Marco Bentivogli: “Transizione 4.0? Nella Legge di Bilancio investimenti dimezzati rispetto alla prima stesura”

Il coordinatore nazionale di Base Italia, sulle lacune del Piano di Transizione 4.0: “È una mancanza culturale, aggravata dalle falle del sistema formativo. Ma l’innovazione ben fatta crea posti di lavoro di qualità”.

Tra i tanti effetti prodotti dalla pandemia sulle aziende, uno su tutti è stato l’aumento della consapevolezza riguardo l’importanza dell’innovazione e della digitalizzazione. In questa direzione, anche l’Italia nel PNRR e nella Legge di Bilancio 2022 ha previsto delle misure specifiche per il Piano di Transizione 4.0, su cui tuttavia non sono mancate le critiche rispetto a lacune e mancanze, soprattutto riguardo alla continuità con i provvedimenti precedenti e al nodo della formazione.

Rispetto a questo tema abbiamo raccolto il parere di Marco Bentivogli, coordinatore nazionale di Base Italia, che nel 2016 ha collaborato con il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda alla costruzione del Piano industria 4.0, e con cui nel 2018 ha lanciato il Piano industriale per l’Italia delle competenze.

Marco Bentivogli, mancanze e limiti del Piano di Transizione 4.0

“Non c’è una consapevolezza ancora adeguata da parte del Governo della necessità per le imprese degli interventi nel campo della Transizione 4.0, non è percepito come un tema urgente. Al contrario, tra le tante accelerazioni prodotte dalla pandemia, quella tecnologica è la più dirompente, e la necessità di politiche di sostegno e indirizzo è fondamentale”, dichiara Bentivogli.

“Rispetto alle prime bozze di PNRR oggi siamo a livelli migliori, ma a mio avviso è grave che non si tenga conto che in Italia non c’è solo bisogno di far accedere le imprese a nuove tecnologie, ma anche di condizionare in senso virtuoso i nuovi ecosistemi dell’innovazione che si stanno creando.”

Il percorso di trasformazione digitale del mondo delle aziende in Italia è iniziato nel 2016 con il Piano Industria 4.0 (poi rinominato Impresa 4.0 e oggi Transizione 4.0). Uno strumento creato e via via modificato per realizzare una rivoluzione culturale all’interno delle imprese, in un’ottica in primis di aumento della produttività (a partire dallo svecchiamento del parco macchine), e successivamente di miglioramento dei modelli organizzativi, passando per l’acquisizione delle giuste competenze, sia a livelli apicali che delle maestranze.

Il Piano, in misura diversa durante le sue fasi, ha dato il via agli investimenti in digitalizzazione da parte delle imprese del Paese, se pur con una pervasività minore nel mondo delle PMI e con un netto divario Nord/Sud.

Una situazione poi resa più complessa, secondo Bentivogli, dalle scelte del Governo Conte 1, “che ha sostanzialmente messo in soffitta l’idea di incentivare l’acquisizione di tecnologie, impianti e macchinari. A causa di questo stop, nel periodo pre-COVID c’è stato un vero e proprio crollo nell’installazione di nuovi impianti, una situazione che ha anticipato i guai della pandemia, durante la quale si sono poi trascinate le conseguenze negative di queste scelte”.

Dove il piano non funziona: fondi più che dimezzati e poca cura della formazione

Il percorso è stato poi ripreso dai governi successivi, in particolare con il PNRR, anche se nella Legge di Bilancio 2022 l’annuncio di risorse dedicate al Piano Transizione 4.0 è stato ridimensionato (da 24 a 13,28 miliardi di euro per il triennio 2023-2025).

Se da un lato infatti è positivo che il Governo abbia voluto dare continuità alla misura (rinnovi previsti sino al 2025 per i beni strumentali materiali e immateriali e per attività di innovazione e design, fino al 2031 per le attività di ricerca e sviluppo), va comunque sottolineato che il nuovo piano riduce progressivamente le aliquote su tutte le misure per il 4.0., e non prevede la proroga dopo il 2022 per il credito per la Formazione 4.0.

“Il credito d’imposta per la formazione è uno dei tasselli del Piano che è andato meno bene”, commenta Bentivogli. “Io ho sempre sottolineato questo problema, che riguarda sia la qualità media della formazione che si fa in Italia che la quantità. Il tutto poi è continuamente in affanno a causa della mancanza in Italia di una struttura di innovazione secondo il modello a rete Fraunhofer, che invece in Germania funziona in maniera molto positiva. Sono un grande sostenitore di una rete su questo modello, sia perché è una struttura a finanziamento pubblico-privato, sia perché essendo diffusa su tutto il territorio nazionale mette in relazione le migliori realtà di eccellenza nell’innovazione. Un sistema che consente di sedimentare nel territorio, e non solo nel rapporto tra le imprese, i percorsi e le competenze dei vari processi di innovazione tecnologica.”

Che cos’è il modello a rete Fraunhofer e il nuovo ruolo degli ITS

La società pubblica Fraunhofer Gesellschaft è articolata in più di settanta centri sui diversi territori e comparti tecnologici, dotata di attrezzature e personale specializzato. Ha un budget annuo di 2,8 miliardi di euro (finanziati per un terzo dallo Stato federale e dagli Stati-Regione Länder, un terzo dalle imprese private e un terzo da bandi di gara con finanziamenti pubblici e appalti nazionali e internazionali), e il rapporto tra la spesa pubblica e il ritorno in termini di PIL prodotto è di 1 a 3-4 euro.

Un’esperienza che secondo Bentivogli l’Italia sbaglia a non voler seguire, preferendo il sistema dei Competence Center, dove il ruolo principale viene svolto dalle università. Il rischio di questo sistema è che non resti competenza nei processi di innovazione “se si svolge un ruolo, comunque importante, ma solo di interfaccia. Bisogna integrare i Competence Center con le altre eccellenze su ruoli chiari e distinti”.

Secondo quanto previsto dal Governo, in Italia ci sono otto Competence Center, che da un lato hanno il compito di attuare attività di orientamento e formazione alle imprese, e dall’altro di supportare le aziende nella realizzazione di progetti di innovazione, ricerca e sviluppo per la creazione nuovi prodotti, processi o servizi.

“Ma come possono le PMI rivolgersi a un dipartimento universitario per realizzare i loro progetti? Si è voluto puntare su grandi centri, immaginando di rendere così le competenze specifiche e concentrate in un territorio. Diversamente, il modello tedesco prevede che le università facciano la ricerca di base, mentre quella applicata spetta ai centri Fraunhofer”. Un sistema che per Bentivogli consente di attivare percorsi di innovazione diversi con le aziende, strutturati in modo tale che competenze e tecnologie siano elaborate in modo da essere replicabili e ripetibili, abbassando così i costi di accesso all’innovazione.

Inoltre, l’importanza data alle università dal modello italiano secondo Bentivogli è un limite anche rispetto al potenziale formativo degli ITS, che dovrebbero invece essere potenziati e valorizzati per favorire la formazione professionale.

“Il PNRR dovrebbe fare in modo che nei prossimi anni ci siano un milione di studenti negli ITS collegati a un milione di contratti di apprendistato, sia al Nord che al Sud: questa è una sfida vera. Abbiamo perso circa un milione di posti di lavoro durante la pandemia, e questo sarebbe un modo non solo di ricostruire occasioni di lavoro, ma anche di dare alle persone una qualifica adeguata. In tutto il mondo avanzato si usano strumenti di questo tipo: in Svizzera ad esempio hanno registrato un’occupabilità dell’80% stabile entro il primo anno dal diploma, e il salario è più alto di chi esce dal triennio dell’università.”

Bentivogli: “Quanta mancanza di cultura imprenditoriale: l’innovazione ben fatta crea posti di lavoro”

Per Bentivogli, oltre alla formazione, il problema resta la mancanza di cultura imprenditoriale sui temi dell’innovazione tecnologica.

“Qualche anno fa c’è stata un’indagine di Infocamere secondo cui quattro imprenditori su dieci consideravano Internet inutile, un dato che testimonia un problema di diffusione di una cultura dell’innovazione. Nel nostro Paese si deve ancora spiegare che non bisogna essere ostili alla robotica perché non toglie posti di lavoro, mentre al contrario l’innovazione ben fatta crea posti di lavoro di qualità e ben remunerati. Io mi rifaccio sempre a un indicatore, che è quello della densità della robotica (il numero di robot ogni 10.000 lavoratori): i primi quattro Paesi per installo della robotica (Corea del Sud, Singapore, Giappone e Germania) sono anche i Paesi a più bassa disoccupazione”.

Per favorire questo cambiamento culturale, e garantire alle imprese la possibilità di fare piani di investimento nel lungo periodo, come dichiara Bentivogli servono soprattutto una continuità di visione e persone che conoscano il mondo delle aziende: “Misure e interventi che vengono modificati a seguito di un cambio legislativo non sono utili. Diversamente, la loro revisione dovrebbe essere fatta in base ai cambiamenti di scenario in atto nell’economia, con un testing degli strumenti prima di lanciarli su larga scala”.

In conclusione, la crisi creata dalla diffusione del COVID-19 ha mostrato come le aziende in grado di avere una maggiore resilienza sono state proprio quelle che avevano investito di più nel digitale prima dell’avvento della pandemia. Il potenziale delle tecnologie 4.0 per le imprese non riguarda solo i possibili aumenti di produttività, ma più in generale il miglioramento di tutta l’organizzazione aziendale e del benessere delle persone. Il solo acquisto di macchinari, se non integrato in una visione strategica più ampia che preveda un cambiamento culturale all’interno dell’impresa, può fare ben poco.

Servirebbe una nuova riflessione sul percorso fatto sino a oggi dai piani per il 4.0 delle imprese, per fare chiarezza sugli obiettivi e sui mezzi per raggiungerli. Diversamente, il rischio è quello che vengano portati avanti progetti vuoti, un tanto al chilo, per giustificare che il bando ha avuto successo. Non possiamo permetterci che l’Italia perda un altro treno nella strada per la crescita e l’innovazione del Paese.


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