emerso un buon numero. Fa riflettere però che, chi si è rivolto a coloro che dovrebbero essere garanti, abbia avuto risposte evasive o addirittura negative dagli uffici del personale&#8221;.</p>



<p>&#8220;Ci autoconvinciamo (e convinciamo le altre persone) che la situazione non è così grave, che non può essere davvero sistemica. Eppure i numeri dicono altro: l’88% ha assistito a un episodio di natura sessista&#8221;: è netta anche <strong>Flavia Brevi, Head of Social Communication Cookie &amp; Partners e Fondatrice di Hella Network</strong>. &#8220;È a quel punto che dobbiamo spezzare la catena: non limitandoci a ricoprire il ruolo di bystander (ovvero spettatori e spettatrici), ma facendo notare l’atto sessista. Perché è con la complicità dei silenziosi che il sistema va avanti indenne&#8221;.</p>



<p></p>



<h2 id="volgarita-e-luoghi-comuni-in-azienda-la-nuvola-delle-parole-rischia-di-esplodere">Volgarità e luoghi comuni in azienda: la nuvola delle parole rischia di esplodere</h2>



<p></p>



<p>Il sondaggio prevedeva anche diverse domande a risposta aperta: offrire una propria definizione di sessismo così come <strong>elencare frasi o espressioni ascoltate nei rispettivi luoghi di lavoro e reputate di natura sessista, indipendentemente dal fatto che fossero state direttamente rivolte loro</strong>. Nella redazione di SenzaFiltro, che ha elaborato tutti i dati del sondaggio, abbiamo realizzato la nuvola delle parole più ricorrenti e il risultato, già a vista, rimarca l&#8217;appoggio a stereotipi e termini volgari, nonché ricorsivi nella discriminazione di genere. Maria Cristina Bombelli ha anche aggiunto: &#8220;Non credevo ci fosse ancora un simile atteggiamento discriminatorio verso il femminile dentro le aziende italiane&#8221;. Secondo Osvaldo Danzi,<strong> Presidente di FiordiRisorse</strong> <strong>nonché editore di SenzaFiltro</strong>: &#8220;Non si creda che gli episodi di sessismo siano appannaggio esclusivo di piccole aziende di provincia. Purtroppo rileviamo episodi molto gravi anche e soprattutto all&#8217;interno di grosse aziende strutturate, spesso promotrici di politiche inclusive&#8221;. Lo conferma un dato inequivocabile dell&#8217;Osservatorio: <strong>quasi il 40% delle risposte è pervenuto da aziende con più di 250 collaboratori.</strong></p>



<p></p>



<p></p>



<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/NUVOLA-OSSERVATORIO-SUL-SESSISMO_FDR-.png"><img width="724" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/NUVOLA-OSSERVATORIO-SUL-SESSISMO_FDR--724x1024.png" alt="" class="wp-image-48606" /></a></figure></div>



<p></p>



<p></p>



<p>Secondo <strong>Stefania Zolotti, direttrice di SenzaFiltro</strong> “L’Osservatorio 2022 di FiordiRisorse testimonia che non poche colonne culturali su cui poggiano molte aziende italiane sono marce e non c’entrano l’età, i ruoli, le generazioni, la geografia, i settori produttivi, le gerarchie, la forma padronale o multinazionale, l’anzianità di servizio, i bilanci, l&#8217;essere in quel lavoro da tanto o da poco. È solo una questione di paure: siccome è difficile accettare una propria paura &#8211; chiamatela insicurezza, scarsa autostima, disabitudine al contatto con gli altri, arroganza &#8211; e tantomeno metterla sul piatto della bilancia con cui pesiamo noi e gli altri, a molti conviene stereotipare le relazioni usando frasi d’appoggio, maschere pronte all’uso, discriminazioni già ostentate in partenza”.</p>



<p></p>



<p><strong>L&#8217;Osservatorio 2022 sul sessismo nei luoghi di lavoro è scaricabile a questo <a href="https://bit.ly/FdR_Osservatorio_Sessismo" target="_blank" rel="noreferrer noopener">link</a></strong>.</p>



<p><strong>È possibile <a href="https://www.youtube.com/watch?v=VYLHUSP324I" target="_blank" rel="noreferrer noopener">rivedere</a> il video della presentazione in diretta web.</strong></p>



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<p><em>Photo credits: Osvaldo Danzi, (Bar di Ushuaia &#8211; Patagonia, 2018)</em></p>



<p></p>


Osservatorio nazionale sul sessismo in azienda: ecco i risultati

<p><strong>Circa</strong> <strong>due terzi</strong> <strong>dei</strong> <strong>tamponi</strong> che si effettuano ogni settimana, secondo Federfarma, vengono <strong>fatti nelle farmacie</strong>, per un totale di <strong>140 milioni di euro spesi dagli italiani nel 2021</strong>. Una cifra cresciuta esponenzialmente in base ai dati IQVIA: prima a settembre, a causa del primo <strong>obbligo di Green pass sul lavoro</strong> (586.000 tamponi), poi a ottobre (844.000) e via così a novembre (1.058.000), sino ad arrivare agli aumenti di settimana in settimana nel corso delle <strong>festività natalizie</strong> (+15,8% dei tamponi nell’ultima settimana di dicembre rispetto a quella precedente).</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Istogramma.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Istogramma.png" alt="" class="wp-image-48634" /></a></figure>
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<p>Numeri che hanno dato via ad <strong>accese polemiche rispetto ai presunti margini di guadagno per le farmacie</strong>, nonostante il Protocollo d’intesa sottoscritto ad agosto 2021 tra il ministero della Salute e il commissario straordinario all’emergenza, che garantisce il <strong>prezzo calmierato </strong>per i test antigenici. <strong>15 euro il costo per gli adulti</strong>, mentre la spesa a carico dell’utente si abbassa nel caso il tampone venga effettuato su minori di età compresa tra i 12 e i 18 anni (con differenze a seconda delle Regioni).</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Immagine1.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="606" height="331" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Immagine1.png" alt="" class="wp-image-48631" /></a></figure>
</div>
<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<p>Nella pratica, tuttavia, per la realizzazione dei tamponi le farmacie mettono in campo <strong>mezzi e risorse che incidono sul margine finale di guadagno</strong>, sottraendo tempo e personale ad altre attività, e riducendo di conseguenza gli introiti derivanti da altri servizi e vendite di prodotti. Per ricostruire non solo le voci che compongono il costo finale dei tamponi, ma anche quale e quanto lavoro ci sia dietro questa prestazione, abbiamo raccolto la testimonianza di alcune farmacie pubbliche e private di Lazio ed Emilia-Romagna, oltre che del dott. <strong>Roberto Tobia</strong>, segretario generale di Federfarma.</p>
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<h2 id="h-da-dove-vengono-e-quanto-costano-i-tamponi">Da dove vengono e quanto costano i tamponi</h2>
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<p>I <strong>tamponi antigenici</strong> che vengono comprati dalle farmacie sono <strong>prodotti in prevalenza da aziende orientali </strong>(<strong>l’80% circa</strong>), e arrivano in Italia tramite degli importatori. La distribuzione intermedia poi si occupa di farli arrivare nelle farmacie mediante il canale della distribuzione del farmaco, ovvero i singoli fornitori. Secondo i dati di Federfarma il costo d’acquisto finale dei tamponi per una farmacia si aggira in media tra i <strong>2 e i 4 euro. </strong>Una media che tuttavia non incontra il caso delle farmacie intervistate, per cui <strong>il costo medio è di circa 5 euro</strong> <strong>per quelli cosiddetti di terza generazione</strong> (diversi per la metodica analitica impiegata, che non dice solo se il virus è presente ma anche in che quantità).</p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Infografica.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="594" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/02/Infografica-594x1024.png" alt="" class="wp-image-48632" /></a></figure>
</div>
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<p>Il costo rispetto al tipo di tampone varia anche in funzione a una loro progressiva evoluzione nel tempo, che ha introdotto alcuni miglioramenti che ne rendono più pratica l’esecuzione (consentendo di risparmiare tempo e passaggi). Oltre alla <strong>tipologia</strong>, il prezzo dei tamponi può variare molto a seconda del <strong>canale distributivo scelto </strong>e della <strong>quantità</strong>.</p>
<p>La<strong> qualità </strong>di tutti i <strong>tamponi commercializzati in Europa</strong> è invece <strong>standard</strong>, ed è <strong>garantita dall’EMA</strong>, che ne verifica la processabilità nelle farmacie.</p>
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<h2 id="h-farmacie-piu-di-10-euro-di-costi-sui-tamponi">Farmacie, più di 10 euro di costi sui tamponi</h2>
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<p>Secondo Federfarma il costo medio per l’acquisto e l’esecuzione del tampone è<strong> maggiore di 10 euro</strong>, considerate <strong>altre varie voci di spesa</strong> che riducono il margine finale.</p>
<p>In primo luogo ci sono i <strong>dispositivi di protezione </strong>(o DPI: camice monouso, mascherina, guanti, visiera, cuffietta e altri), per un <strong>valore</strong> <strong>medio di 2 euro.</strong> Il costo, anche in questo caso, dipende dal tipo di prodotti acquistati, dal fornitore e dalla loro quantità. Oltre all’acquisto di questi dispositivi poi c’è la spesa relativa allo <strong>smaltimento</strong>, sia per i tamponi che per i DPI. Come previsto dalla legge Ronchi del 1997, infatti, <strong>i rifiuti sanitari a rischio infettivo devono essere prelevati nelle farmacie da aziende certificate</strong>, che si occupano dello smaltimento dei rifiuti. Anche se il miglioramento e l’evoluzione dei tamponi ne ha in piccola parte ridotto il volume, il loro numero, insieme ai DPI, ha aumentato il peso complessivo di questi rifiuti prodotti dalle le farmacie, che hanno dovuto aumentare i ritiri previsti nei loro contratti. Il costo varia a seconda delle Regioni e dei tipi di contratti, ed è difficile fare una stima media. Tuttavia, per dare un’idea dell’aumento di spesa, basti pensare che nel caso di una delle farmacie intervistate in Emilia-Romagna – che effettua una cinquantina di tamponi al giorno – <strong>il numero di ritiri è raddoppiato rispetto al 2021</strong>.</p>
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<h2 id="h-i-costi-di-personale-tempo-e-burocrazia">I costi di personale, tempo e burocrazia</h2>
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<p>C’è poi il <strong>costo del personale,</strong> che può variare a seconda che si tratti di <strong>personale interno</strong> o che la farmacia debba fare ricorso a <strong>personale esterno</strong> (ad esempio infermieri a prestazione o a partita IVA). Interviene sul tema <strong>Cristiana Torelli</strong>, una dei farmacisti intervistati, proprietaria di due farmacie di famiglia a Roma (50/60 tamponi al giorno in una e 100/150 nell’altra): “<strong>Il costo maggiore è quello dell’infermiere esterno</strong>, ma non se ne può fare a meno perché non posso togliere dal banco il personale farmacista. Non ne avrei abbastanza”.</p>
<p>Le farmacie ricorrono al personale esterno, o ne assumono di nuovo, perché non riescono a stare dietro al numero di richieste: “<strong>Bisogna sostenere la fila</strong>”, continua Torelli. “Nei giorni in cui <strong>arriva a 40/50 metri dalla farmacia</strong> si deve essere una vera e propria catena di montaggio per evitare il più possibile che le persone stazionino in coda, rischiando magari di contagiarsi”.</p>
<p>La richiesta di personale esterno spesso è stata preferita dalle farmacie per due ragioni principali: la <strong>mancanza di farmacisti disponibili</strong> e l’<strong>incertezza </strong>legata all’<strong>andamento della pandemia</strong>. Durante questi due anni, inoltre, dovendo rafforzare la propria gestione del rischio, in aggiunta all’assicurazione prevista per il personale, le farmacie si sono attivate per sottoscrivere <strong>coperture assicurative aggiuntive per titolari e dipendenti</strong>. Una spesa che, in molti casi, ha beneficiato di convenzioni previste dalle associazioni di categoria, e che non è strettamente connessa solo alla realizzazione dei tamponi, ma che comunque va a sommarsi alle altre voci di costo.</p>
<p>La necessità di assumere nuovo personale, o di richiedere collaboratori esterni, è dovuta non solo ai numeri di tamponi da effettuare (e alla difficoltà di avere sempre il personale disponibile in farmacia a causa di positività e quarantene), ma soprattutto al <strong>tempo necessario per completare tutto l’iter di un tampone</strong>. Prenotazione, accettazione del paziente, inserimento dell’anagrafica e dei dati relativi al risultato sono operazioni che richiedono grande attenzione, e non possono essere fatte in velocità. L’inserimento errato dei dati nei sistemi gestionali delle Regioni potrebbe impedire lo sblocco di un Green pass per una fine quarantena, e di conseguenza il rientro al lavoro di una persona negativizzata. Ci sono delle farmacie che hanno creato dei sistemi automatizzati per la prenotazione dei tamponi, mentre altre lo fanno di volta in volta a mano, ma in entrambi i casi viene richiesto un impiego di risorse e tempo.</p>
<p>“C’è poi <strong>l’inserimento dei dati dei risultati e dei tamponi effettuati nei sistemi informatici di Regione e ministero</strong>”, racconta Torelli. “Bisogna dividere i negativi dai positivi, i minori dagli adulti. I tamponi fatti a soggetti dai 12 ai 17 anni richiedono anche l’inserimento nel sito della Regione Lazio per chiedere il rimborso dei 7 euro che sono stati calmierati, ed è un passaggio importante, altrimenti rischiamo di non avere questa cifra (<em>nel Lazio le farmacie hanno dovuto attendere gennaio per il rimborso dei tamponi di agosto, N.d.R.</em>)”.</p>
<p><strong>La media per l’esecuzione di un tampone è di 15 minuti</strong>, ma il tempo può variare molto a seconda delle operazioni elencate. È quindi difficile dare un valore preciso per questa spesa, anche considerando le differenze possibili di stipendio tra personale esterno e interno, e i livelli di anzianità di quest’ultimo. Oltre alle spesse connesse al personale, tra i costi legati alla processazione del tampone va aggiunta anche la <strong>stampa del referto</strong>, non solo in termini di tempo, ma anche di <strong>carta e inchiostro</strong>.</p>
<p>“<strong>I medici di base ricevono un rimborso per la carta che utilizzano, noi farmacisti no</strong>”, spiega Torelli. “Quando possibile chiediamo alle persone di scaricare il risultato, ma in molti ci chiedono di stamparlo ugualmente perché magari hanno fretta di averlo, o non hanno le competenze o gli strumenti per usare un sistema informatico”.</p>
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<h2 id="h-spazi-divisi-tra-tamponi-e-vaccinazioni-avvantaggiate-le-grandi-farmacie">Spazi divisi tra tamponi e vaccinazioni: avvantaggiate le grandi farmacie</h2>
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<p>Un’ulteriore voce di costo riguarda poi gli<strong> spazi </strong>che le farmacie hanno dedicato alla realizzazione tamponi.</p>
<p>“<strong>Una farmacia non è un poliambulatorio con diversi locali</strong>, siamo un esercizio commerciale che fattura in base ai metri lineari di esposizione. Non siamo fisicamente strutturati per adibire spazi a questi servizi”, sostiene Torelli.</p>
<p>Il problema degli spazi si è acuito da giugno 2021, quando <strong>le farmacie sono state abilitate anche alla</strong> <strong>vaccinazione</strong>, un’attività che richiede necessariamente <strong>aree dedicate</strong> che non possono rischiare di essere contaminate. Chi ha potuto ha destinato un’area o dei locali presenti in farmacia alla realizzazione dei tamponi; in questo caso <strong>le farmacie più grandi hanno avuto meno difficoltà a trovare stanze o locali</strong>. Chi ha fatto questa scelta ha comunque dovuto <strong>sacrificare altri servizi </strong>(come la cabina estetica), oppure prevedere un’alternanza d’uso a seconda di giorni e orari, provvedendo però di volta alle necessarie <strong>sanificazioni</strong> (con i costi conseguenti). Questo, insieme all’affollamento di pubblico e alla mancanza di personale in molti casi ha comportato una<strong> riduzione nella vendita di prodotti</strong>, che al momento non è stata quantificata da Federfarma e dalle farmacie intervistate, ma che rientrerà nella definizione del margine finale di guadagno.</p>
<p>Infine, tornando agli spazi, <strong>c’è chi ne ha affittati di esterni alle strutture delle farmacie</strong>, mentre chi è riuscito a risparmiare l’ha fatto ad esempio predisponendo <strong>aree attrezzate all’esterno</strong>, <strong>acquistando dei gazebo</strong> sotto ai quali effettuare l’iter dell’accettazione, il pagamento e il tampone.</p>
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<h2 id="h-roberto-tobia-segretario-federfarma-guadagno-c-e-ma-non-cosi-rilevante">Roberto Tobia, segretario Federfarma: “Guadagno c’è, ma non così rilevante”</h2>
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<p>Su questo tema è intervenuto <strong>Roberto Tobia</strong>, segretario nazionale di Federfarma e presidente del PGEU: “Le farmacie si sono fatte trovare pronte nel momento in cui le istituzioni hanno chiesto loro di offrire un servizio indispensabile per i cittadini. <strong>C’è un percorso che porta alla formazione del prezzo</strong>, che, ci tengo a sottolineare, è stato concordato ma soprattutto calmierato, e che comunque garantisce che il test sia effettuato in maniera corretta, e da personale sanitario abilitato e formato”.</p>
<p>“<strong>Il guadagno per le farmacie c’è, ma non è quello che viene sbandierato</strong>”, precisa Tobia. “Basta partire dal prezzo di acquisto e poi dai costi, reali e facilmente dimostrabili, che danno la misura di quanto questo prezzo concordato e calmierato sia giusto per compensare la prestazione erogata da dei professionisti e da aziende che comunque si devono sostenere. <strong>Bisogna fare attenzione a sbandierare dati fuorvianti</strong> nei confronti della popolazione”.</p>
<p>Anche se per ora <strong>Federfarma non è in grado di quantificare un dato preciso </strong>su quanto abbiano pesato i tamponi sui bilanci delle farmacie, per Tobia “si può dire che <strong>in termini macroeconomici il risultato non è stato così rilevante</strong>. Anche perché, oltre ai costi, la loro erogazione ha ridotto altri guadagni, riducendo il personale operativo in farmacia e diminuendo le vendite in altri settori merceologici. La farmacia ha svolto il suo ruolo in maniera corretta, siamo stati al servizio dei cittadini e <strong>abbiamo anche creato posti di lavoro</strong>, assumendo tanti farmacisti e infermieri”.</p>
<p><strong>Un guadagno quindi molto più</strong> <strong>modesto</strong> rispetto a quanto insinuato dalle polemiche per le circa <strong>10.000 farmacie che effettuano i tamponi in Italia</strong>, e comunque necessario come corrispettivo per le professionalità e le aziende che garantiscono questa prestazione. Le catene o le farmacie più grandi avranno giocoforza potuto ammortizzare o ridurre più facilmente parte dei costi elencati (a partire da quello dei tamponi), ma ascoltando le voci dei diretti interessati viene difficile pensare che questa sia stata la regola.</p>
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<p><em>Photo credits: cronachemaceratesi.it</em></p>


Tamponi in farmacia: Federfarma spiega perché costano 15 euro

I farmacisti si sono arricchiti con le somministrazioni di tamponi antigenici? La categoria smentisce: sono aumentate anche le spese e i tagli ad altri servizi. Roberto Tobia, segretario nazionale Federfarma: &#8220;Il guadagno c’è stato, ma non così rilevante. Noi al servizio dei cittadini&#8221;.

Tamponi in farmacia: Federfarma spiega perché costano 15 euro - Informazione senza filtro

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<p>Questa sera si chiuderà la <strong>sessione invernale del mercato di riparazione</strong>. Quello in cui società oberate dai debiti si permettono di spendere e spandere, investire, togliere giocatori alle dirette concorrenti. Ogni considerazione sui <strong>ristori</strong> non può che partire da qui: come può un governo concedere <strong>agevolazioni a un settore che continua a indebitarsi?</strong></p>



<p>I<strong>l calcio è una delle principali dieci industrie italiane</strong>: “Appassiona oltre 32 milioni di persone e dà lavoro a più di 300.000. Sono numeri che meritano considerazione e rispetto da parte del Governo: versiamo ogni anno 1,2 miliardi di contribuzione, non aiutarci in modo adeguato significa fare un autogol al sistema Italia”, ha dichiarato l&#8217;AD della Lega <strong>Luigi De Siervo</strong> alla <em>Gazzetta dello Sport</em>.</p>



<p>Ma è un’azienda che meriterebbe tutti i ristori di questo mondo se imparasse a comportarsi adeguatamente. Gli acquisti di <strong>Dusan Vlahovic</strong> da parte della <strong>Juventus</strong> e <strong>Robin Gosens</strong> da parte dell&#8217;<strong>Inter</strong>, due delle società con il debito maggiore tra le squadre di Serie A, ci raccontano che al ballo del Titanic, con la nave che affonda, nessuno ha davvero intenzione di fare un passo indietro.</p>



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<h2 id="h-il-calcio-italiano-non-riempie-gli-stadi-e-non-e-colpa-del-covid-19">Il calcio italiano non riempie gli stadi e non è colpa del COVID-19</h2>



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<p>Le società si lamentano per i mancati incassi derivanti dalla pandemia, ma nessuno sa davvero spiegarci un altro dato: da quando la gente è potuta tornare a occupare curve e tribune, <strong>un biglietto su quattro è rimasto invenduto</strong>. E questo nonostante la riduzione delle capienze.</p>



<p>Matteo Pincini scrive su <em>Repubblica</em> che sono, per l&#8217;esattezza, <strong>1.109.618 posti invenduti</strong>. Che vogliono dire 76 milioni di euro di mancati incassi. Non c&#8217;è dubbio che la paura del virus, le inevitabili limitazioni, le mascherine – per la verità molto poco usate – abbiano contribuito a tenere la gente lontana dallo stadio, ma anche prima della pandemia <strong>la Serie A era al nono posto in Europa</strong> <strong>per capacità di riempimento degli impianti</strong>. E anche in questo caso è molto probabile che sia la mancanza di competitività e di ripartizione dei diritti televisivi la causa principale.</p>



<p>Mentre in Inghilterra, Spagna e Francia la Coppa nazionale diventa un torneo che permette a squadre di piccole cittadine di ospitare e sfidare le big nei loro piccoli stadi, in Italia vediamo squadre di Serie B costrette a fare passerella in un San Siro completamente vuoto. Nel frattempo, oltralpe assistiamo alla favola del piccolo Versailles costretto a chiedere un anticipo d&#8217;orario per sfidare il Tolosa perché l&#8217;illuminazione dello stadio disturba la visuale del Re Sole, e del Bergerac – paese di Cyrano – che ospiterà il Saint-Étienne, che tra le sue medaglie al petto annovera una finale di Coppa dei Campioni.</p>



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<h2 id="h-la-corsia-preferenziale-del-calcio-in-pandemia">La corsia preferenziale del calcio in pandemia</h2>



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<p>Il <strong>calcio italiano</strong> si è progressivamente <strong>scollato dal mondo</strong> che gli gira attorno, e non solo per quanto riguarda i ristori. Nell’ultimo biennio si è sentito&nbsp;al di sopra delle regole&nbsp;e del resto del Paese: Vlahovic che per andare a fare le visite mediche con la Juventus non rispetta la quarantena, giocatori che in pieno lockdown vanno in montagna o al mare mentre ai comuni mortali non è permesso andare a un funerale in un Comune diverso, hanno fatto perdere credibilità a tutto il sistema calcio. Che, per intenderci, non è rappresentato solo dalla Serie A.</p>



<p>In quei 300.000 ci sono tutti gli <strong>addetti ai lavori dei settori giovanili e scolastici </strong>che sì avrebbero bisogno di ristori, com’è accaduto in Francia dove 7 milioni su 8 – <em>ah, il modello francese</em> – sono stati garantiti a loro. Perché la pandemia ha tolto a molti ragazzi la possibilità di allenarsi e di giocare, li ha impigriti, e ha reso difficilissimo gestire una piccola società. È dall’ottobre del 2020 che è subentrato un&nbsp;delirio di onnipotenza, dettato probabilmente dalla disperazione per la sofferenza di bilanci già disastrati prima del COVID-19.</p>



<p>La parola preferita dai dirigenti è <strong>default</strong>. Ma non è il calcio a essere a rischio, perché il calcio è un gioco ed esisterà sempre, anche senza gli ingaggi gonfiati dei campioni o le laute commissioni dei procuratori. “Dobbiamo essere competitivi con le grandi d&#8217;Europa” dicono i <strong>dirigenti</strong> italiani. Gli stessi che continuano a veder aumentare i propri guadagni: secondo un dossier pubblicato da <em>Calcio e Finanza </em>un paio di settimane fa, i <strong>compensi ai CDA</strong> <strong>dei sei club italiani</strong> <strong>più in vista</strong> (Inter, Juventus, Lazio, Milan, Napoli e Roma) durante la stagione scorsa hanno raggiunto <strong>12,7 milioni di euro</strong>, in aumento del 16,6% rispetto ai 10,9 milioni del 2019/20 – prima dello scoppio della pandemia.&nbsp;</p>



<p>In testa c&#8217;è la <strong>Roma</strong> con 3.586.000 euro, seguita dal Milan con 3.450.000, dal Napoli con 2.208.000, dall&#8217;Inter con 1.516.000, dalla Juventus con 1.271.000 e dalla Lazio con 687.000.&nbsp;Per quanto riguarda i singoli dirigenti, il più pagato è il presidente del Verona <strong>Maurizio Setti</strong>, che guadagna 3,788 milioni di euro rispetto ai 3,061 milioni della stagione 2019/20. Alle sue spalle, secondo i dati ufficiali, viene il CEO del Milan <strong>Ivan Gazidis</strong>, con un compenso da 3,150 milioni. <strong>Fabio Paratici</strong>, che nel frattempo ha lasciato la Juventus, era il terzo con 2,6 milioni. Secondo quanto riferito dalla <em>Gazzetta dello Sport</em> a suo tempo, l’AD dell’Inter <strong>Giuseppe Marotta</strong> ha un ingaggio da 1,5 milioni di euro a stagione, esclusi i bonus. <strong>Sono le società che rischiano il default, non il calcio</strong>.</p>



<p>Società che hanno avuto dei cattivi amministratori già prima del COVID-19. Basti pensare al <strong>debito del sistema calcio</strong> nel 2019: <strong>4 miliardi e 661 milioni</strong>. Negli ultimi vent’anni sono fallite 170 società, e sette di queste rappresentano le prime dieci città d&#8217;Italia: Napoli, Bologna, Firenze, Torino, Catania, Palermo e Bari.</p>



<p>Il calcio che rischia il default ha già usufruito di una disposizione inserita nella Legge di Bilancio per la <strong>sospensione</strong> dal 1° gennaio al 30 aprile 2022 dei <strong>versamenti delle ritenute fiscali e previdenziali</strong>. Un aiuto concreto, una manovra che rinvia il pagamento delle tasse e delle imposte. A quante aziende è stato permesso? Ha salvato il grosso dei suoi introiti: i <strong>diritti televisivi</strong>. E questo mentre le sale cinematografiche chiudono, i teatri fanno fatica a fare una programmazione, i concerti si tengono praticamente solo in estate.</p>



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<h2 id="h-il-sistema-calcio-chiede-ristori-per-coprire-le-sue-mancanze">Il sistema calcio chiede ristori per coprire le sue mancanze</h2>



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<p><strong>Se il calcio vuole altri aiuti dello Stato, deve iniziare a offrire qualcosa in cambio</strong>, a fare chiarezza su certe dinamiche. Non possiamo più berci i pagherò in nome della competitività in Europa, se in Europa non si vince ormai da dodici anni. Fino a quando i club verseranno cifre folli per comprare giocatori e pagare le mediazioni dei procuratori (quelli di Vlahovic incasseranno 15 milioni, due anni dello stipendio netto del giocatore, per un atleta che a giugno si sarebbe liberato a parametro zero), non potranno fare le vittime. I <strong>limiti</strong> oltre i quali non si può andare dovranno imporli per primi i club e, in seconda battuta, le istituzioni.</p>



<p>L&#8217;<strong>Inter</strong> che campa a debito con un bond da 415 milioni, emesso a copertura di altri debiti, dopo aver acquistato da una diretta concorrente come l&#8217;<strong>Atalanta</strong> uno dei suoi calciatori più forti, è l&#8217;ennesima dimostrazione che il calcio ha delle regole tutte sue. Si tratta della stessa società che ha dato in pegno le proprie azioni alla statunitense Oaktree, la stessa con un rosso nell’ultimo bilancio di 245 milioni. Il tutto mentre la <strong>Juventus</strong> ha dovuto ricapitalizzare 400 milioni dinanzi al rosso di bilancio di 209,9 milioni. <strong>Milan</strong> e <strong>Roma</strong> non se la passano molto meglio. La <strong>Lazio</strong> e il <strong>Napoli</strong>, che provano a mettere i bilanci davanti alla smania di acquistare con i soldi del Monopoli, vengono derise dai loro tifosi, contestate e in alcuni casi abbandonate.</p>



<p>Aprendo un giornale e leggendo della crisi delle imprese si ha la sensazione di due mondi paralleli e non comunicanti. Da un lato gli ingaggi dei calciatori, dall’altro una ditta di Napoli che per un lavoro da receptionist offre 500 euro e tra i requisiti richiede una foto in costume da bagno. Il confine tra morale e retorica è molto labile, ma esistono <strong>modelli molto più virtuosi</strong> – seppur ugualmente capitalistici – del panem et circensem romano: quello <strong>americano</strong>, ad esempio, con un tetto salariale, acquisti regolati in modo da salvaguardare l&#8217;equilibrio dei tornei con le prime scelte e i giovani delle università da promuovere, diritti televisivi ugualmente ripartiti o addirittura maggiori per chi riempie anche gli stadi e i palazzetti.</p>



<p>Franco Ordine, del<em> Giornale</em>, scrive: “Se davvero il premier Draghi dovesse accogliere il grido di dolore del calcio italiano, bisognerebbe comunque applicare al settore, che continua a viaggiare verso gli scogli dei debiti lasciando suonare l’orchestrina di investimenti super e stipendi da mille e una notte, <strong>un minimo di regole</strong>. La più stringente delle quali dovrebbe essere la più semplice: se accetti <strong>soldi dallo Stato</strong>, quindi dai contribuenti, hai l’obbligo di esercitare una <strong>virtuosa amministrazione</strong>. Che vuol dire rispettare la proporzione tra fatturato e monte-stipendi dei tesserati, evitando scommesse molto rischiose nel tentativo di centrare prestigiosi successi o postdatando il pagamento delle operazioni di calcio-mercato”.</p>



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<h2 id="h-cambiare-si-puo-lo-testimonia-il-calcio-oltreconfine">Cambiare si può: lo testimonia il calcio oltreconfine</h2>



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<p>In <strong>Francia </strong>il governo ha stanziato otto miliardi di euro di cui uno – dicasi uno – ai club professionistici.&nbsp;Il punto, come ricorderete, è che la Francia ha una storia ben diversa da quella del calcio italiano in pandemia. Il governo francese sospese la Ligue 1nella primavera del 2020 e non l’ha più fatta ripartire, mentre in Italia il campionato ripartiva alla faccia dei cinema, dei concerti e dei teatri. L’azienda spagnola titolare dei diritti tv è scappata dalla Francia insolvente. Alla ricerca di un calcio più sostenibile, la Ligue 1 ha votato la riduzione del campionato da 20 a 18 squadre.&nbsp;</p>



<p>In <strong>Spagna</strong> la Liga ha previsto un piano di contenimento delle spese “<em>Limite de coste de plantilla deportiva</em>” nel rispetto del budget a disposizione e del monte debitorio. L’Autorità di convalida della Liga approva la soglia dell’uno o dell’altro in base a diverse voci: gli ingaggi, le retribuzioni per la cessione dei diritti d’immagine, gli ammortamenti dei costi di acquisizione dei cartellini, le quote della previdenza sociale.</p>



<p>Il <strong>Real Madrid</strong> ha visto calare il proprio tetto salariale dai 641 milioni del febbraio 2020 fino a 468 milioni e mezzo di euro (-26,9%). L’<strong>Atlético Madrid </strong>è sceso del<strong> </strong>37,5<strong>% </strong>dai 252,7 milioni della stagione 2020/21. Il <strong>Barcellona </strong>ha avuto un limite di spesa fissato a 274 milioni di euro (-41,7% rispetto alla scorsa stagione) e per questo motivo non ha potuto proporre il rinnovo del contratto a Messi. E adesso il Barcellona sta per chiudere un accordo con Spotify che dovrebbe dare il nome al nuovo Camp Nou. </p>



<p>Per una società che non voleva nemmeno il nome dello sponsor sulle maglie è certamente una rivoluzione, ma non si può contemporaneamente continuare a spendere e spandere e rimpiangere i bei tempi andati. Né si può fare la corsa sulla <strong>Premier League</strong> inglese, che ha iniziato la sua rivoluzione con il Thatcher Act e con il rifacimento di tutti gli impianti, oggi sempre pieni perché confortevoli e sicuri. Che poi in Inghilterra abbiano deciso, eliminando restrizioni, limiti e mascherine che la pandemia è finita, è un altro conto. Ma credere che sia il COVID-19 la causa di tutti i mali del calcio italiano è il peggior errore che si possa commettere.</p>



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<p><em>Photo credits: calciomercato.com</em></p>


Quando il calcio chiede privilegi, non ristori


<p>Sono circa <strong>70.000</strong> (69.700) i <strong>lavoratori extracomunitari</strong> che attendono con ansia la fatidica data del <strong>27 gennaio 2022</strong>.</p>



<p>Non si tratta del godibile giorno di paga di chi ha la fortuna di avere un lavoro stabile a tempo indeterminato, ma del giorno in cui il <strong>decreto sui flussi migratori</strong> approvato prima di Natale dal Governo Draghi diventerà operativo, consentendo così a migliaia di extracomunitari di accedere per vie regolari al mercato del lavoro italiano nei settori in cui c’è da tempo una richiesta di manodopera, che non viene coperta tra l’altro da lavoratori italiani o comunitari. Si tratta del settore <strong>edilizia</strong>, di <strong>autisti su gomma</strong>, di <strong>braccianti agricoli</strong>, di <strong>badanti</strong> e del settore <strong>ristorazione</strong>, in particolare cuochi e camerieri.</p>



<p>Forse a causa del caos mediatico sull’elezione del Presidente della Repubblica, i giornali italiani, distratti dalla battaglia per il Quirinale, hanno messo poca enfasi su un aspetto che avrà un peso politico enorme all’interno della compagine governativa che vede seduti allo stesso tavolo i teorici dei respingimenti e quelli dell’integrazione.</p>



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<h2 id="h-decreto-flussi-cade-la-distinzione-tra-rifugiati-e-migranti-economici">Decreto flussi, cade la distinzione tra rifugiati e migranti economici</h2>



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<p>Se si spulcia il Dpcm del 21 dicembre, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 gennaio, serie generale n.12, si scopre infatti che <strong>cade finalmente uno dei muri più insidiosi</strong> eretti dall’ex ministro degli Interni, Matteo Salvini: la distinzione tra chi parte dal proprio Paese in veste di <strong>rifugiato</strong> e chi fugge dal Paese di origine per <strong>ragioni economiche</strong>. Una distinzione infarcita di demagogia e priva di senso che ha consentito alla Lega di guadagnare consensi, ma che ha al tempo stesso bloccato intere aree del mercato del lavoro: ora non c’è più.</p>



<p>Come sostiene l’esperto di emigrazione <strong>Gilet Merrit</strong>, <strong>l’emigrazione è prima di tutto una questione economica</strong>, viste le condizioni disastrose nelle quali versano le economie dei Paesi da cui arriva l’immigrazione. È la fame, prima ancora della guerra, la molla che spinge gli emigranti a fuggire dal loro paese.</p>



<p>L’economista <strong>Bruno Anastasia</strong> non ha dubbi: “Questo decreto segna la fine di un’ipocrisia e incentiva la regolarità”. Altrettanto netto <strong>Oliviero Forti</strong>, responsabile della Caritas: “Questa è un’occasione simbolica per sbloccare il Paese, per anni ostaggio della narrazione salviniana, e per riaprire una stagione di legalità di cui hanno bisogno imprenditori, famiglie e associazioni”.</p>



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<h2 id="h-il-contenuto-del-decreto-flussi-che-fa-infuriare-la-lega-di-salvini">Il contenuto del decreto flussi che fa infuriare la Lega di Salvini</h2>



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<p>Si legge nel decreto flussi: “Nell’ambito della quota, sono riservati <strong>20.000 ingressi per motivi di lavoro subordinato non stagionale</strong>, nei settori dell’autotrasporto merci per conto terzi, dell’edilizia e turistico-alberghiero dei cittadini di Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Herzegovina, Corea (Repubblica di Corea), Costa d’Avorio, Egitto, El Salvador, Etiopia, Filippine, Gambia, Ghana, Giappone, Guatemala, India, Kosovo, Mali, Marocco, Mauritius, Moldova, Montenegro, Niger, Nigeria, Pakistan, Repubblica di Macedonia del Nord, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Ucraina e dei Paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere accordi di cooperazione in materia migratoria”.</p>



<p>Ci sono poi <strong>42.000 quote</strong> che riguardano gli ingressi di cittadini non comunitari per <strong>lavoro subordinato turistico alberghiero</strong>. “Nell’ambito di tale quota, sono riservate 14.000 unità ai lavoratori dei medesimi Paesi le cui istanze saranno presentate, in nome e per conto dei datori di lavoro, dalle seguenti organizzazioni: CIA, Coldiretti, Confagricoltura, Copagri, Alleanza delle Cooperative (comprende Lega cooperative e Confcooperative)”.</p>



<p>Si capisce perché <strong>la Lega di Matteo Salvini</strong> si sia <strong>opposta fino all’ultimo</strong> a questo decreto. Lo spirito è l’opposto della politica del respingimento. Anzi, se la messa a terra del decreto funzionerà verranno disincentivati gli ingressi clandestini e rivitalizzati i settori produttivi per i quali fino a ora si è verificata una carenza di manodopera straniera, che comunque non veniva coperta dalla manodopera domestica.</p>



<p>Certo, l’ombra della <strong>burocrazia</strong> incombe. Anzi si può dire che il principale nemico dell’attuazione di questo decreto è e sarà la mostruosa macchina burocratica statale che avrà il difficile compito di accogliere e valutare le domande di lavoro ex novo che vengono dall’estero ma soprattutto di <strong>convertire lavori precari</strong> già operativi in Italia <strong>in lavori subordinati</strong>.</p>



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<h2 id="h-l-economista-bruno-anastasia-la-crescita-di-occupazione-degli-immigrati-e-superiore-a-quella-degli-italiani-ecco-perche">L’economista Bruno Anastasia: “La crescita di occupazione degli immigrati è superiore a quella degli italiani. Ecco perché”</h2>



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<p>L’attuazione del decreto flussi renderà comunque ancora più evidente un fenomeno che emerge dal rapporto INPS “Lavoratori dipendenti e indipendenti”: <strong>tra gli extracomunitari il tasso di crescita dell’occupazione è maggiore</strong>, soprattutto in alcuni settori.</p>



<p>Scrive l’economista Bruno Anastasia su<em> la Voce,</em> analizzando il rapporto INPS: “Nell’arco del periodo 2014-2019 si segnala la modestissima crescita della quota femminile (dal 43,3 al 43,4 per cento), l’incremento più consistente di quella giovanile (dal 15,1 al 15,5 per cento) e l’aumento robusto di quella degli extracomunitari (dall’8,4 al 9,5 per cento), mentre in direzione opposta è andato il peso del Sud, sceso dal 26,9 al 26,6 per cento (…) gli extracomunitari incidono massicciamente tra i domestici (46 per cento) e gli operai agricoli (21 per cento); rilevante è anche la loro incidenza tra i commercianti (10 per cento); ovviamente non sono presenti tra i dipendenti pubblici e costituiscono un’esigua minoranza di amministratori”. <em>SenzaFiltro </em>lo ha contattato per chiarire questi numeri.</p>



<p>Professor Anastasia, a fronte di questi dati si può dire che si configurano <strong>due mercati del lavoro che vanno in direzioni opposte</strong>? Quello degli extracomunitari in crescita e quello domestico in decrescita?</p>



<p>“In linea di massima i due mercati vanno nella stessa direzione, ma siccome <strong>gli italiani</strong>, come ci dice la demografia, <strong>stanno diminuendo</strong>, il tasso di occupazione degli extracomunitari potrebbe crescere anche se il mercato del lavoro è in discesa. Poi c’è da dire che molto dipende dai <strong>settori</strong>: se va male l’industria manifatturiera va male per tutti, se invece prendiamo il settore costruzioni il rapporto tra i due mercati cambia. E tenga conto che quando parliamo di extracomunitari non abbiamo tenuto conto degli <strong>stranieri europei</strong>, che in alcuni segmenti, come il mercato delle colf e dell’agricoltura, hanno un peso molto importante”.  </p>



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<p><em>Photo credits: meltingpot.org</em></p>


Decreto flussi, schiaffo a Salvini: l&#8217;economia continuano a salvarla i rifugiati

<p>Tra i tanti effetti prodotti dalla pandemia sulle aziende, uno su tutti è stato l’aumento della consapevolezza riguardo l’importanza dell’<strong>innovazione </strong>e della<strong> digitalizzazione</strong>. In questa direzione, anche l’Italia nel PNRR e nella Legge di Bilancio 2022 ha previsto delle misure specifiche per il <strong>Piano di Transizione 4.0</strong>, su cui tuttavia non sono mancate le critiche rispetto a lacune e mancanze, soprattutto riguardo alla continuità con i provvedimenti precedenti e al nodo della <strong>formazione</strong>.</p>
<p>Rispetto a questo tema abbiamo raccolto il parere di <strong>Marco Bentivogli</strong>, coordinatore nazionale di Base Italia, che nel 2016 ha collaborato con il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda alla costruzione del Piano industria 4.0, e con cui nel 2018 ha lanciato il Piano industriale per l’Italia delle competenze.</p>
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<h2 id="h-marco-bentivogli-mancanze-e-limiti-del-piano-di-transizione-4-0">Marco Bentivogli, mancanze e limiti del Piano di Transizione 4.0</h2>
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<p>“Non c’è una consapevolezza ancora adeguata da parte del Governo della necessità per le imprese degli interventi nel campo della Transizione 4.0, non è percepito come un tema urgente. Al contrario, tra le tante accelerazioni prodotte dalla pandemia, quella tecnologica è la più dirompente, e la <strong>necessità di politiche di sostegno e indirizzo </strong>è fondamentale”, dichiara Bentivogli.</p>
<p>“Rispetto alle prime bozze di PNRR oggi siamo a livelli migliori, ma a mio avviso è grave che non si tenga conto che in Italia non c’è solo bisogno di far accedere le imprese a nuove tecnologie, ma anche di <strong>condizionare in senso virtuoso i nuovi ecosistemi dell’innovazione</strong> che si stanno creando.”</p>
<p>Il percorso di trasformazione digitale del mondo delle aziende in Italia è iniziato nel <strong>2016</strong> con il <strong>Piano Industria 4.0 </strong>(poi rinominato Impresa 4.0 e oggi Transizione 4.0). Uno strumento creato e via via modificato per realizzare una <strong>rivoluzione culturale all’interno delle imprese</strong>, in un’ottica in primis di aumento della produttività (a partire dallo svecchiamento del parco macchine), e successivamente di miglioramento dei modelli organizzativi, passando per l’acquisizione delle giuste competenze, sia a livelli apicali che delle maestranze.</p>
<p>Il Piano, in misura diversa durante le sue fasi, ha dato il via agli<strong> investimenti in digitalizzazione</strong> da parte delle imprese del Paese, se pur con una <strong>pervasività minore nel mondo delle PMI </strong>e con un netto <strong>divario Nord/Sud.</strong></p>
<p>Una situazione poi resa più complessa, secondo Bentivogli, dalle scelte del <strong>Governo Conte 1</strong>, “che ha sostanzialmente messo in soffitta l’idea di incentivare l’acquisizione di tecnologie, impianti e macchinari. A causa di questo stop, nel periodo pre-COVID c’è stato un vero e proprio <strong>crollo nell’installazione di nuovi impianti</strong>, una situazione che ha anticipato i guai della pandemia, durante la quale si sono poi trascinate le conseguenze negative di queste scelte”.</p>
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<h2 id="h-dove-il-piano-non-funziona-fondi-piu-che-dimezzati-e-poca-cura-della-formazione">Dove il piano non funziona: fondi più che dimezzati e poca cura della formazione</h2>
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<p>Il percorso è stato poi ripreso dai governi successivi, in particolare con il PNRR, anche se nella Legge di Bilancio 2022 <strong>l’annuncio di risorse </strong>dedicate al Piano Transizione 4.0 è stato <strong>ridimensionato </strong>(da 24 a 13,28 miliardi di euro per il triennio 2023-2025).</p>
<p>Se da un lato infatti è positivo che il Governo abbia voluto dare continuità alla misura (rinnovi previsti sino al 2025 per i beni strumentali materiali e immateriali e per attività di innovazione e design, fino al 2031 per le attività di ricerca e sviluppo), va comunque sottolineato che il nuovo piano<strong> riduce progressivamente le aliquote </strong>su tutte le misure per il 4.0., e non prevede la proroga dopo il 2022 per il <strong>credito per la Formazione 4.0.</strong></p>
<p>“Il credito d’imposta per la formazione è uno dei tasselli del Piano che è andato meno bene”, commenta Bentivogli. “Io ho sempre sottolineato questo problema, che riguarda sia la qualità media della formazione che si fa in Italia che la quantità. Il tutto poi è continuamente in affanno a causa della <strong>mancanza in Italia </strong>di una struttura di innovazione secondo il<strong> modello a rete Fraunhofer</strong>, che invece in Germania funziona in maniera molto positiva. Sono un grande sostenitore di una rete su questo modello, sia perché è una struttura a<strong> finanziamento pubblico-privato</strong>, sia perché essendo diffusa su tutto il territorio nazionale mette in relazione le migliori realtà di eccellenza nell’innovazione. Un sistema che consente di sedimentare nel territorio, e non solo nel rapporto tra le imprese, i percorsi e le competenze dei vari processi di innovazione tecnologica.”</p>
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<h2 id="h-che-cos-e-il-modello-a-rete-fraunhofer-e-il-nuovo-ruolo-degli-its">Che cos’è il modello a rete Fraunhofer e il nuovo ruolo degli ITS</h2>
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<p>La <strong>società pubblica Fraunhofer Gesellschaft</strong> è articolata in più di settanta centri sui diversi territori e comparti tecnologici, dotata di attrezzature e personale specializzato. Ha un <strong>budget annuo di 2,8 miliardi di euro</strong> (finanziati per un terzo dallo Stato federale e dagli Stati-Regione Länder, un terzo dalle imprese private e un terzo da bandi di gara con finanziamenti pubblici e appalti nazionali e internazionali), e il rapporto tra la spesa pubblica e il ritorno in termini di PIL prodotto è di 1 a 3-4 euro.</p>
<p>Un’esperienza che secondo Bentivogli <strong>l’Italia</strong> sbaglia a non voler seguire, preferendo il sistema dei <strong>Competence Center</strong>, dove il ruolo principale viene svolto dalle <strong>università</strong>. Il rischio di questo sistema è che non resti competenza nei processi di innovazione “se si svolge un ruolo, comunque importante, ma solo di interfaccia. Bisogna integrare i Competence Center con le altre eccellenze su ruoli chiari e distinti”.</p>
<p>Secondo quanto previsto dal Governo, <strong>in Italia ci sono otto Competence Center</strong>, che da un lato hanno il compito di attuare&nbsp;attività di orientamento e formazione alle imprese, e dall’altro di supportare le aziende nella realizzazione di progetti di innovazione, ricerca e sviluppo per la creazione nuovi prodotti, processi o servizi.</p>
<p>“Ma come possono le PMI rivolgersi a un dipartimento universitario per realizzare i loro progetti? Si è voluto puntare su grandi centri, immaginando di rendere così le competenze specifiche e concentrate in un territorio. Diversamente, il <strong>modello tedesco</strong> prevede che <strong>le università facciano la ricerca di base, </strong>mentre quella<strong> applicata </strong>spetta ai<strong> centri Fraunhofer</strong>”. Un sistema che per Bentivogli consente di attivare percorsi di innovazione diversi con le aziende, strutturati in modo tale che competenze e tecnologie siano elaborate in modo da essere replicabili e ripetibili, abbassando così i costi di accesso all’innovazione.</p>
<p>Inoltre, l’importanza data alle università dal modello italiano secondo Bentivogli è un limite anche rispetto al <strong>potenziale formativo degli ITS</strong>, che dovrebbero invece essere potenziati e valorizzati per favorire la formazione professionale.</p>
<p>“Il PNRR dovrebbe fare in modo che nei prossimi anni ci siano <strong>un milione di studenti negli ITS </strong>collegati a<strong> un milione di contratti di apprendistato, sia al Nord che al Sud</strong>: questa è una sfida vera. Abbiamo perso circa un milione di posti di lavoro durante la pandemia, e questo sarebbe un modo non solo di ricostruire occasioni di lavoro, ma anche di dare alle persone una qualifica adeguata. In tutto il mondo avanzato si usano strumenti di questo tipo: in Svizzera ad esempio hanno registrato un’occupabilità dell’80% stabile entro il primo anno dal diploma, e il salario è più alto di chi esce dal triennio dell’università.”</p>
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<h2 id="h-bentivogli-quanta-mancanza-di-cultura-imprenditoriale-l-innovazione-ben-fatta-crea-posti-di-lavoro">Bentivogli: “Quanta mancanza di cultura imprenditoriale: l’innovazione ben fatta crea posti di lavoro”</h2>
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<p>Per Bentivogli, oltre alla formazione, il problema resta la <strong>mancanza di cultura imprenditoriale sui temi dell’innovazione tecnologica</strong>.</p>
<p>“Qualche anno fa c’è stata un’indagine di Infocamere secondo cui quattro imprenditori su dieci consideravano Internet inutile, un dato che testimonia un problema di diffusione di una cultura dell’innovazione. Nel nostro Paese si deve ancora spiegare che non bisogna essere ostili alla robotica perché non toglie posti di lavoro, mentre al contrario l&#8217;<strong>innovazione ben fatta crea posti di lavoro di qualità</strong> e ben remunerati. Io mi rifaccio sempre a un indicatore, che è quello della densità della robotica (il numero di robot ogni 10.000 lavoratori): i primi quattro Paesi per installo della robotica (Corea del Sud, Singapore, Giappone e Germania) sono anche i Paesi a più bassa disoccupazione”.</p>
<p>Per favorire questo cambiamento culturale, e garantire alle imprese la possibilità di fare piani di investimento nel lungo periodo, come dichiara Bentivogli servono soprattutto <strong>una continuità di visione e persone che conoscano il mondo delle aziende</strong>: “Misure e interventi che vengono modificati a seguito di un cambio legislativo non sono utili. Diversamente, la loro revisione dovrebbe essere fatta in base ai cambiamenti di scenario in atto nell’economia, con un testing degli strumenti prima di lanciarli su larga scala”.</p>
<p>In conclusione, la crisi creata dalla diffusione del COVID-19 ha mostrato come le aziende in grado di avere una maggiore resilienza sono state proprio quelle che avevano investito di più nel digitale prima dell’avvento della pandemia. Il potenziale delle tecnologie 4.0 per le imprese non riguarda solo i possibili aumenti di produttività, ma più in generale il <strong>miglioramento di tutta l’organizzazione aziendale</strong> e del benessere delle persone. Il solo acquisto di macchinari, se non integrato in una visione strategica più ampia che preveda un cambiamento culturale all’interno dell’impresa, può fare ben poco.</p>
<p>Servirebbe una nuova riflessione sul percorso fatto sino a oggi dai piani per il 4.0 delle imprese, per fare chiarezza sugli obiettivi e sui mezzi per raggiungerli. Diversamente, il rischio è quello che vengano portati avanti <strong>progetti vuoti</strong>, un tanto al chilo, per giustificare che il bando ha avuto successo. Non possiamo permetterci che l’Italia perda un altro treno nella strada per la crescita e l’innovazione del Paese.</p>
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Marco Bentivogli: “Transizione 4.0? Nella Legge di Bilancio investimenti dimezzati rispetto alla prima stesura”

Il coordinatore nazionale di Base Italia, sulle lacune del Piano di Transizione 4.0: &#8220;È una mancanza culturale, aggravata dalle falle del sistema formativo. Ma l&#8217;innovazione ben fatta crea posti di lavoro di qualità&#8221;.

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Michela De Biasio

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